E
siccome non si viveva di solo pane, negli anni trenta,
arrivò a San Salvo un altro forestiero:
lu macellare
de Lentelle (il macellaio di Lentella), all'anagrafe
Giuseppe Roberti (1902 -1978), chiamato dai sansalvesi
Peppine, che come si intuisce dall'appellativo
affibbiatogli dai nostri compaesani, faceva il macellaio e
veniva da Lentella.
In realtà per
Peppine, più che un arrivo, si
trattava di un mezzo ritorno alle origini, scorrendogli
nelle vene sangue sansalvese in quanto la sua nonna
paterna, Caterina Cortellini, fu Carmine, che nel 1873 era
andata in sposa, nella Chiesa di Lentella, a Giuseppe
Roberti, fu Camillo, era nata a San Salvo ed era
imparentata con
chelle de Remmechele (famiglia De
Francesco), antichi macellai sansalvesi.
Antica famiglia di commercianti e macellai lentellesi era
anche quella paterna di
Peppine. Suo padre,
infatti, Raffaele Roberti, coniugato con Teresa Gizzi,
soprannominato
lu raggiunìre per via delle sue
capacità imprenditoriali, apparteneva ad una famiglia di
commercianti che dopo l'unità d'Italia e prima dell'inizio
della seconda guerra mondiale, si era specializzata nella
esportazione delle carni, con collaboratori a Napoli e
Roma.
Anche la storia di
lu macellare de Lentelle, a San
Salvo, è legata, come per tanti altri forestieri di quei
tempi, ai matrimoni, che erano frequentissimi tra giovani
dei paesi limitrofi.
Peppine, infatti, sposò nel
'25 la sansalvese Cesira Cilli (1901-1977), donna di esile
di corporatura, che apparteneva ad un ramo
de la
Cillarè (dei Cilli), famiglia che abitava in piazza,
che aveva anche altre figlie femmine: Lavinia, Leonilde,
Argina e Marietta. La coppia ebbe tre figli, un maschio e
due femnine: Osvaldo, l'avvocato, scomparso purtroppo
prematuramente, Agnese ed Elia.
Lu macellare de Lentelle, com'era nella tradizione
di famiglia, aprì a San Salvo una macelleria in C.so
Umberto I. Il negozio era all'altezza dell'attuale P.zza
Giovani XXIII, angolo 1° Vico Umberto I, che all’epoca,
prima che ci facessero il Municipio, come già scritto in
precedenza nel capitolo riguardante l'autista Michele
Masciulli, era tutto un orto (
l'orte de lu Capetane,
che era il soprannome di Giuseppe Di Iorio, il
proprietario del terreno). Anzi fu proprio il suocero di
Michele Masciulli,
Zi' Angiliccie Cilli,
appartenente però ad un altro ramo
de la Cillare',
a vendergli il locale al piano terra in cui aprì la sua
macelleria oltre ad una camera al piano primo della stessa
casa, in cui la coppia di sposi andò ad abitare.
Come avveniva un po' per tutte le attività artigianali e
commerciali dell'epoca, erano tempi grami quelli, anche
per i macellai. Il vitello era una rarità ed il filetto
manco a parlarne. A farne le spese era solo qualche maiale
e di rado qualche agnello la cui carne erano in pochi ad
acquistare, tra cui i soliti benestanti e qualche
impiegato statale che
teréve la paghe, cioè
riscuoteva lo stipendio.
Tanto per rendere l'idea di quanto appena suddetto, si
racconta che il più noto macellaio sansalvese,
Remmechele (Michele De Francesco), parente alla
lunga anche di
Peppine per via della nonna paterna
sansalvese, prima di uccidere un agnello, faceva il giro
delle case per verificare se vi fossero clienti disposti a
comprarne la carne. In caso di poche prenotazioni,
l'agnello veniva risparmiato, rimandando la sua esecuzione
a tempi migliori.
L'acquisto della carne dal macellaio era quindi ridotta ai
minimi termini. La gente non aveva soldi per comprarla e
né i macellai potevano permettersi di conservarla in
negozio perché non esistevano i frigoriferi. L'unica carne
che si vendeva in gran quantità, ma non accadeva tutti i
giorni, era quella a basso macello. Si trattava di
carne di bovini ed ovini malati in procinto di
sténne
le pìte (morire - stendere i piedi, le cuoia) e
perciò, prima della loro morte naturale, venivano
macellati per essere venduti a prezzo stracciato rispetto
al costo della carne di animali sani.
Asoddisfare le esigenze di carne delle famiglie erano per
lo più le galline, galli, piccioni e i conigli, che la
gente allevava in casa. La specie avicola più allevata,
insieme a qualche papera e
hallinaccie (tacchino),
erano proprio le galline, innanzitutto perchè
fetávene
(facevano le uova), almeno quando
'nz'ave' brucchìti
(non covavano le uova per far nascere i pulcini) e poi
perché, oltre ad essere una preziosa fonte di nutrimento,
spesso, con la carenza che c'era in giro di quattrini,
venivano vendute per pagare
le pesìure (le tasse,
pesi che gravavano sulle famiglie).
Era diffuso tra alcune famiglie allevare il maiale.
Chi poteva permetterselo lo allevava nelle stalle e negli
spiazzi adiacenti e lo ammazzava con il freddo, a Dicembre
o nei primi giorni di Gennaio. Si uccideva il maiale
aspettando
la mancanze, cioè quando la luna era
calante, perché
a la criscénze (con la luna
crescente) era opinione diffusa che anche la carne sarebbe
ricresciuta e le salsiccie e le ventricine sarebbero
andate a male.
Era festa grande in famiglia quando
z'accidàve lu
porcie (si ammazzava il maiale), fatta eccezione
naturalmente per il povero maiale a cui
fiaciavene la
feste (che veniva scannato). Tutti davano una mano:
gli amici, i vicini di casa. Vi era una sorta di gara di
solidarietà a partecipare, anche perché un po' di arrosto
sempre ci poteva scappare. Il vero incubo in quella
giornata era
lu ddaziaróle (il daziere). Bisognava
pagare il dazio e se qualcuno uccideva il maiale
de
contrabbande (di nascosto), incorreva in pesanti
contravvenzioni.
Non c'era il mattatoio e per il maiale era una morte
orribile. Con le zampe legate con funi, tenuto a stento da
tre quattro persone, veniva forzatamente adagiato tra
grugniti disumani su un grosso tino capovolto (
a nu
tinéccie) e mentre tentavano di immobilizzarlo,
aiutandosi con le mani e ginocchia, lo scannatore gli
infilava un grosso coltello al collo, all'altezza della
vena giugulare. Il sangue fumante che gli sgorgava dalla
ferita veniva raccolto e girato in continuazione per non
farlo solidificare perchè le donne ci avrebbero fatto
lu
sanghinaccie, una specie di crema che mischiavano
nghe lu mustecotte (con il mosto cotto).
Con il maiale a volte ancora agonizzante, gli buttavano
sul corpo
trégne (secchi) di acqua bollente, per
facilitare con un coltello la rasatura delle setole, e
dopo averlo appeso con un gancio a testa in giù si
procedeva alla squartatura. Non si buttava niente. Ogni
parte del suo corpo veniva riusato: con la sugna (il
grasso di maiale) si ricavava lo strutto; con le budella (
li
vidélle) si riempivano
li saggeccie,
lummille,
sprisciate (salami), con la
vescica
le ventricéne o
medrecéne (ventricine);
con la cotica e le zampe, dopo aver tolto le unghia, si
preparavano succulenti pasti con i fagioli, ed il sangue
solidificato si mangiava fritto. Insomma tutto era
commestibile, persino
le 'nnùje, cioè le budelle
grasse grandi, che intrise di peperoncino, venivano fatte
esiccare vicino al fuoco per poi essere mangiate (è questo
il motivo per il quale, quando qualcuno dimagrisce o è mal
ridotto, gli dicono : "
Z'è fatte gne' na 'nnùje")
Le uniche parti del maiale che si scartavano erano gli
ossi, le unghie e le setole, e di quest'ultime non tutte
perché quelle
de la gréje (della criniera), che
erano più lunghe e robuste, erano ambite dai ciabattini
che le innestavano con un nodo e con la pece ai capi degli
spaghi, in modo che entrassero più facilmente nei buchi
praticati nel cuoio
nghe la sibbule (con la
lesina), durante la manifattura delle scarpe.
"
So' fatte lu porcie", era solito dire soddisfatto
il proprietario del maiale dopo che l'ammazzava, che non
significava che era stato un maleducato, ma di aver ucciso
il suo maiale.
Sansalvesi, imparentati con
i Granata, durante l'uccisione di un maiale.
Riconoscibili dalla sinistra Michele Molino, Igino
Granata, Antonio Artese, il piccolo Marco Granata ed
infine Filiberto Mancini.
Ma non erano solo i maiali, galline ed altre specie
avicole, ad essere allevate a scopo di sostentamento.
Certe famiglie contadine, dentro le stalle, che puzzavano
gne nu morbe (fetore insopportabile), specialmente
prima che
ricacciávane lu fumìre (le ripulissero
dal letame), allevavano
le pircillìccie (i
porcellini d'india), piccoli roditori che vivevano tra le
zampe e gli escrementi di cavalli ed asini, che si
nutrivano dell'avena ed altri avanzi
de le bistie
(delle bestie) che mangiavano nella mangiatoia. Nonostante
fossero in molti a mangiarli, venivano però
schifijte
(schifati) da alcuni, in quanto, sostenevano, vi era il
dubbio che si accoppiassero
'nghi li zoccole (con
le femmine del topo).
Era ricco, invece, chi possedeva una pecora o una capra,
che qualcuno portava a pascere in campagna con una fune
legata dietro
a lu trajéne (al carretto), o
affidata a qualche raro
pecherále (pecoraio), che
ogni tanto si improvvisava tale in paese.
Chi poteva permettersi un ovino, invece, era come un
privilegiato: aveva il latte per la famiglia, poteva fare
la ricotta, qualche
pézzele de cascie (forma di
formaggio pecorino), ricavare un po' di lana quando lo
faceva
casurà (tosare) e per di più, una volta
macellato, ricavava
lu sàve (il sego), che veniva
adoperato come crema per le scarpe, quasi sempre sporche
de
làute (di fango).
Sorte migliore, invece, era riservata ai bovini.
I buoi, le vacche ed i vitelli, difatti, venivano
raramente uccisi, se non come già detto, quando si
ammalavano e si vendeva la loro carne a basso macello.
Erano considerati, da quei pochi contadini benestanti che
li possedevano, animali quasi sacri, perché, oltre a
produrre latte, venivano impiegati come animali da traino,
per tirare gli aratri nei duri lavori dei campi.
Possederne anche pochi esemplari era considerata una vera
ricchezza perché valevano molto ed avevano mercato nelle
fiere boarie. (Si dice che il primo ad ammazzare a San
Salvo un vitello sano, per vendere la sua carne fresca
nella sua macelleria, fu negli anni '50 Nine de
Remmechele, uno dei figli di Michele De Francesco).
In questo tipo di società contadina sopradescritta, è
facile intuire, come fosse davvero problematico
pe nu
becchire (per un macellaio) gestire una macelleria.
Non vi era trippa per gatti , figuriamoci per gli uomini,
Non trascorse tempo, infatti, che
Peppine serrò i
battenti.
Dopo un breve periodo che sua moglie Cesira, aprì nello
stesso locale, con scarsa fortuna, un negozietto di generi
alimentari, lo affittò al macellaio
Gine de Remmechele
(Gino De Francesco), primogenito di Remmichele e fratello
di Nino, che vi aprì una sua macelleria.
Ho molti ricordi legati a quella macelleria di
Gine de
Remmechelle.
Ero un bambino e mi ci portava mio padre.
Ricordo una scena come fosse oggi. Appeso ad un gancio vi
era un unico agnello, scotennato, sempre quello, rosso,
reso ancor più rosso dai timbri che gli aveva messo un po'
ovunque addosso il veterinario. Mi fissava, serio, con
l'occhio aperto, che mi pareva di vetro, che di nascosto
gli toccavo con il mio ditino, appannadogli la pupilla,
che poi volevo gli ritornasse lucente, ma più toccavo e
più diventava opaco. A fargli compagnia vi era sempre
qualche mosca che gli ronzava attorno, nonostante il
macellaio, per una questione igienica, lo coprisse
nghe
'na velàtte gialla (una specie di velo giallo).
Tornando al nostro
Peppine, dopo aver smesso il
camice di macellaio, non restò con le mani in mano.
Si diede all'agricoltura, coltivando i terreni di sua
proprietà
a le Pèzze, in una zona di C.da
Bufalara, in cui molti lentellesi come lui, avevano la
terra.
Era un uomo, politicamente parlando, di destra il nostro
Peppino, così come tanti, checchè ne dicano molti passati
ad altre sponde nel dopoguerra.
In molti lo ricordano quando, durante il fascio, di cui
era stato più che simpatizzante, ebbe l'incarico di
controllare i quantitativi di grano trebbiati in zona, che
i contadini dovevano portare per legge all'ammasso
a
lu Silosse (al silos), edificio in c.da Stazione,
che dopo la guerra venne adibito a distilleria. Era un
lavoro che non ispirava molte simpatie: il grano da
consegnare all'ammasso veniva venduto di controvoglia dai
contadini allo Stato, in proporzione al raccolto, ad un
prezzo più basso rispetto a quello di mercato.
Ma non si fermo qui, il nostro Peppino. Arrivò la guerra e
fece la campagna d'Africa. Venne decorato.
Doveva essere stato un buon macellaio Peppino, anche se
io, come tanti miei coetanei, non lo vidi mai uccidere
neppure una gallina. Lo ricordo piuttosto anziano, quando
negli anni '60, girava in paese con una moto a tre ruote,
scoperta, con il cassone dietro.
Dal portamento serio, pacifico, sempre elegante, non aveva
la faccia da macellaio, ma più da avvocato, da medico,
che, a dire il vero, a quei tempi, sopratutto quando
operava le tonsille ai bambini o estraeva qualche dente
senza
addubbie (anestesia), pure un macellaio era.
Aveva un aspetto distinto, il nostro amico
Peppine,
come suo padre, che non a caso a Lentella, pur facendo il
macellaio come lui, chiamavano
lu raggiunire.
Sono certo che chi non lo conosceva, l' avrebbe scambiato
facilmente per un medico o per un avvocato.
Per i sansalvesi però era e resterà per sempre
lu
macillare de Lentelle.
Piazza Papa Giovanni XIII
anni '60 - Nella seconda casa a destra, all'angolo,
dove si intravedono delle insegne, prima del palazzo
de Vito, vi era la macelleria de lu macellare de
Lentelle , poi riaperta da Gino de Remmechele (De
Francesco).
Anno 1977 - Inaugurazione
della nuova macelleria del compianto Franco De
Francesco (a sin.), figlio di Gino (a destra) insieme
ai suoi familiari durante il brindisi augurale. Sullo
sfondo dopo la benedizione brinda anche Don Cirillo
Piovesan. La macelleria De Francesco, in P.zza Papa
Giovanni XXIII, è stata nuovamente ristrutturata nel
2015.
NOTE:
- La palazzina di Ntunine Cartelle
(Antonio Fabrizio), sarto sansalvese emigrato a
Vasto, venne demolita e ricostruita negli anni
'50, dopo la realizzazione dell'attuale Piazza
Papa Giovanni XXIII. Il piano terra, dopo la
ricostruzione, fu sede negli anni '60 dapprima del
Banco Di Napoli, che vi si trasferì dopo un
periodo in affitto in un locale a piano terra,
sotto il portico del Municipio, e poi della
Farmacia Di Croce. Nel 1977, venne acquistato da
Franco De Francesco, figlio di Gino Remmicchéle,
che vi trasferì la sua nuova macelleria.
- Oltre a Gino, già citato nel racconto, Remmicchele
aveva altri figli macellai, tra cui ricordo con
simpatia Nino, per il suo modo di fare spavaldo e
sicuro di sé, ed Eduardo (Uarduccie), che
dopo aver aperto una macelleria a San Salvo, pur
continuando ad abitare nella nostra cittadina, ne
aprì una modernissima, all'avanguardia, a Vasto,
nella zona comunemente conosciuta da vastesi come
Shangai.
- Nino De Francesco Nino, nella foto,
continuò con alterne fortune l'attività paterna.
Negli anni '50 aprì una macelleria in C.so Umberto
I, dirimpetto a Balduzzi, ex sede del Bar Bruno,
per trasferirsi più tardi negli anni '60 in Via
Fontana, dirimpetto al piccolo muraglione de
lu spaccie de Meccheline de Crapacotte, in
un negozio, con annessa abitazione al piano
superiore, che era stata la casa paterna e già
sede dell'antica macelleria di Remmichele.
Questa macelleria aveva un accesso anche da 1°
Vico Piazza, ove abitavano i miei nonni materni.
Non essendo ancora stato costruito il mattatoio
comunale in Via Istonia, realizzato verso la fine
anni '50 e poi demolito per la costruzione del
teatro comunale, gli animali venivano macellati
per strada. Nino uccideva gli animali in uno
spiazzetto 1° vico Piazza. La tecnica da lui usata
per ammazzare un vitello, di cui io da bambino ne
fui testimone oculare, era quella di dargli
all'improvviso un colpo sulla fronte con un grosso
martello, che faceva stramazzare l'animale al
suolo. Un giorno, con la neve per terra, ricordo
un che un maiale, prima di essere ucciso, riuscì a
fuggire verso piazza San Vitale, facendo fare una
sciata a Senzafamiglie (soprannome di
Vitale Napolitano), un aiutante di Nino, che con
gli stivali che gli scivolavano sulla neve,
cercava di frenare la corsa dell'animale. Lo
rincorreva anche Nino e dopo un po' per il maiale
non vi fu scampo. Nino era un macellaio molto
esperto. Ricordo quando scuoiava le pecore e gli
agnelli: praticava un foro con un coltello sulla
pelle dell'animale appena ucciso e vi soffiava
dentro direttamente con la bocca, gonfiandolo come
un pallone e scuoiandolo con il fiato in pochi
minuti. Purtroppo il destino non fu benevolo con
lui. Negli anni '70 emigrò in Germania, dove si
era trasferito in famiglia per lavoro: un
incidente in fabbrica lo strappò alla vita ed ai
suoi cari. Ricordo con affetto anche suo figlio
Michelino (classe '52), mio compagno di scuola
alle medie ed alle elementari. Tornato a San Salvo
dopo la morte del padre, aprì una macelleria in
Via Montegrappa. Ancor giovanissimo un crudele
destino si accanì anche contro di lui: mentre era
intento a pulire il bancone della sua macelleria,
una forte scossa elettrica gli fu letale.