Nino Iannace
( Dipinto del genero Ergilio Monaco)
E rifacendo un giro con la memoria sul motociclo a 3 ruote
de lu macellare de Lentelle, ne aveva un altro
negli anni '50, uno dei primi esemplari di Ape scoperta
della Piaggio, Angelo Iannace (1919-2005), detto
Nine
lu napuletane, per via del fatto che aveva un forte
accento campano, essendo nato a Montesarchio (BN).
La storia di
Nine lu napuletane è comune ad altri
frastire, che militari a San Salvo durante la
guerra, alla fine si sposarono con ragazze del luogo (ve
ne furono anche taluni di diverse nazionalità, non tutti
però rimasti a San Salvo).
Successe che al
soldato Nino, gli si erano strappati i pantaloni militari
e si presentò da
Za' Giuvannina (Giovanna Di
Falco - 1915-2013), che da giovane faceva la sarta,
chiedendole di ricuciglierli.
Za’ Giuvuannine,
all’inizio tergiversò, ma poi ripensando ai suoi tre
fratelli Carmine e Vitale, che erano morti in guerra, ed a
Nicolino, ucciso dai tedeschi il il 3 Novembre 1943,
giorno dell'entrata degli alleati a San Salvo, gli si
straziò il cuore alla vista di quel povero ragazzo, e
senza dargli troppa confidenza, prese ago e filo e glie li
ricucì.
Il giorno seguente si vide arrivare
a la casa so' (a
casa sua),
Ntuniatte la Parandonie (Antonietta
Pierantoni), di origine ortonese, sarta, la quale, tra
l’altro, faceva anche
l’ammasciatrece (combinava i
matrimoni).
Grande fu la sopresa di
Za’ Giuvuannine quando
'Nduniatte le disse che quel soldato, di qualche
anno più giovane di lei, al quale il giorno prima aveva
ricucito i pantaloni, voleva sposarla.
Za' Giuvuannine,
ancora una volta tergiversò, ma alla fine, complice il
destino, accettò. Era il 15 febbraio 1945 quando si
sposarono.
Non si seppe mai se il soldato Nino si strappò volutamente
i pantaloni.
Nino, smessa la divisa militare, che era l'unico abito che
possedeva, indossò gli abiti civili, ma non era nato con
la camicia. L'unica ricchezza che aveva, oltre alla sua
tromba, era la gioventù, la voglia di vivere e tanta forza
nelle braccia.
Eravamo nell'immediato dopoguerra e molti giovani non
avevano molte alternative di lavoro, se non
lu zappàune
(la zappa). La vita stava faticosamente ricominciando. I
figli dei benestanti, che già prima della guerra
studiavano fuori, tornarono a frequentare le scuole e le
università; qualcun altro, la cui famiglia era povera,
venne mandato a studiare
a li pridde (dai preti);
altri
javene a lu mastre (andavano ad imparare un
mestiere ad un artigiano) ed altri ancora ricominciarono
a
je' zappa' a jurnuate (a zappare a pagamento le
terre degli altri, pagati per ogni giorno di lavoro
svolto).
Nino, che possedeva solo la sua tromba, si comprò una
zappa e si unì a loro.
Era una bella squadra di zappatori, composta da
Bastijane Valendéne (Sebastiano Valentini),
Bastijane
D'Addario, che fungevano un po' da capi squadra, poi
Miuccie (Emilio) Di Cola, Angelo Del Nero,
Angiuline
Ialacci,
Iuccie (Silverio) Marzocchetti,
Ntonie (Antonio) Chioditti, un certo Pellicciotta di
Montenero di Bisaccia e naturalmente il nostro Nino.
Avevano due tariffe prestabilite.
Una giornata a zappare costava 400 lire a persona, se a
mezzogiorno il padrone della terra
j j'ave a purta a
magnà 'ncampagne (portava loro da mangiare in
campagna); 500 lire, invece, se dovevano portarsi qualcosa
loro da casa.
L'esperienza li aveva portati a conoscere bene come li
avrebbero trattati i proprietari dei terreni e quindi,
quando sapevano che il pranzo sarebbe stato ottimo,
preferivano adottare la prima tariffa, cioè 400 lire a
testa, in caso contrario, invece, quando il padrone era
nu
spezzecacacate (attento alle spese), applicavano il
prezzo massimo, 500 lire, provvedendo da soli a portarsi
da casa
la mmappatélle (due fette di pane)
nghe
lu cumpuanatéche (in genere mortadella).
Nel patto, che valeva per tutti, generosi e
carastìuse
(avari), era compresa una bottiglia di vino a testa che il
proprietario del terreno doveva consegnare loro al
mattino, affinchè potessero dissetarsi durante la lunga
giornata. Spesso capitava che il vino ere
tràute
(era torbido), ma era sempre meglio dell'acqua
di lu
puìzze (del pozzo). Lavoravano dall'alba sino al
calar del sole con soste di ristoro ad orari prestabiliti.
Alle 6:30 facevano
la viviticce (una sosta con
piccola bevuta); alle 8:30 la colazione; verso mezzogiorno
ze magnáve (si pranzava) e
a ventenàure
(ventunora, alle tre del pomeriggio, ora della morte di
Cristo, annunciata con 33 rintocchi di campana)
la
stuzzàtte (la merenda), in cui mangiavano
nu
tarálle (un tarallo), accompagnato dal solito
sijzze
de vene (singhiozzo, goccio di vino).
Nino, in quel periodo, per migliorare la sua condizione
economica, si era comprato degli animali domestici, che
allevava in una stalla in 3° Vico Garibaldi, con lo scopo,
prima o poi, di venderli, Per questo motivo, ogni mattina,
si portava dietro,
attacchiti a ‘na capàzze
(legati ad una fune), un asino, una capra e
nu pórcie
(un maiale), in modo che, mentre egli zappava, gli animali
potessero pascere.
Un giorno, insieme agli amici, andò a zappare la terra di
Nicola Mastrocola, che si trovava nella piana sottostante
la chiesetta di San Rocco, e legò il suo asino ad un
albero con una corda molta lunga.
"
E di chi è st'asene!" (Di chi è quest'asino),
udirono all'improvviso sbraitare con accento casalano
Pasqualino Onofrillo, il padrone della terra adiacente, la
cui famiglia era originaria di Casoli.
"
E' lu mie'" (E' mio), rispose Nino con il suo
forte accento campano.
"
Nci vede c'ha messe máne a la rampalupina me'!"
(Non vedi che sta mangiando la mia erba sulla?). "
Nciavastéve
la grannéle!" (Non bastava la grandine!), aggiunse."
Pure
l'asena te mo' ci zi mette!"(Anche l'asino tuo ci
mancava!), concluse.
Nino, volgendo lo sguardo in cielo, rivolgendosi
direttamente al suo asino, che con le orecchie tese pareva
ascoltarlo, gli disse: "
Ah povere asene mìje! Tu senza
paje e j' senza pane" (Ah povero asino mio! Tu senza
paglia ed io senza pane).
Pasqualino restò divertito dal dialogo di Nino con il suo
asino, e comprendendo le difficoltà di quel giovanotto,
andò via sorridendo.
Nino, con il suo
immancabile basco in testa, insieme ad un suo puledro
che allevava per rivendere. La foto è stata scattata
all'imbocco da C.so Garibaldi nell'appena realizzata
Via De Vito. La foto è significativa perché sullo
sfondo passa la pustale (la modernità), che
nasconde la putéche de Mastre Roche lu ferrare,
il maniscalco.
Le metetiure de la
muntagne
e la trebbiatura
Ma non era solo Nino ad essere in difficoltà in quei
giorni. Chi aveva un po' di terreno, riusciva sempre a
cavarsela, mettendo qualcosa sotto i denti, ma per la gran
parte della gente, anche dei dintorni, la fame era nera.
Erano quelli ancora i tempi in cui per qualche soldo ed un
piatto di minestra, nel mese di giugno, scendevano
li
mititìure da la muntagne (i mietitori dalla
montagna). Scendevano
a le Pije (alle Puglie),
così chiamavano loro la nostra zona litoranea, e venivano
in gran parte da centri dell'alto vastese. Partivano senza
alcun contratto, all'avventura, sperando che qualcuno li
facesse lavorare. Spesso arrivavano a piedi, o con la
corriera, se la zona di partenza ne era servita. Ad
esempio chi partiva da Castelguidone faceva prima un'ora
di cammino a piedi sino a San Giovanni Lipioni e da lì
prendeva l'autobus.
Era davvero una vitaccia la loro.
Appena arrivavano, la prima tappa era all'Ufficio di
Collocamento Mietitori Posto di Ristoro, appositamente
allestito in C.so Garibaldi, che dava loro
'na pajàtte
da mititàure (una grossa paglietta da mietitore) e
qualche minima forma di assistenza, e poi si avviavano
verso l'Arco della Terra, il loro quartier generale, dove
bivaccavano in attesa che qualcuno li chiamasse.
Era un mercato del lavoro che ricordava molto da vicino la
tratta degli schiavi.
La loro giornata lavorativa si svolgeva all'incirca in
questo modo.
All'alba, il padrone del terreno, passava
nghe lu
trajéne (sopra il carretto) e dopo averli scrutati
uno ad uno,
le capáve (ne sceglieva alcuni), e se
li portava in campagna. Al calar del sole li ricaricava
sopra
a lu trajéne, e li riportava in paese.
Dormivano sotto le stelle, sdraiati sul marciapiede in
C.so Umberto I, dirimpetto all'Arco della Terra, sotto il
quale non tutti riuscivano a trovare riparo in caso di
pioggia.
Il giorno seguente stessa storia.
Ripartivano per i loro paesi al termine della mietitura,
quando lasciato
lu manuppúlame (tutti i covoni) in
campagna, per farli esiccare al sole, con qualche lira in
tasca che avevano guadagnato, riprendevano la via di casa.
Ufficio Collocamento -
Mietitori Posto di Ristoro. Nella foto alcuni
mietitori con il medico condotto dr. Vitaliano Ciocco,
potente gerarca fascista, atto a svolgerele una visita
sanitaria ad un neo arrivato.
Nonostante i mieititori fossero ripartiti, negli assolati
campi di grano il lavoro però non era finito.
A luglio inoltrato,
z'aveva tresca' (si doveva
trebbiare) e le campagne si ripopolavano di contadini e
operai.
Trebbiare era un lavoro lunghissimo, faticoso, meticoloso.
Non c’erano ancora le mietitrebbie, che come oggi, in
poche ore, con il conducente in cabina con l’aria
condizionata, miete e trebbia contemporaneamente interi
campi di grano. A quei tempi c’era solo la trebbia ed era
già una grossa fortuna perché prima si trebbiava con il
bestiame.
Trebbiare con il bestiame era un lavoro immane.
Bisognava prima preparare
l'are (l'aia), che era
uno spiazzo rialzato di terreno, generalmente a forma
circolare, dove doveva avvenire la trebbiatura. Poi lo si
doveva bagnare per giorni e giorni per indurirne il
terreno come una pietra. Quando tutto era pronto si
portavano
'nghe le trajéne (con i carretti)
li
manuppele (i covoni) nei pressi dell'aia e si
realizzava
la màte de grane, che era una
montagnola di fascine di grano, raccolte e legate tra di
loro, già preparate durante la mietitura (
lu
manuppulame), che erano state lasciate ad esiccare
al sole nelle campagne. A questo punto
li manuppele
venivano buttati sull’aia e calpestati dagli zoccoli degli
animali, che girando e rigirando sui covoni, avrebbero
dato inizio ad un primo procedimento di separazione dei
chicchi di grano
da la came (dalla pula).
Era uno spettacolo vedere quegli animali girare sull'aia,
sopratutto i cavalli.
Ogni tanto, chi li comandava, come in una quadriglia,
invertiva il loro senso di marcia per far pestare in modo
uniforme
le manuppele. Poi, quando l'occhio
esperto riteneva che la separazione fosse giunta a buon
punto, si toglievano gli animali dall'aia e si iniziava
a
ventelà (ventilare). Questa era un'operazione che
consisteva nel lanciare in aria, infilzandoli con le
forche, tutti i covoni pestati, confidando nell'azione del
vento che avrebbe fatto volare lontano la pula e la
paglia, più leggere, e ricadere nell'aia i chicchi di
grano, più pesanti. Il lavoro era quasi finito, ma
un'altra operazione mancava: ripulire ancora il grano
dalle ultime impurità rimaste, usando un grosso setaccio (
lu
crivillàune), sostenuto da cordame legato a tre
pali.
Momenti di trebbiatura con
gli animali.
Successiva fase di pulizia
del grano nghe lu cruvullàune.
L'arrivo delle trebbie
Per fortuna ai tempi di Nino e dei nostri amici che
andavano
a zappa' a jurnate, questo antico modo di
trebbiare con gli animali, era stato ormai superato.
C'erano le trebbie, che già prima della guerra, rendevano
il lavoro più celere e meno faticoso.
Ne arrivavano parecchie di trebbie a San Salvo a quei
tempi, tutte da fuori.
La più antica e famosa, sicuramente quella più rimasta
nella memoria collettiva, era la
trébbie de Pajàte
(la trebbia di Paglieta), che arrivava in treno alla
stazione. La prima tappa la faceva, risalendo verso la
pianura, al campo di grano
de Gelarde (di Gerardo
D'Aloisio), il procaccia postale, che era a due passi
dalla stazione ferroviaria. Poi in base ad un programma
già prestabilito, si spostava in altre zone. Ad
organizzarne il programma era Nicola Sabatini (detto
Cocò), calzolaio, che abitava in Via Savoia, il quale
fungeva come una specie di rappresentante locale del
proprietario della trebbia.
Ma non solo la trebbia di Paglieta veniva a San Salvo.
Vi era
la machene de Piazzane (la trebbia di
Piazzano), quella di
San Pitre Avellane (San
Pietro Avellana), un'altra di
Ciangutténe, che era
il cognome del proprietario della trebbia, di Montenero di
Bisaccia.
Com'era nella cultura contadina dell'epoca, non mancavano
filastrocche in rima sulla loro efficienza.
Una di queste diceva: "
La machene de Pajate ugne haure
fa 'na màte. La machene de Ciangutténe fa
remaùre, ma nen caméne". (La macchina di Paglieta
ogni ora trebbia una meta di grano. La macchina di
Ciangottini fa rumore, ma non cammina).
A dire il vero non è che in zona non vi fosse nemmeno una
trebbia. Una c'era e l'aveva acquistata nel '39
Don
Giorgie (Don Giorgio Di Michele) che trebbiava però
unicamente i terreni dell'Azienda D'Avalos a Montalfano,
in agro di Cupello, di cui ne era il fattore. Il lavoro
durava oltre un mese. Si dice che Don Giorgio, essendo sua
la trebbia, faceva trebbiare prima i terreni di cui ne era
il diretto responsabile e poi la faceva spostare a quelli
dei contadini affittuari, che spesso erano costretti a
trebbiare quasi fuori tempo massimo. Era lo scotto da
pagare da parte di chi aveva in affitto i terreni.
Al seguito di questa trebbia, essendo Montalfano a due
passi da San Salvo, vi era sempre un gruppo di operai
sansalvesi che a turno facevano ritono a casa, una volta
alla settimana, per far lavare i panni sporchi e riposarsi
un po'.
Si racconta che un giorno,
Ze' Mecchéle di Caifasse
(Michele Suero), che poverino era orbo ad un occhio, il
quale
appresse a la trebbie di Don Giorgie
(dietro la trebbia),
faciave lu tummuláre
(riempiva i sacchi di grano), fece ritorno anch'egli a
casa e appena rientrato, chiese a
Za' Irme, sua
moglie di...
Ma sul più bello qualcuno bussò alla porta.
"
Ascegne! Ascegne! E' minìute cacchidìune" (Scendi!
Scendi! E' venuto qualcuno!), gli disse
Za' Irme,
allertata dal rumore. E
Ze' Mecchele di rimando: "
Je'
da ecche na' sciagne, manche se me fréchene
'staddr'ucchie" (Io da qui non scendo neanche se mi
fregano quest'altro occhio).
Momenti di trebbiatura
nei terreni dei casolani a la Miramele (C.da
Mirandola).
La putéche de Nine e
Za' Giuvuannine
ed i venditori di castagne
Tornando a Nino, in questo tipo di realtà agricola, non
possedendo terreni di proprietà, intuì che per progredire
doveva cercare altre strade. Oltre che a saper zappare, si
ricordò che in gioventù era stato un buon ortolano,
mestiere che prima di partire militare, aveva svolto
insieme alla sua famiglia d'origine a Montesarchio (BN),
suo paese natio.
Stanco di andare a zappare a giornata, aprì un negozietto
di frutta e verdura in C.so Umberto I, a casa di
Za'
Giuvuannine, sua moglie, ubicata tra quelle di
Do'
Ureste Sabbatene, scapolo d'oro come i suoi fratelli
Harebalde e Zi' Peppinne (Garibaldi e Giuseppe), e
di Leone Balduzzi, che invece si era sposato
'nghe
'Ndonette (con Antonietta Terreri), originaria di
Muntenire (Montenero di Bisaccia). Il posto, in
pieno centro, era ottimo per un negozio in quanto, proprio
dirimpetto, vi era il Municipio, che in quegli anni era in
affitto ad una casa dell' '800 della famiglia de Vito, che
era stata la prima abitazione di Gaetano de Vito fu
Sisinio da San Buono, capostipide della famiglia, al suo
arrivo a San Salvo. (Per la cronaca il Comune venne
trasferito in quella casa dopo che la prima sede
municipale, con annessa scuola elementare, a fianco alla
Chiesa, venne distrutta una notte da un incendio).
A dire la verità più che un negozio vero e proprio, quello
aperto da Nino, sembrava più una camera di casa adibita a
deposito di prodotti ortofrutticoli, ma per quei tempi
andava più che bene. In fondo quella era la tipologia
della gran parte delle case sansalvesi.
Nino e Za'
Giuvuannine all'interno del loro negozio di
frutta e verdura in C.so Umberto I.
Erano quelli ancora i tempi in cui i contadini vendevano i
propri prodotti agricoli nei canestri dinanzi casa, in una
sorta di vendita dal produttore al consumatore, e le
parole frutta e verdura non ancora entravano a far parte
del vocabolario sansalvese.
Le verdure si chiamavano
li fuje, le arance
li
partheélle, le pesche
li pricoche, le
albicocche
li virlingocche, le nespole
le
giappiùne, le susine
le làciene, le ciliegie
le cirescie, il melograno
lu murecanáte ed
il cocomero
lu citràune. Solo le mele, le pere ed i
limoni venivano chiamati più o meno con il loro nome,
tutto il resto, per chi non conosceva il dialetto della
zona, erano parole
sdréuse (linguaggio difficile
da comprendere, straniero: es.
quesse parle sdreuse).
Nino, che nel frattempo si era comprata
'na laparelle
(un Ape scoperta della Piaggio), non faceva mancare
nulla al suo negozio, persino alcuni caschi di banane, che
si vendevano solo a Vasto. In quel negozietto vi si
trovava ogni tipo di frutta di stagione, e naturalmente in
autunno, le cachis (i cachi) e le castagne.
Che poesia, a ripensarci oggi, si impossessava del paese,
nelle serate d'autunno, durante il periodo delle castagne.
Erano serate povere, ma ricche di profumi, di atmosfere
semplici, che suscitavano nell'animo una grande serenità.
Il profumo delle castagne arrostite inebriava l'aria,
mentre il fumo che usciva
da le furnacélle (dalle
fornacelle), saliva leggera nell'aria, formando una
leggera foschia, che preannunciava l'arrivo dell'inverno e
del Santo Natale.
Ve n'erano più d'uno di venditori di castagne a San Salvo,
in quel periodo. Oltre a Nino, che alla sera, dinanzi al
suo negozio, accendeva i carboni
a la furnacélle e
dentro
'na vessàure (una padella bucherellata),
ascáve
(abbrustoliva) le castagne, vi era
Tumuásse
(Tommaso Ciccotosto), che aveva anch'egli un negozio di
frutta e verdura in un locale in affitto al palazzo di Don
Gaetano de Vito, distante non più di cento metri dal
negozio di Nino.
C'era poi
Caffittìre (Luigi Gottardo), così
soprannominato perchè si diceva che si era scolato, in un
sol colpo, un’intera caffettiera di caffè.
Caffettire,
personaggio famosissimo in gioventù per essere stato un
grande organizzatore e autore di parti
de le mescaráte
(delle rappresentazioni carnevalesche), aveva aperto
anch'egli un negozio in un locale, in affitto, di
Virgilie
Ciaralle (Virgilio Fabrizio), nell'attuale Piazza
Papa Giovanni XXIII, in cui vendeva principalmente
lupéne, cecie e
fafe aschite (lupini, cieci
e fave abbrustoliti),
sumìnde (semi secchi di
zucca),
sciuscelle (carrube) e naturalmente, in
autunno anche le castagne.
Vi era, come si suol dire oggi, concorrenza nel settore.
E fu in una di quelle sere che Nino, per battere la
concocorrenza, tirò fuori a sorpresa la sua vecchia
tromba. Bastarono pochi squilli per radunare dinanzi al
suo negozio un sacco di gente, facendo indispettire non
poco
Tumuásse, che osservava
sott'ucchie
(senza darlo a vedere), serioso, tutta la scena da
lontano, mentre Nino sorrideva.
L'unica nota stonata di quelle serate, ma non solo in
autunno, non era la tromba di Nino, ma l'abitudine delle
persone a buttare per terra
le scàgne (le bucce)
di lupini, fave, castagne e di ogni tipo di frutta, che
tappezzavano le strade, sopratutto nelle serate di festa,
dando un bel da fare a
lu monnapiazze (allo
spazzino) la mattina seguente.
Tornando al negozio di Nino, molto importante fu per lui
l'acquisto di quella sua prima
laparelle (Ape
Piaggio). Erano i primi prototipi di mezzi di trasporto ed
erano delle vere novità, che non tutti potevano ancora
permettersi. Con quell'Ape Piaggio, Nino, che aveva molta
volontà di migliorare la condizione economica della sua
famiglia, si mise a fare il venditore ambulante di frutta
e verdura. Ogni mattina, si alzava di buonora e se ne
andava a vendere i suoi prodotti nei paesi limitrofi,
mentre sua moglie
Za' Giuvannine, si occupava del
negozio.
Sospinto, sempre, da questo suo desiderio di migliorarsi,
Nino prese in gestione nei primi anni '60, l'
orte de la
fànte (l'orto della fonte).
L'orto della fonte
Cos'era l
'orte de la fànte?
Era un orto, privato, che aveva avuto già diverse
gestioni, che sfruttava l'acqua perenne
de la fànte
vicchie (della vecchia fontana), che era a monte,
lungo la strada omonima Via Fontana.
Era una vera opera di ingegneria idraulica contadina e nel
contempo orto botanico sansalvese.
La sua estensione era di circa un ettaro di terreno ed
iniziava all'incirca dov'è ubicata la vecchia fonte
declinando a valle sino al ponte dei casolani. Confinava
da un lato con le ultime case della discesa di Via
Fontana, da un altro con la vecchia nazionale (SS16) e
dall'altro ancora
'nghe lu Vuallinciàlle (attuale
Via Valloncello), un canneto acquitrinoso, dove i maschi
sansalvesi andavano a defecare, non esistendo i gabinetti
nelle abitazioni.
L'orto, che aveva l'ingresso vicino alla vecchia fonte,
dove vi era anche la casa dell'ortolano, era costituito da
decine di terrazzamenti, che declinavano a valle, su
ognuno dei quali vi era una diversa coltivazione di
ortaggi.
L'irrigazione avveniva all'incirca in questo modo:
sfruttando la pendenza del terreno, l'acqua, proveniente
dalla vecchia fontana, veniva convogliata
a li
pischire, che erano due vasche di raccolta poste
vicino alla casa dell'ortolano. Da lì, per mezzo di un
canale principale, all'occorrenza, l'acqua veniva fatta
scorrere a valle, verso i terrazzamenti, sui quali, su
ognuno di essi, vi era un solco irriguo,
nghe na'
ncippatàure, cioè sbarrato all'ingresso da piccoli
cumuli di terra. Quando l'ortolano doveva irrigarne uno,
apriva l'acqua nel canale prinicipale e
nghe nu
zappinàtte (con una piccola zappa), all'altezza di
ogni terrazzamento, formava una piccola diga di terreno,
deviando l'acqua in quello da irrigare. Quando la quantità
d'acqua entrata era ritenuta sufficiente per
l'irrigazione, rimetteva un po' di terra dinanzi
all'imboccatura del solco, ostruendone nuovamente
l'ingresso.
Con questo sistema l'ortolano produceva, su ogni singolo
terrazzamento
l'anzaláte (l'insalata),
li
finúcchie (i finocchi),
li vrócchele (i
cavolfiori),
li cappìccie (le verze),
lu láccie
(il sedano),
la bijate (la bietola),
li
chicàccie (le zucchine),
li turtarélle (il
tortarello),
li pammadóre (i pomodori),
lu
pitrisànne (il prezzemolo),
la jusubbìrde
(la menta),
la vasánicola (il basilico), insomma
tutti i prodotti dell’orto.
Quand'ero bambino ci andavo spesso con i miei genitori.
Ricordo che c'era un cagnolino che come ci vedeva arrivare
abbaiava ed era tenuto a bada a stento dall'ortolano,
confermando il vecchio detto popolare: "
Quesse fa gne'
lu cane dell'urtuluane: la cipalle né le vo e né le vo
fa magnà! "(Costui fa come il cane dell'ortolano: la
cipolla né la vuole e né vuol farla mangiare), il cui
significato si riferisce a persona a cui non piace
qualcosa e non vuole che anche altri la ottengano.
L'orto ebbe diverse gestioni.
Dopo la morte del proprietario
'Ntunine (Antonio)
De Filippis, avvenuta in circostanze tragiche, che aveva
sposato Olimpia, che era stata una componente del famoso
Circo Borzacchini, lo coltivò in gestione per un periodo
Angelo Chioditti (classe 1916), che aveva sposato Grazia
Dolce (1921), genitori di Vitale e Antonino Chioditti. Il
possesso temporaneo dell'orto in quel periodo lo aveva
Uarduccie
de Remmechéle (Edoardo De Francesco), macellaio, che
ne aveva acquisito il diritto, avendo prestato una somma
di denaro alla vedova, signora Olimpia, soldi che le erano
serviti per emigrare in Australia.
Uarduccie,
essendo macellaio, non essendo del mestiere, lo aveva dato
in gestione alla famiglia Chioditti.
La gestione di Nino iniziò dopo quella di Chioditti.
In questo terreno, com'era prevedibile, si mise a
coltivare principalmente gli ortaggi, che riportava nel
suo negozio di C.so Umberto I e che servivano sopratutto
per la sua attività di ambulante. Fu allora che acquistò
anche il suo primo motocoltivatore (fu il secondo ad
acquistarlo a San Salvo), un mezzo agricolo che avrà
l'onore, alcuni anni dopo, insieme
a le
laparelle (alle Api Piaggio)
de caccia' l'asene
da la stalle (di cacciare defintivamente gli animali
da traino dalle stalle).
In questo periodo, nonostante
avesse comprato una nuova APE Piaggio cabinata e subito
dopo un 1100 FIAT blu a camioncino di seconda mano, sul
cui cassone posteriore, nel ’64, ebbe l’onore di
trasportare dalla stazione ferroviaria al paese, la nuova
statua di Sant’Antonio, dono della famiglia Balduzzi alla
chiesa, incaricò suo figlio Nicola, ormai adolescente,
anche per educarlo al lavoro, di trasportare a piedi,
dall’orto al negozio, le cassette ricolme di ortaggi
raccolti in giornata.
Nino Iannace alla guida
del suocamioncino che trasportò la nuova statua di
Sant'Antonio.
Il trasporto di quegli ortaggi, dall
'orte de la fànte al
negozio in C.so Umberto I, era un lavoro molto faticoso
per un ragazzino, sopratutto quando le cassette erano più
d'una e quindi Nicola, che doveva percorrere più volte al
giorno il tragitto dall'orto a casa, con di mezzo la
salita di via Fontana, escogitò un sistema per stancarsi
di meno.
Lupo e la hatte di
Nonsaccie
Era quello il periodo in cui ogni ragazzino ambiva ad
autocostruirsi un carretto in legno. Andava da un
meccanico, si faceva dare quattro ruote a sfera,
difficilissime da reperire, e le montava alle estremità di
due listelli in legno, che poi fissava sotto un pianale,
sempre in legno, che era il posto di guida. Al listello
anteriore, girevole, al contrario di quello posteriore che
era fisso, veniva applicata una corda, fissata in
prossimità delle ruote, che tirata a destra e sinistra,
fungeva da manubrio.
Nicola, che naturalmente ne aveva uno, lo modificò
mettendogli quattro ruote di un carrozzino, ed iniziò a
fare su e giù dall'orto al negozio. L'innovazione si
rivelò efficace, ma era ugualmente faticoso spingerlo in
salita ed allora ebbe
'na penzate (un'idea): farlo
trainare a mo' di slitta, da
Lupe (Lupo) il suo
cane, un pastore tedesco.
L'idea si rivelò ottima per Nicola, un po' meno per Lupo,
al quale in salita
j sdillettévene (gli
scivolavano) le zampe, graffiando con le unghia l'asfalto.
Senonchè un pomeriggio, mentre Lupo stava risalendo a
stento, con il carretto ricolmo di ortaggi, la salita di
Via Fontana, giunti all'altezza dell'incrocio con Via
Savoia, ecco all'improvviso pararsi dinanzi a lui
la
hatte de Nonsaccie (il gatto di Luigi Nuzzaci).
Fu un attimo.
Lupe j ze 'ngarre appresse (Lupo inizia a corrergli
dietro) ed in un attimo
vanne scrizzénne pe' d'arie
fuje, finucchie, pammàdore, cappicce (volarono in
aria verdure, finocchi, pomodori, verze).
Non vi fu verso di fermarlo.
Fuori di sé, il cane, trascinandosi dietro il carretto
ribaltato e ormai vuoto, abbaiando abbaiando,
inseguì il gatto lungo tutto il muraglione di Via Fontana,
sino a quando a forte velocità, il gatto, sbandando
sbandando, si rificcò a
la hattarole (gattaiola,
piccola apertura nella porta di casa per far rientrare il
gatto) della casa di
Nonsaccie, proprio nel
preciso istante in cui quest'ultimo, richiamato dal
fracasso, si affacciò sull'uscio, finendo a terra,
investito da Lupo che non fece in tempo a frenare.
"
All'aneme di chi te' murte", si mise a sbraitare
il povero Nonsaccie in dialetto pugliese,
rialzandosi, inveendo contro il povero Nicola che temendo
le fenúcchie (i finocchi), non quelli che erano
volati via dal carretto, ma le botte che avrebbe potuto
ricevere da suo padre, si era fatto cento metri di corsa
sul muraglione, inseguendo senza successo il cane ed il
gatto.
Nino con i suoi familiari -
C'è anche Lupo, il pastore tedesco a cui Nicola,a
destra con un altro cane, faceva tirare il carretto.
La terre a lu
Sàlàtte ed i ladri di galline
Tornando a cose serie,
Nino, non coltivò per molto tempo l'orte de la
fànte e non certo per colpa de Lupe e de
la hatte de Nonsaccie. Finalmente qualche anno
dopo, riuscì a prendere in affitto da Don Giorgie
(Don Giorgio Di Michele), il fattore ed amministratore
dell'Azienda D'Avalos di Cupello, un ettaro di terreno
in C.da Saletto (a lu Sàlàtte), vicino al fiume
Trigno. Lì oltre a coltivare i suoi ortaggi, si mise
ad allevare un maiale e sopratutto i polli, di cui
ogni tanto ne spariva qualcuno e non per colpa degli
zingari. A far loro la festa era suo figlio Nicola,
che organizzava in loco laute cene, a base di polli, a
cui partecipavo anch'io, suo amico. Ricordo una sera,
sul finire degli anni '60, arrivammo in 15, tutti
dentro a lu melleetrà (alla FIAT 1300) di
Ennio Di Petta, e fu lì che presi l'unica vera sbornia
della mia vita. Ricordo che quando Nino scoprì chi
erano i ladri, ne fu felice.
Quel terreno,
a lu Sàlàtte, divenne il suo regno,
il suo paradiso.
Era sempre lì, quando gli era possibile, ad eccezione
naturalmente della notte, quando arrivavano i ladri di
galline.
Fu in quel periodo che acquistò un'altra APE Piaggio,
possedendone contemporaneamente due. Quella vecchia
divenne l'APE di suo figlio Nicola, ormai quindicenne.
Quanti ricordi della mia adolescenza sono legati a
quell'APE Piaggio.
Nghe la lape de Ciole (con l'Ape di Nicola), ci
portavamo gli strumenti musicali quando andavamo a suonare
la sera
a le spuse (ai ricevimenti serali dei
matrimoni), che si svolgevano negli unici due ristoranti
del paese, quello di Vito Tomeo in Via Circonvallazione,
che fu il primo ad aprirlo, e di Rocco Martelli, che era
in aperta campagna in contrada Stingi, dove per arrivarci
vi era un'unica piccola strada brecciata.
Nicola, influenzato dall'epoca beat, vi aveva scritto
sugli sportelli e sulla cabina frasi come "Scalzo, ma
libero", "Fate l'amore e non la guerra", slogan molto in
voga all'epoca tra i figli dei fiori, che non ho mai
capito se suo padre gradiva o meno. Quando ci vedeva su
quell'Ape, con tutte quelle scritte beat ed i capelli
lunghi, ci guardava in silenzio, serioso, come per dire,
con accento campano: "
Muahh! Ma guarde chi m'attocche a
vede'! " (ma guarda un po' cosa mi tocca vedere).
La lape di Nine. Nella foto
suo figlio Nicola ed Enzo Marzocchetti mentre mangiano
le sagne al mulino Larcinese, in Via Circonvallazione.
L'ultimo mezzo che acquistò Nino, che non aveva mai smesso
di fare l'ambulante, fu un rosso fiammante camioncino, un
Orsetto della OM, il suo orgoglio, che purtroppo un giorno
gli si infiammò veramente, mentre era in campagna
a lu
Salàtte (C.da Saletto), forse a causa della sua
stessa sigaretta, dopo un probabile malore che lo colse
all’improvviso.
Piazza San Vitale, prima
della ricostruzione del nuovo Arco della Terra. Nel
parcheggio vi è il rosso ORSETTO OM di Nino e sulla
destra si intravede il tendone arancione del negozio
Fruit House gestito in quegli anni dai figli.
Era molto preoccupato in quel periodo Nino. Il terreno che
da decenni coltivava in affitto, aveva cambiato proprietà,
da D'Avalos a Cirulli, e sentiva che stava per arrivare la
fine del suo regno, del suo paradiso terrestre, dove aveva
trascorso molti anni belli della sua vita.
I familiari, per puro caso e forse perché così aveva
scritto il destino, si recarono per puro caso in campagna
e riuscirono a tirarlo fuori dal rogo, riprendendolo per i
capelli, nerissimi, nonostante fosse un giovanotto di 80
anni e passa.
Da quel momento Nino non fu più lo stesso.
Si ammalò.
Per ironia della sorte, dopo qualche anno di malattia, se
ne andò il 6 gennaio del 2005, mentre stavamo cantando "La
Pasquetta", di cui suo figlio Nicola era ed è il
principale organizzatore.
Nino, il soldato trombettiere, a cui gli si erano
strappati i pantaloni e che li portò a ricucire a
Za'
Giuvuannine, che faceva la sarta, se n'era andato in
silenzio, così come in silenzio dignitoso era stata tutta
la sua vita, simile per sacrifici e tenacia a quella di
tanti altri nostri padri lavoratori, lontani dai clamori
di una società in cui vengono ricordati a caratteri
cubitali solo i "grandi" personaggi, come se la nostra
storia l'avessero scritta solo loro.
Chissà quante volte Angelo Iannace, detto Nino, da
Montesarchio (BN), avrà suonato con la sua tromba, nel
periodo bellico, "Il silenzio" d'ordinanza prima che i
soldati andassero a letto.
A volte nel silenzio, sento ancora la sua voce.
Aveva una voce inconfondibile, dal forte accento campano.
Perciò tutti lo chiamavano:
Nine lu napuletane.
NOTE:
- Fra i militari che dopo la guerra si sposarono
a San Salvo vi fu Antonio Longo, da Segusino
(Treviso) classe 1914, un bell'uomo distinto, alto
e snello, con l'accento veneto, il quale era stato
un fante addetto al disboscamento del Bosco
Motticce. Antonio rimase per sempre a San Salvo
sposando la sansalvese D'Adamo Antonia. Chi invece
andò via fu il soldato Bertoncini Sergio,
bersagliere, che sposò la sansalvese Emma
Cortellini, coppia che dopo guerra andò a vivere a
Mestre, paese d'origine del marito.
- Za' Giuvuannine Di Falco, ebbe tre
fratelli: Carmine, Vitale e Nicolino, tutti morti
in guerra. Carmine morì a seguito di una battaglia
navale mentre era imbarcato sul sommergibile
Perla; Vitale perì a seguito dell’affondamento di
un cacciatorpediniere, mentre l'altro fratello
Nicolino venne freddato dai tedeschi a San Salvo,
scambiato per un inglese, mentre con un
impermeabile chiaro addosso, scendeva l'orte de la
fante, per recarsi a Montenero di Bisaccia, dove
si era recata, sfollata, proprio Giovannina. Venne
soccorso dagli inglesi e portato ad un locale a
piano terra in C.so Umberto I di proprietà don
Gaetano de Vito, ove morì. Si racconta che aveva
la pancia sventrata sulla quale misero 'na
paiole (un cestino) per coprire le parti di
'intestino che erano fuoriuscite dal ventre.
- Il vento era elemento fondamentale per
trebbiare. Per questo motivo i contadini
costruivano l'aia in una zona ben ventilata e
preferibilmente su un colle, più esposto al vento.
Da ciò deriva il nome di molte località che
portano il nome di Colle dell'Ara.
- In quegli anni in cui Nino gestiva l'orto della
fonte e coltivava gli ortaggi, anche alcuni suoi
colleghi di zappa di gioventù, come Sebastiano
Valentini, Angiolino Ialacci, si misero a fare gli
ortolani ed i venditori ambulanti. Anche se non lo
si direbbe, i sansalvesi sono stati da sempre
anche un popolo di ortolani. Infatti, anche se
molti lo ignorano, la tradizione ortolana
sansalvese, è sempre stata di prim'ordine e non ha
mai avuto nulla da invidiare a nessuno, compresi i
famosi ortolani vastesi. L'acqua, che è linfa
vitale per la produzione, non mancava a San Salvo
e quindi la coltivazione degli ortaggi era molto
diffusa tra i contadini. Le campagne,
pianeggianti, erano irrigate dal fiume Trigno e
dalla Farmue, che era un canale artificiale del
medesimo fiume, che aveva la ncippatàure a la répe
de Regginalde, cioè veniva deviato alla ripa di
Reginaldo, all'incirca all'altezza della
confluenza del fiume Treste nel Trigno, per finire
la sua corsa in mare. Anche il paese era ricco di
pozzi e attraversato da numerosi corsi d'acqua
provenienti da sorgenti o acque piovane, oggi non
visibili perchè canalizzati sotto terra. Sparsi
per il paese vi erano tanti ponti e ponticelli,
scomparsi con il progresso. Un esempio per tutti
era lu pànte de le casuléne (il ponte dei
casolani), che raccoglieva l'acqua che proveniva
da lu vallingiàlle, che a sua volta raccoglieva le
acque piovane che arrivavano da lu cavìute de la
rane (cava della sabbia) in C.da Stingi, da lu
Trafòre in Via Savoia, da la fànta
vicchie (dalla vecchia fontana). Il più
importante dei corsi d'acqua era ed è quello
interrato che dal cimitero (almeno così dicevano i
nostri nonni) alimentava proprio la fànta
vicchie in Via Fontana, che è la parte
terminale di un 'antico acquedotto romano, della
cui esistenza, prima dei recenti scavi
archeologici, né si aveva idea e né importava
niente a nessuno. In questa antica fonte, che era
fonte anche di ispirazione di poeti dialettali
locali, avveniva il maggior approvvigionamento
idrico del paese. Era lì, in quelle cannelle che
le donne, con le conche in testa, andavano a
prendere l'acqua potabile ed a lavare i panni, ed
era sempre lì, nella vasca adiacente, che si
portavano ad abbeverare gli animali da lavoro.
Ricordo che ogni tanto qualche bambino ci cadeva
accidentalmente dentro e piangendo ze n'arjave
a la case zippue zippue (se ne tornava a
casa zuppo fradicio) e culénne culénne
(mentre l'acqua gli colava a terra dagli abiti
bagnati). Lu trafore , invece, che era
ubicato sotto Via Savoia, tra il IV e V Vico, era
così chiamato perchè vi era un traforo che
raccoglieva l'acqua piovana dalla zona di C.so
Garibaldi. La zona terminale era costituita da un
muraglione alto una decina di metri, in cui al
centro vi era che un'apertura da cui fuoriusciva
l'acqua che defluiva a valle, verso il
valloncello. Vi erano poi altre fonti alimentate
da sorgenti come quella di Via Fontana Nuova, ed
altre scomparse, probabilmente interrate, come la
fonte sotto la chiesetta di San Rocco e quella di
Sant'Antonio, che si trovava nella zona
dell'Istituto comprensivo n.2 Sant' Antonio.
- A proposito di ortolani, si racconta che negli
anni '30, ogni anno, il giorno della festa di San
Vitale, venivano a vendere gli ortaggi alcuni
ortolani vastesi. Un anno ne arrivò uno che al
mattino della festa si mise a vendere le
chicaccie (le zucchine) in C.so Umberto I,
nello spiazzo antistante il palazzo De Vito. Mastr'Angele
De Felice, fabbro, e mastr'Antonie Sparvieri,
falegname carraio, quell'anno erano componenti del
comitato feste. I due, amici inseparabili ed
arguti buongustai, rinomati in paese per essere
grandi mangiatori di carne e ventricine, alla
vista di tutte quelle chicoccie non gradirono.
Mastr' Angelo disse a Mastr'Antonio: "Mast'Anto',
vi' nghe ma', ca jaja fa' fa 'na magnite de
chiccaccie a 'stu bastàune." (Mastr'Antonio
vieni con me , che devo far fare una mangiata di
zucchine a questo bastone). Si avvicinarono
all'ortolano e le acquistarono tutte. Subito dopo
iniziarono a prenderle a bastonate. " Fermateve,
ma che faciàte!!!", diceva loro sconsolato
l'ortolano. Non ci fu nulla da fare, si fermarono
quando ridussero a poltiglia l'intero mucchio di
zucchine. Accorse in loro aiuto Zi' Angele
Balduzzi, che vedendoli all'opera, arrivò subito
dopo con una pala con la quale raccoglieva e
rimetteva nel mucchio i pezzi di zucchine spatriìte
pe' ella fore (sparsi lì attorno). Quando
terminarono Mastr'Angelo si rivolse all'ortolano e
gli disse: " Giuvunò! Chi n'tavesse armenè
'nmente a uannechebè d'armene' a 'rvànne le
chicaccie a Sante Salve lu jurne de la feste di
Sande Vitale! (Giovanotto! Che non ti
dovesse saltare in mente di tornare qui l'anno
prossimo a vendere le zucchine il giorno della
festa di San Vitale). "Vete chesse!" (Vedi
questa poltiglia), aggiunse indicandogli con il
dito lo stato in cui erano state ridotte le
zucchine, "a uánne 'ssa sàrte j'attucchite a li
chicaccie! Auannechebe' 'ssa sàrte la j' ti!"
(Quest'anno questa sorte è toccata alle zucchine!
L'anno prossimo stessa sorte la avrai tu). Vennero
denunciati e passarono un brutto quarto d'ora,
anche se tutto finì a tarallucci, vino e
ventricina.