Capitolo V
Giovanni Bassi
(Mugnaio)
Ma non furono solo Nonsaccie, Gerardo e Michele Masciulli
che strada facendo scrissero piccole grandi pagine di storia del
nostro paese. Altri forestieri, percorrendo strade diverse, così
come è diversa ogni storia da un 'altra, giunsero alla terra
loro promessa, alla nostra San Salvo.
Uno di questi fu certamente Giovanni Bassi (1887 -1971), da
Perano, chiamato affettuosamente dai sansalvesi
Zi'
Giuvuanne, che agli inizi del secolo scorso era il mugnaio
(
lu mulinare) del mulino Pantanella.
Giovanni Bassi e sua moglie Annina
Passalacqua.
Il suo arrivo a San Salvo avvenne per caso nel 1910.
Appartenente ad una famiglia di mugnai lancianesi, originaria di
Sant'Onofrio di Lanciano, che annoverava tra le sue proprietà un
mulino ed un pastificio a Perano, un altro mulino a vapore a
Crecchio ed una centrale della corrente elettrica sul fiume
Sangro, che illuminava i Comuni di Archi, Perano e Bomba, venne
a San Salvo per sostituire all'ultimo momento suo fratello
Angelo, che era il designato.
Era stato infatti, Angelo, il primogenito, nell'ambito di una
politica di sviluppo aziendale, a chiedere in concessione il
mulino Pantanella al Comune di San Salvo, che ne era il
proprietario, ma quando ormai era cosa fatta, trovò
inaspettatamente l'opposizione della moglie, Concetta D'Addario,
che non ne volle sapere di muoversi da Perano. In altri termini,
detto
a la salvànàse (in sansalvese), la moglie
ave'
'ncucciate (si era intestardita) e
méscie méscie
(piano piano), come si diceva un tempo, riuscì a
calareje la
vrache (riuscì a spuntarla).
Toccò quindi a Giovanni, l'ultimogenito, amante di feste e del
bel canto, che sino ad allora aveva pensato più alla bella vita
che all'attività di famiglia, tamponare la falla (trattandosi
allegoricamente di un mulino ad acqua) e dimostrare di essere
cresciuto. Fresco sposo con Annina Passalacqua (1890 - 1974) da
Cepagatti, fece le valige e si trasferì insieme a lei al Mulino
Pantanella.
Ma cos'era questo benedetto mulino Pantanella?
Era l'unico mulino di San Salvo.
Distante circa 5 chilometri dal paese, era ubicato alla
staziàune
(in contrada Stazione), subito dopo la ferrovia, ad un passo dal
passaggio a livello. Per arrivarvi bisognava imboccare una
stradina in terra battuta, fangosa e tortuosa, chiamata per
l'appunto Via Vecchia del Mulino, che iniziava all'incirca dalla
chiesetta di San Rocco e terminava proprio al mulino. Le sue
pale erano alimentate
da la fàrmue (dal formale), un
canale d'acqua artificiale, ad uso agricolo, deviato dal fiume
Trigno, che aveva la
'ncippatàure (una deviazione con le
pietre dello stesso fiume), con imbocco a
la Repe de
Regginálde, all'incirca nella zona
de la Cucciàtte de
Lentelle, ove confluisce nel Trigno il fiume Treste, per
finire la sua corsa al mare.
Era lì che i nostri padri, il giorno delle some di San Vitale,
con i cavalli adornati a festa e con le some in groppa, dopo
aver ricevuto la benedizione del prete dinanzi alla Chiesa di
San Giuseppe, si recavano di buonora a macinare il grano per
fare
li pircilléte (i taralli di San Vitale) e fu
proprio lì, in quel mulino, che nacque la tradizione del pranzo
delle "Sagne", un tempo denominata per l'appunto "Sagne al
mulino", per via del fatto che si mangiavano in loco, giù a
Pantanella. Vi è da sottolineare che all'origine il pasto era
riservato solo
a li debbutéte (ai deputati della festa)
ed ai padroni dei cavalli, i quali, impossibilitati a tornare a
mangiare a mezzogiorno a casa, data la distanza dal paese, erano
ospiti del mugnaio.
Di ciò ne fa menzione anche mio padre, il maestro elementare
Evaristo Sparvieri (1921-2010), che in uno dei suoi brevi e rari
articoli, scritti per un giornalino locale, così afferma:
"
Lo sapevi perché a San Salvo si usa ogni anno, durante il
mese di aprile, andare a mangiare le “Sagne” al mulino nel
giorno in cui si porta a macinare il “grano” destinato alla
produzione dei cosiddetti ”Porcellati” per la festa di San
Vitale Martire?
L’origine della tradizione, ormai, si perde nel tempo, ma è
certo che, allorchè i nostri Antenati iniziarono l'usanza, non
vi era in essa, nulla di significativo, o nulla che potesse
avere una particolare importanza.
E’ da sottolineare che il “grano” veniva condotto, per la
molitura, per mezzo di cavalli, al “Mulino Pantanella” ubicato
nei pressi della Stazione Ferroviaria, ad una distanza di
circa cinque chilometri dal centro abitato di San Salvo.
Tale distanza, per quei tempi, in cui non vi erano mezzi
celeri di locomozione, era considerata notevole e, pertanto,
si rendeva difficile, se non addirittura impossibile, per gli
addetti ai lavori, raggiungere le loro case, in tempo utile,
per la consumazione del pasto di mezzogiorno.
Era giocoforza, quindi, provvedere “in loco” a ciò che doveva
servire per il sostentamento nell’intera giornata. Così nacque
l’ormai consuetudine delle “Sagne”, che, in seguito, portò
alla estensione del “piatto di minestra” anche a chi, per
motivi di vario genere, si trovava presente nel posto, o vi si
era recato per assistere alla popolare manifestazione, col
fine di trascorrere una giornata in festosa e lieta compagnia.
E’ da escludere, pertanto, nel modo più categorico, la falsa
credenza che vuole che l’usanza sia scaturita da motivi di
carattere assistenziale in favore della gente povera o
comunque bisognosa".
Questa tesi viene confermata anche da una testimonianza di
Valentini Bassi Venturino, erede di Giovanni Bassi, il quale, in
un video-intervista aggiunge che fu proprio
Za’ Annine,
moglie di
Zi' Giuvuanne, che ebbe l'idea di cucinare per
la prima volta le sagne, allorquando, resasi conto che si era
fatto mezzogiorno e che la molitura del grano era ancora in alto
mare, per carenza d'acqua al mulino, pensò
d’ammassà du'
sagne (di impastare un po’ di farina per farne delle
sagne), da far mangiare a quelle poche persone, che si erano
recate al mulino per la macinatura del grano, per farne i
taralli di San Vitale.
Da ciò si deduce che l'antica usanza, stando a queste
testimonianze, ebbe origini ben diverse da quando asserito da
eminenti storici locali, che ne fanno risalire l'origine ad un
pranzo offerto ai poveri dal Cardinale Pier Luigi Carafa, abate
commendatario di San Salvo, in occasione della traslazione
dell'urna contenente le sacre spoglie di San Vitale Martire da
Roma a San Salvo (1745), ricordata ogni anno con il tradizionale
fuoco di San Tommaso la notte del 21 Dicembre.
A mio avviso le due tradizioni, quella delle "Sagne" e della
distribuzione al popolo dei taralli (
li pircilléte),
hanno un unico comune denominatore e sono complementari, nel
senso che sono conseguenza una dell'altra: i taralli di San
Vitale rappresentano il simbolo dell'antico pranzo offerto ai
poveri dal Cardinale Carafa, in occasione della traslazione
della sacra urna di San Vitale, mentre l'usanza delle sagne
nacque per l'esigenza di dover provvedere al sostentamento di
chi si era recato al mulino Pantanella, distante 5 Km dal paese,
per macinare il grano necessario per fare i taralli.
A rafforzare tale tesi, sempre secondo quanto raccontatomi da
mio padre, quand'egli era giovane, erano poche le persone che si
recavano al mulino Pantanella il giorno della macinatura del
grano di San Vitale.
Il popolo al mattino, secondo il suo racconto, si radunava in
piazza e dopo la benedizione del grano davanti alla Chiesa di
San Giuseppe, salutava festosamente il corteo dei cavalli che
partiva per il mulino. Subito dopo la gente se ne tornava alle
proprie attività, aspettando la sera, quando i cavalli sarebbero
tornati in paese, con i sacchi di farina in groppa, per
tributare un doveroso omaggio a chi in quella giornata si era
prodigato per questo importante preparativo della festa di San
Vitale.
A seguire il corteo sino al mulino erano per lo più frotte di
ragazzi e noti
’mbriachìune (beoni) del paese, i quali,
con la fame che c’era in giro,
z'affelévene (si
mettevano in fila) dietro ai cavalli, sperando di mangiare
anch'essi a mezzogiorno un piatto di sagne.
Stando sempre ai racconti di mio padre, in quel periodo, era
addirittura segno di
malacrijánze (cattiva educazione)
recarsi giù a Pantanella senza essere invitati, in quanto
considerati
‘mbracase, cioè gente intrusa, che si
mischiava ai deputati ed ai padroni dei cavalli, che erano
coloro a cui era destinato il pranzo, con il solo scopo di
je'
scruccua’ (di andare a magiare a sbafo). In virtù di
questa diffusa mentalità, egli stesso (ad eccezione di quand’era
Sindaco negli anni '70) e molti suoi coetanei (es. Tonino
Artese, il padre del prof. Giovanni), non andarono mai a
mangiare le sagne giù al mulino Pantanella, neppure dopo, quando
nel dopoguerra l'usanza si trasferì definitivamente nei due
mulini del capoluogo, assumendo per la prima volta vero
carattere di manifestazione popolare.
E restando in tema di festività in onore del Santo Patrono e di
usanze ad essa connesse, è probabile che fu sempre
Za’
Annine, donna zelante e perspicace, da molti considerata
la vera
mulenáre (mugnaia), a realizzare in quegli anni
anche la prima
pipézzere.
Cos'era questa "benedetta"
pepézzere?
Per meglio far comprendere cosa fosse, riporto integralmente una
prefazione scritta sempre da mio padre ad una sua antica poesia
dal titolo: "La pipizzera".
"
Era usanza che il mugnaio dell’antico mulino ad acqua
denominato “Pantanella” sito in San Salvo Marina, dopo aver
macinato il grano destinato alla produzione dei cosìddetti
“Porcellati” per la festa di la festa di San Vitale Martire
(Protettore di San Salvo), donasse al Santo la “Pipizzera”.
Era costituita da pagnottelle di pane azzimo di varie forme
attaccate ad un’asta e abbellita con nastri e carta colorata.
La “Pipizzera” veniva portata in giro per il paese per far sì
che le famiglie dessero le loro offerte, onde partecipare
all’estrazione di essa il giorno dell’ ”ottava“ di San Vitale
e precisamente il cinque maggio, (prima festa di San Michele a
Vasto).
Il giorno in cui avveniva l’estrazione della Pipizzera il
paese era in festa e la famiglia, a cui essa andava, veniva
considerata fortunata perché la scelta era avvenuta per volere
di San Vitale".
Un'antica pipézzere, portata in
corteo l'ottava della festa di San Vitale.
Orbene, anche se è difficile oggi, date le scarse notizie
sulle sue vere origini, accertare se
Za' Annine ne fu
veramente l' ideatrice, qualche indizio ci riconduce a lei.
Infatti, mostrando la vecchia foto
de la pipézzere all'Avv.
Giovanni Cuniberti, nipote lancianese di Angelo Bassi, fratello
maggiore
Zi' Giuvuanne, mi fece subito notare come i
taralli che la ornavano fossero simili a quelli appesi a la
Campane di Cepagatti, paese d'origine di
Za' Annina,
dove il 15 agosto, in occasione della festa di San Rocco e Santa
Lucia, viene portata in giro per le vie del paese, una struttura
ricolma di dolci avente per l'appunto la forma di una campana.
La campana con i taralli usata a
Cepagatti in occasione dei festeggiamenti in onore di San
Rocco e Santa Lucia del 15 Agosto.
Altro indizio che riconduce a Za' Annine, è
la chenacchie ,
una evoluzione della struttura originaria
de la pipézzere
, in voga negli anni '60, che era una specie di piccola botte in
legno, molto simile a quella raffigurata piena di spighe nello
stemma del Comune di San Salvo, ornata sulle doghe da biscotti
secchi di vario genere, che ricorda nel concetto una
similitudine con la campana di Cepagatti. (1)
Giovanni Bassi a destra. A sin.
sua moglie Annina Passalacqua insieme ad una nipote. Al
centro campeggia la pipézzere.
Una pipizzera la cui struttura era
'na chenacchie, trasportata nel cassone de la
laparélle de Coline (Ape Piaggio di Nicolino Altieri)
Che sia nata o meno da un'idea di Za' Annina l'usanza di andare
a mangiare le sagne al mulino o che sia stata davvero lei la
vera ideatrice
de la pepezzere, forse resterà per sempre
un mistero.
Una cosa, tuttavia, è certa e credo si possa affermare senza
ombra di dubbio: sia
Zi' Giuvuanne che
Za' Annine,
ce la misero davvero tutta per farsi benvolere dai sansalvesi,
dando anima e corpo per gestire il mulino comunale Pantanella,
che nel corso degli anni, era diventata la loro casa, la loro
vita.
Ma come spesso accade quando un bel sogno viene bruscamente
interrotto al risveglio, ecco arrivare la guerra. Fu un duro
colpo per tutti. Il mulino venne distrutto.
Zi' Giovanni e Za' Annine, con il mulino bombardato, si
ritirarono a Lentella dove già gestivano, a censo perpetuo, sul
greto del fiume Treste, un altro mulinetto, anch'esso di
proprietà comunale (prezzo del censo £. 1.000 annuali).
In questo mulinetto dava loro una mano un ragazzino, poco più
che tredicenne, figlio di un prolifico lentellese che aveva 7
figli da sfamare. Il suo nome era Valentini Venturino. Lo
avevano mandato lì, in quel mulino, affinché desse una mano alla
famiglia ed imparasse un mestiere. Venturino pareva esserci nato
dentro a quel piccolo mulino: era sempre lì, da mattina a sera,
imbiancato di farina, e si faceva voler bene da
Zi'
Giuvuanne e
Za' Annine, come un figlio.
Per fortuna la guerra passò ed il sole tornò a splendere.
Ma
Zi' Giuvanne, era triste. Nonostante i sansalvesi
andassero spesso a trovarlo, tant'è che le sagne di San Vitale
si svolsero nell'immediato dopoguerra proprio in quel mulinetto,
un chiodo fisso assillava i suoi pensieri: tornare a San Salvo,
in quel mulino, a Pantanella, dove aveva trascorso gli anni più
belli della sua vita e della gioventù.
Tentò in tutti i modi di riavere quel mulino, ma il suo
desiderio fu vano. Il Comune di San Salvo, che ne era
proprietario, aveva in mente di ricostruire al suo posto uno
stabile più grande, da destinare ad altro uso, e per di più, nel
caso lo avessero nuovamente adibito a mulino, chiedeva un prezzo
troppo esoso per le sue tasche.
Vi rinunciò.
Il suo desiderio, però, di tornare a respirare aria sansalvese,
era troppo grande e divenne la sua unica ragione di vita.
Finalmente il suo sogno si avverò nel ‘46, quando acquistò un
terreno in Via della Mirandola e vi realizzò un mulino
elettrico.
Un tarlo però ancora assillava la sua mente. Il destino non gli
aveva dato figli. A chi avrebbe lasciato il suo mulino?
Si ricordò allora di quel ragazzino lentellese, di nome
Venturino, che nel frattempo era divenuto grande ed era partito
per il militare.
Al suo ritorno lo chiamò.
A Venturino, che era cresciuto a grano e farina sul greto del
fiume Treste, non parve vero quando Giovanni Bassi gli annunciò
di aver riposto in lui tutte le speranze future per il suo
mulino.
Accettò.
Per riconoscenza, Venturino, volle aggiungere al suo cognome
anche quello di Bassi, chiamandosi così Valentini Bassi
Venturino.
La storia di Giovanni Bassi, da Perano, e di sua moglie Anna
Passalacqua, da Cepagatti, mugnai del mulino Pantanella, termina
qui, ma ha resistito all'oblio del tempo.
Sarà pur vero che acqua passata non macina mulino.
Ma chi ben semina, ben raccoglie.
La via vecchia del mulino era
l'unica strada, tortuosa e fangosa, che anticamente
conduceva al Mulino Pantanella, alla stazione ed al mare. Ne
esiste ancora qualche tratto visibile quando si va a fare
metano dai F.lli Loreta in C.da Piane Sant'Angelo. Nella
foto aerea è visibile anche il lungo rettilineo dell'altra
strada, realizzata successivamente, che oggi passa dinanzi
alla SIV, prima che venisse interrotta dall'autostrada negli
anni 70, all'altezza della Rivoira. Negli anni '80 verrà
invece realizzata l'attuale strada, in parte sopraelevata
quasi sino alla rotonda della SIV.
Sulla sin. il nuovo stabile
ricostruito dove insisteva il Mulino Pantanella, distrutto
durante il secondo conflitto mondiale, mai più riadibito a
mulino. Nella foto è visibile il sottopassaggio
automobilistico, ove un tempo vi era il passaggio a livello.
Sullo sfondo, a destra, la struttura realizzata in epoca
fascista per l'ammasso del grano, successivamente
riconvertita in distilleria.
Resti dell'antico mulinetto di
Giovanni Bassi sul greto del fiume Treste . Foto di Antonino
Vicoli
Resti dell'antico mulinetto di
Giovanni Bassi sul greto del fiume Treste . Foto di Antonino
Vicoli
Valentini Bassi Venturino vicino
ad uno dei due cassoni dell'antico mulinetto sul greto del
fiume Treste, acquistati da Giovanni nel 1933, che è anche
l'anno di nascita di Venturino.
Valentini Bassi Venturino con il
figlio Gianni nel mulino in Via della Mirandola, non più
esistente, sostituito con il moderno opificio in zona
Industriale.
Il nuovo e modernissimo opificio
Di Valentini Bassi Venturino in
zona industriale, oggi gestito dal figlio Gianni.
(1) L'estrazione della pepézzere avveniva l'ottava
di San Vitale e ze teréve (si sorteggiava) sulla cassa
armonica. Il biglietto vincente era il primo estratto dopo
quello che recava la scritta "San Vitale Martire" . Dopo il
sorteggio la pepézzere veniva portata con la banda a casa del
vincitore, il quale era considerato fortunato perchè la
vincita era avvenuta per volere di San Vitale. Ma lua vincita
con il tempo, divenne una disdetta. Il vincitore da fortunato
che era, diventava malcapitato in quanto gli toccava da
offrire da bere a tutti coloro che si recavano nella sua casa
al seguito de la pepézzere, tra i quali immancabilmente
spiccavano i noti beoni del paese che gli scolavano la botte.
Vincere la pepezzere era un onore a cui non si poteva
rinunciare, ma erano in molti coloro che si auguravano di non
vincerla, in quanto, si sarebbero ritrovati con la pepézzere
in casa, ma con la botte vuota.
pag.5
dietro/avanti