E finalmente si arrivava
al pranzo nuziale, che veniva offerto dalla famiglia dello
sposo.
Non si faceva come oggi il bouffet, ma l'abbuffata. Si
mangiava a
sciala popéle, cioè senza limiti e gratis,
tanto pagava lo sposo.
La gente, con la fame che c'era in giro, si mangiava tutto,
pure
le cózzeche de Sante Lázzere, che in antico
dialetto sansalvese significa pulire tutto il piatto, non
lasciarci niente. Qualcuno diceva quando andava ad un
matrimonio "
Uje haja màtte la véte a perde!" (oggi
metterò a rischio la mia vita, ma non farò brutte figure). "
Ciája
pule' " (Pulirò il piatto).
I pranzi, ieri come oggi, erano interminabili. L'unica
differenza è che all'epoca la gente aveva fame anche il giorno
appresso, mentre oggi, il giorno seguente
va da lu médeche
de le panze (dal medico delle pancie, dal dietista), e
p'assecchenéreze (per dimagrire)
fa la ginnasche
(va in palestra, fa ginnastica).
A quei tempi, non esistendo i ristoranti, il pranzo si
svolgeva a casa, nella camera più grande, e se non vi era
spazio a sufficienza, se ne occupavano altre adiacenti.
Il pranzo era l'evento più importante delle nozze. Non si
poteva fare brutta figura. Perciò doveva essere luculliano.
Per farsi trovare pronti al grande evento le famiglie
incominciavano ad allevare animali da cortile quasi un anno
prima ed a farne le spese quel giorno erano decine di galline,
papere, agnelli e qualche maialino che finiva inesorabilmente
a porchetta.
Qualche famiglia più agiata (
la signuruáme),
per fare bella figura, chiamava la
cóche (la cuoca),
che era una casalinga esperta in pranzi nuziali, o
lu cóche,
quest'ultimo una specie di antesignano chef di catering, che
aveva imparato a cucinare sotto le armi e spesso nella vita
faceva il contadino, il calzolaio o il barbiere, insomma
tutt'altro mestiere.
Cuochi famosi matrimoniali sansalvesi erano
Zi' Giuvuanne
De Iorie (Giovanni Di Iorio), nella foto, in
rappresentanza dei maschi, mentre aveva la palma della
migliore cuoca
Za' Elenuccie (Elena) Torricella,
maritata Del Casale.
Il menù era quasi sempre il seguente:
1) antipaste: félle de sprisciate, de lummuélle e de
présitti (fette di salami nostrani) con contorni di
scarciufunàlle sott'aciàte (carciofini sott'olio ed aceto);
2)
tajuléne a lu vróde di halléne (tagliolini al brodo
di gallina)
3)
carne di halléne allesséte (galantina);
4)
maccariùne a lu suìgu di 'gnélle (pasta asciutta al
sugo d'agnello)
5)
spezzaténe de 'gnélle (spezzatino di agnello)
'nghe le cicurelle de campagna (cicorie di campagna)
6)
pircàtte a lu fàrne con contorne de frìnne de 'nzalate"
(porchetta con contorno d'insalata) oppure
'gnélle a lu
fuàrne 'nghe le pátane (agnello al forno con patate)
7)
pàre, melàlle, melechetegne, verlengocche, filaccéne,
felle di melàune bianghe e citràune (frutta di
stagione)
8)
pezzadàggie (torta nuziale)
'nghe lu gileppe
(glassa)
de Za' Mari' de Petrangele.
Vini della casa : b
uttéje de véne cotte de cànde avé' nate
la spose e véna Miscardelle ch'armésse mofalánne lu patre de
lu spose (bottiglie di vino cotto dell'annata in cui é
nata la sposa e vino moscato messo in botte l'anno scorso del
padre dello sposo)
Bibite:
hazzóse, 'ranciate a lu juáccie (ghiaccio)
de
Perrùzze de lu Uaste (gazzose e aranciate della ditta
Perrozzi di Vasto)
e spuma (primordiale bibita ante
Coca Cola).
Liquori:
buttéje de resólie, Marzale all'ove e vermut
(rosolio, liquore fatto in casa, Marsala all'uovo e vermout).
Caffè :
na tazzetelle de cafè de lu Casale ch'abbotte e
sbotte.
"Evviva gli sposi!!!", gridava ogni tanto qualcuno, durante il
pranzo, dopo che si era fatto qualche bicchiere ed
incominciava a 'nciucianéreze (ad ubriacarsi).
"
Caccie che cutte!" (scola la pasta che è cotta!),
gridava qualche altro che voleva fare lo spiritoso, dopo
essersi divorato un piattone di pasta.
E poi, il solito originale: “
A chi li purte su piattàune?”
(A chi lo porti quel piattone?), chiedeva sempre qualche
commensale ad un improvvisato cameriere, che gli stava
servendo
’na piatánza (una pietanza).
“
A tà! A tà’” (A te! A te!), rispondeva il cameriere.
“
A mà ’ssu piattìcce!” (a me quel piattino!),
concludeva ridendo il commensale, volendo far credere di
essere lui l’autore di quella battuta che nei matrimoni era
stata già sentita, come minimo trecento volte.
Il pranzo si svolgeva in un clima gioioso.
Lo sposo, con il braccio sul collo della sposa, ogni tanto,
nella confusione, le parlava all'orecchio e guardandola negli
occhi, le passava l'indice sul viso, per farle una carezza.
All'epoca, tanto per fare un raffronto con oggi, nessuno
diceva "Bacio! Bacio!", in quanto baciarsi in pubblico era
ancora considerato un atto osceno (
e chi è 'sse purcàré!)
e gli stessi sposi, per pudore, si vergognavano. E poi detto
chiaramente, non erano manco abituati a farlo e
nen
sapavene manche tante bacià' (non sapevano manco tanto
baciarsi),
gne' mo (come adesso).
Qualcuno lo aveva visto fare al cinema da Amedeo Názzaro
(Nazzàri) mentre baciava Yvonne Sanson, e pensava: "
Chisà
gnà fatte" (chissa come avrà fatto).
Vi era una vera carestia di baci a quei tempi che metteva
sconforto e quei pochi che la gente si scambiava, avvenivano
rigorosamente sulla guancia.
Facendo una breve digressione, la tecnica per baciare, era
pressappoco la seguente:
z’appuzzetéve lu muìsse (si
appuntiva il muso) e con le labbra
a pircilliccie (a
culo di gallina)
e l’ucchie un po’ scacchijte (gli
occhi un po’ spalancati), ci si dirigeva, non senza emozione,
verso la guancia della persona da baciare. Appena il muso
j
ruttuéve ‘mbaccie (arrivava a contatto della guancia
altrui), si chiudevano per un attimo gli occhi, dischiudendo
all’ultimo momento le labbra che facevano “
mbu’”. Se i
baci erano due e si davano prima su una guancia e poi
sull’altra , si sentiva un doppio
‘mbu’:
‘mbù e
‘mbù.
Altri invece, sempre adottando la stessa tecnica, quando le
proprie labbra toccavano la guancia d'altri, facevano
scivolare velocemente all’ultimo momento la lingua
all’indietro, sollevandola nell’arco palatale, e si udiva un
’ngloc.
Anche in questo caso, se i baci erano due, e si davano prima
su una guancia e poi nell’altra, si sentiva un doppio
’ngloc:
ngloc e
‘ngloc.
Capitava spesso che qualcuno, dopo essere stato baciato,
specialmente
da cácche vicchiarìlle (da un persona
anziana), j
zi mbunnàve la fáccie (gli restava in
faccia un po’ di saliva e sudore altrui)
e zi ne scheféve
(e ne rimaneva un po’ schifato). L’istinto era quello di
volersi asciugare subito il viso, ma non voleva darla a vedere
al baciatore. Dopo un po’ la mano, con il palmo rivolto al
contrario, gli partiva da sola verso la faccia e con le dita
z’assughéve
la váve (si asciugava la saliva) che
j’avè ’rmase
’mbácce (che gli era rimasta appiccicata in faccia),
sperando di non capitare mai più in simili bagnate
circostanze.
Tornando ai pranzi nuziali, ad un certo punto qualche
invitato, sull'onda dell'euforia provocata
da lu sgábbie (il
vino nel linguaggio muratoresco era chiamato
lu sgábbie),
si alzava in piedi e cantava: "
Facemeze nu bicchire
facemezéle mo, ca mo tineme lu tempe, dumane matine no"
(facciamoci un bicchiere, facciamocelo mo, che mo abbiamo il
tempo e domani mattina no), concludendo alla fine: "
A la
caláte!" (Auguri, beviamo!). Qualche altro rilanciava la
canzone:"
Lu vine cótte, la miscardélle, ta sádde a
li cirvélle t'ha fatte mbriacà' "(il vino cotto, il
moscatello, ti è salito nel cervello, ti ha fatto ubriacar).
La canzone più famosa, tuttavia, era l’inno di San Salvo,
realizzata parafrasando il motivo del noto brano folcloristico
abruzzese:”
Amor’amo’ acciuccame ’ssa rame. Amor’amo’
acciuccame ‘ssa rame. Fammele cójie e fammele cójie e
fammele cójie, a mé ‘ssu belle fiore”. Il testo,
riadattato ad inno sansalvese, faceva così: “
San Salve mo’,
‘nzi chiame chiù San Salve. Salve mo’, ‘nzi chiame chiù San
Salve. Ze chiam’alù e ze chiam’alù e ze chiam’alù… paese de
l’amore”. Quell’
alu… ripetuto decine di volte,
perché c’era sempre qualcuno che voleva il bis, diventava
nu
talúrne (uno scocciamento), sino a quando non si
cambiava canzone, magari con "
E dindalì, dindalì,
dindalo’…quanta bicchijre de vine ci vo' e canda bicchijre
de vine me faccie , canda penzire a la cape me cáccie"
ecc. ecc. ecc. (E dindalì, dindalì, dindalò, quanti bicchieri
di vino ci vogliono e quanti bicchieri di vino mi faccio
quanti pensieri dalla mente mi scaccio).
"
Béna !!!" (Bene!!!), gridava tra gli applausi in
italiano stentato e meglio sdendato, qualcun'altro che invece
avé' partìute (era ubriaco fradicio).
Per il primo inno sansalvese bisognerà aspettare “Sopra na
culline" del 1961”, scritta da Evaristo Sparvieri in occasione
della seconda venuta della Radiosquadra RAI a San Salvo, di
cui ne era il corrispondente locale, che iniziò ad essere
accennato, sopratutto dai giovani, nei matrimoni.
Ma il bello doveva ancora arrivare.
Ad un certo momento, partivano i discorsi degli intellettuali,
i quali, dopo aver mangiato la pasta, in italiano
maccheronico, si esaltavano nelle recita di filastrocche in
rima baciata, come ad esempio: "
Io mi faccio questo
bicchiero di vino a la saluto dei nostro due sposino e se
poi voi mi accompagnate, viva gli sposi e tutte lu
sciuppunáte" (tutta la parentela), a cui rispondeva
sempre qualcun altro, che
ciavé' quascie date (era
quasi ubriaco ), dicendo qualcosa che non sempre ci azzeccava
con gli auguri, come ad esempio: "
Questo vino vinello l'ha
cacciáte la véta tórte (una vite storta).
Chi dice
male alla ditta Sbrodolone merita la morte".
IL RICEVIMENTO
E così, tra una risata ed un brindisi augurale, il pranzo si
avviava verso la conclusione.
Si toglievano i tavoli, e
si mettàve bbàlle (iniziava
il ricevimento).
Arrivava
l'orghéstre (l'orchesta).
Era famosa in quel periodo (anni '50) l'orchestrina Follia
Jazz, di cui
Ujerme Lunghe (Guglielmo Longhi), il
batterista, ne era il personaggio più carismatico.
Follia Jazz era costituita oltre che da
Ujerme Lunghe,
a lu jezzband (alla batteria), da
Angiuline
Ialacci,
a lu rucunuàtte (alla fisarmonica), da
Angiuline de Fioravante, alla chitarra, gran bevitore,
che avevano soprannominato Rossano Brazzi per la sua
somiglianza all'attore bolognese. A loro ogni tanto si
associava
Vituccie (Vito) Tomeo, che si era comprato
'na 120 bass (una fisarmonica con 120 bassi), nipote di
Guglielmo per via della moglie, Domenica Onofrillo,
c'appartenàva
a le casùléne (che era originaria di Casoli), e
Eneche
(Enea) Marzocchetti, con la tromba, che pare avesse imparato a
suonarla in un collegio.
Vederli all'opera era
'na rése e nu chiante (una
risata ed un pianto): una risata perché mettevano allegria, ed
un pianto perché
te faciàvene ascé' le lacreme e piscie'
sàtte pe le risate (ti facevano uscire le lacrime e
fartela fare addosso per le risate).
Succedeva quando
Ujérme Lunghe, che parlava bene sette
lingue ed un po’ meno l’italiano (una per ogni paese in cui
era stato in guerra o era emigrato per lavoro), si esibiva in
esiliranti giochi di prestigio: faceva roteare sul palmo della
mano un bicchiere pieno di vino, passandoselo dietro al collo,
senza mai farne cadere neppure un goccio e dava vita alle
famose ombre sansalvesi (all’epoca nessuno conosceva quelle
cinesi), che realizzava proiettando sul muro, a luci spente,
con una candela, l’ombra di due fazzoletti, a cui aveva dato
in precedenza la forma di
du’ cappìcce (due cappucci),
creando i personaggi
de lu municiàrille (del giovane
monaco) e della monaca), a cui dava voce in singolari
macchiette con il contenuto che, com’è immaginabile, aveva
poco di sacro e molto di profano.
Erano veramente momenti di gioia e spensieratezza quei numeri
di
Ujerme. La gente si divertiva con poco.
Le danze avevano inizio sempre con il primo ballo solo per gli
sposi, che manco a farlo apposta, ma nessuno ci aveva mai
fatto caso, era quasi sempre “Speranze perdute”, uno dei più
bei walzer dell’epoca, ballo al quale venivano invitati, dopo
i primi passi degli sposi, anche i loro genitori.
E via con le danze.
"
Sciangé la dame" (chance la dame), ordinava Guglielmo,
che comandava la quadriglia, conoscendo bene anche il
francese.
Il padre dello sposo, ad un certo punto della serata, ballava
con la sposa, mentre la consuocera, ancora con il cappello,
con lo sposo. Poi era la volta degli altri consuoceri e subito
dopo d
e lu cumpuare de fàde nghe la spose (del compare
di fede, testimone alle nozze, con la sposa) e
de la
cummuáre de fàde nghe lu spose (della comare con lo
sposo).
Qualche giovanotto, con la sigaretta tra le dita,
jave a
caccia' (invitava a ballare)
cacche marzahálle
(qualche bellissima ragazza), con la speranza
d'arrangià
caccósse (di farci qualcosa) e non era raro vedere,
proprio sul piu bello, qualche
'mbriache (ubriaco),
che perdeva l'equilibrio e
ze zuffunnàve 'nterre
(cadeva per terra con un tonfo), tra le risate generali e
l'ucchia
turte (le occhiatacce) della moglie.
Tra un ballo ed un altro, c'erano sempre delle donne di casa
che
'nghe le uantìre 'mméne (con vassoi in mano),
giravano
tànne tànne (intorno) agli invitati, per
offrire loro
bicchjréne de resólie grusse gnè nu
dutuále ((bicchierini capienti come un ditale, ripeni di
rosolio), oltre
a li pizzàlle (i dolci), tra cui i più
apprezzati erano
li cillarchiéne (uccelli ripieni) e
le past'
a nére (i mustaccioli).
Vi era poi sempre qualche giovane donna, che quando
l'orchestra suonava
la saldàrelle (il salterello),
jave a caccia' cacche vicchiarélle (invitata a ballare
qualche nonnina), che
nghe nu passe lìgge (con un
passo leggero, agile),
zumputtejéve gne' nu gruélle
(saltellava come un grillo),
trezzechénne trezzechénne
la hànne', longhe féne a lu spizzàlle (muovendo
con le mani la gonna, lunga fino al malleolo).
E così si svolgeva il ricevimento, a cui partecipavano anche
amici e conoscenti che pur non essendo stati invitati al
pranzo,
j purtavane nu cumplumente (gli portavano un
piccolo regalo).
Ed il nonno?
Era un classico nei ricevimenti nuziali.
A furia
di sbicchirijé' (di bere), data anche l'ora
tarda e la stanchezza,
a lu sciàure de la spóse (al
nonno della sposa), seduto su una sedia,
j zi faciàve
l'ucchie pinìlle pinìlle (incominciavano a farsi gli
occhi piccoli piccoli) e
je caláve 'gné' 'na pápagne
(non riusciva a tenere gli occhi aperti per il sonno).
Il sonno
j 'ngannáve (gli veniva) più o meno in questo
modo.
Sbatténne sbatténne le pinnazzére (sbattendo le
ciglia),
cumenzàve armantenà' la coccie (cercava di
tenere dritta la testa) che
a schétte a schétte (a
scatti a scatti),
j' z'ammuccàve chiáne chiáne annénte
(iniziava a pendergli piano piano in avanti), sino a quando
lu uánciale (la parte inferiore del mento),
tìte ca'
mi tìnghe e tìte ca' mi tìnghe (reggiti che mi tengo,
reggiti che mi tengo), j
e calàve de bótte 'mbétte (gli
cadeva di colpo sullo sterno), avvertendo simultaneamente
gne'
na scósse eléttreche arréte a lu cólle (come una scossa
elettrica alla noce del collo),
e zi itticáve (si
spaventava).
Tutte 'ngecaléte (tutto assonato),
arpréve
nu sol'ucchie (riapriva un solo occhio), quello
sinistro,
mezze abbaculéte (ancora assonnato)
e
smecciéve (si guardava intorno).
Dapù' (poi), resosi conto
ca' l'avè' hàbbate lu
sonne (che si era addormentato senza volerlo),
pe'
ne cupujé' (per non dormire),
scacchiáve
(spalancava) sempre quell'unico occhio sinistro che era
riuscito ad aprire, mentre quello destro, che era ancora
chiuso, non riusciva ad aprirlo affatto,
gne' cante j'avé'
miniùte nu vrugnaróle (come se fosse stato colpito da
un improvviso orzaiolo).
Ma era un attimo:
la cicágne l'arvinciàve (il sonno si
impossessava di nuovo di lui) e alè... cominciava pure
a
surnacchìjè (a russare).
“
Eja la madonne a qué!!!”, sbottava la nonna, seduta al
suo fianco, quando se ne accorgeva e, cercando di svegliarlo
in silenzio, gli dava
prema ‘na trezzecate
(lo scuoteva un po') e poi vedendo che il marito
ciavé’
pruprie date (proprio non si svegliava),
j’ammullàve
’na vuvutánne a ’na fiancàtte (gli mollava un colpo
secco con il gomito ad un fianco), dicendogli, mentre
l'orchestra suonava: "
Svéjete ‘mbrìacà’! " (Svegliati
ubriacone!). “
Si pruprie nu zurruàune vicchie!” (Sei
proprio un caprone vecchio!).
Il poveretto,
nghe lu colle torte (con il collo
storto),
tutte addulluaráte (tutto indolenzito) per il
fatto che era rimasto per lungo tempo con la testa piegata in
avanti, si svegliava di soprassalto
gne' n’asine
‘mmézze a li súne (come un asino in mezzo ai suoni), e
quasi
hastiménne (bestemmiando), cianfrugliava tra sé
e sé:
"Canda me vulesse je’ cicà’ !" (Quanto vorrei
andarmene a dormire).
E intanto
l'orghéstra suonava.
Follia Jazz. Da sin. Vito Tomeo
(fisarmonica), Guglielmo Longhi a lu jezzband (alla
batteria), Nicola Masciulli (piatti), Angiolino Fioravante
(chitarra), Angiolino Ialacci (fisarmonica). Spettatore
Angelo Cilli.
E così, tra
nu walzevìrre (un valzer viennese) e
'na
pulechàtte (una polca), un numero di Guglielmo e
'na
vuvutánne a 'na fiancàtte (una gomitata al fianco) della
nonna al nonno, si arrivava a mezzanotte e la festa si avviava
a conclusione.
L'orchestrina suonava l'ultimo ballo solo per gli sposi: il
walzer di mezzanotte.
Gli ospiti, dopo aver preso la busta dei dolci con la
bomboniera, incominciavano a sfollare, mentre il padre dello
sposo, salutava i convenuti ed ai loro complimenti rispondeva
in italiano maccheronico, come rispose mio nonno
Bastiane
che disse: " E' stato un bel nozzo."
Era giunto il momento per gli sposi da
je’ ngigna’ lu
lette (il letto matrimoniale).
Per una questione di privacy, meglio adottare il silenzio
stanza.
Caliamo il sipario.
Ma non tutti i matrimoni erano
zicchùre e cumbìtte
(erano zucchero e confetti) .
Sopratutto i figli delle famiglie povere, per loro
'nzi
festejéve (non si festeggiava).
Questi ragazzi si sposavano
a lu schìure, cioè al
buio, alle prime ore dell'alba, quasi in segreto. La gran
parte erano quei giovani
ch'ave' scappiti (che avevano
fatto la fuga d'amore), con il ragazzo che
avé' già
'mbrenáte (aveva già messo incinta) la sua compagna di
fuga, che a quel punto
era préne (piena, in attesa di
un bimbo).
Era già una fortuna se il prete li avrebbe sposati, ed
andavano da soli in chiesa, con pochi intimi, tra i quali,
mancavano quasi sempre i genitori,
pe' la brivùgne (per
la vergogna).
Avevano fatto
'na mancánze (una mancanza di rispetto),
nu ssadatte (una cosa che non si doveva fare) e perciò
il prete li sposava
arréte all'addáre (in una zona
retrostante all' altare, che non era visibile ai fedeli).
Questi matrimoni erano i cosiddetti matrimoni riparatori, da
celebrarsi prima che nascesse il frutto del loro amore
proibito. Solo il matrimonio avrebbe reso legittimo il
nascituro che così avrebbe evitato l'infamante appellativo di
pirdácchie o
mulàtte, termine usato per
definire i figli N.N. , di cui non si conosceva la paternità,
nati da relazioni non legittime, come nei casi di adulterio.
Chiusa questa parentesi, riapriamo il sipario per l'ultimo
applauso agli sposi fortunati.
La festa per loro non era ancora finita:
aveva arscié' la
zéte (doveva riuscire la fanciulla, da poco sposata).
L'arsciùte de la zéte (la riuscita di casa della sposa)
era un appendice alla cerimonia nuziale che si svolgeva una
settimana dopo il matrimonio, quando la sposa, che era rimasta
chiusa nella sua nuova casa per sette giorni (erano rari gli
sposi che andavano in viaggio di nozze), faceva ritorno per la
prima volta in quella dei suoi genitori, da dove era andata
via indossando l'abito bianco.
La tradizione voleva che ora indossasse un abito nero,
regalatole dalla suocera, quasi in segno di lutto, come a
voler dimostrare ai genitori, che era dispiaciuta di essere
andata via lasciando la casa paterna.
Ma era solo una formalità.
Dopo i primi convenevoli ed un po' di commozione, partiva la
festa, offerta questa volta dai genitori della sposa, che era
una specie di quella evangelica della parabola del figliol
prodigo, anche se in questo caso si trattava di una figliola
prodiga, nel senso che a breve sarebbe stata prodiga di figli,
regalando ai nonni
'na màrre di nipiùte (molti nipoti).
NOTE:
- Per la cronaca, durante i matrimoni, sopratutto
quelli nelle masserie, ad allietare la serata vi era
quasi sempre 'na du botte (un suonatore di
organetto). Prima della guerra, invece, vi erano
piccole orchestrine locali, formate da giovani del
luogo e tra di queste erano famose quella in cui
suonava Marcellene (Marcellino Scardapane),
barbiere, che era tornato dall'Argentina ed aveva
riportato centinaia di spartiti musicali. Marcellene
suonava il bandeon (il bandoneon
organetto-fisarmonica molto usato in Argentina) il
flauto traverso ed il clarinetto, ed era considerato
un vero portento. Fu grazie ad i suoi spartiti che
molti giovani impararono canzoni come "Cielito Lindo",
"La cumparsita" ed altri brani.
- Negli anni '30 tornò dall'Argentina Ntonie (Antonio)
Balduzzi , che sposò Celestre (Celeste)
Castorio. Si racconta che 'Ntonie Balduzzi, a
cui piaceva, da quel che si dice, molto lu sta'
spasse (divertirsi) e poco appresà (il
lavoro), fosse un comico inarrivabile, capace, con la
sue macchiette ed imitazioni, di intrattenere e far
ridere il pubblico, come nessun altro. Secondo molti
anziani era inarrivabile. Peccato che all'epoca non vi
fosse la televisione. Disse di lui una volta mio padre
Evaristo Sparvieri, per decantarne la grandezza:" Totò
a 'Ntonie Balduzze j'aveva je' pulè le scarpe (Totò
ad Antonio Balduzzi doveva andargli a pulire le
scarpe). Antonio, prima della guerra, se ne ritornò
per sempre in Argentina, portanto con sé sua moglie
Celeste, non facendo mai più ritorno a San Salvo, di
cui ne sentì la nostalgia sino alla morte.
- Un vero musicista, era Andonine (Antonino
Sparvieri), eccelso mandolinista (disse di lui
Balduzzi non ho mai udito un mandolinista come
Antonino), nonché ottimo violinista (suonò il violino
anche con orchestre sinfoniche rinomate). Antonino,
era il secondogenito di Mastr'Andonie Sparviri
(Mastro Antonio Sparvieri), il mastro carraio. Da quel
che raccontano pare fosse un bel ragazzo, che correva
un po' troppo dietro alle sottane. Faceva disperare
sua madre Za' Giusuppene (Giuseppina) Sabatini
perché quando andava suonando, sopratutto nei
matrimoni fuori San Salvo, spariva di casa per lunghi
periodi. Se ne stava insieme a ragazze che incontrava
durante i suoi concertini, specialmente nelle feste di
masseria, non dando più notizie di sé per giorni e
giorni, facendo disperare sua madre, che usciva anche
di notte per cercarlo.
pag.13
dietro/avanti