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Ogni mondo è paese, ma il mio paese è il mio mondo.
Fernando Sparvieri







Ma chi sarebbero li salvanése

I racconti di Fernando Sparvieri



Un po' di storia locale raccontando personaggi








Evaristo Sparvieri
A Lendélle
(A Lentella)

(Fatterelli)

di Fernando Sparvieri





Racconto scritto nel centenario della nascita di mio padre,
il maestro elementare Evaristo Sparvieri



Alla ricerca dei SS.Cosma e Damiano
 



Dopo l'esperienza palmolese, l’anno successivo, nel '57, mi toccò andare a Lentella.

Mio padre riottenne un trasferimento a la Uardióle (C.da Guardiola), una frazione del Comune di Fresagragrandinaria ad un tiro di scoppio da Lentella, dove era già stato ad insegnare in gioventù. Mia madre, invece, anch’ella maestra elementare, all’epoca fuori ruolo, ebbe un incarico annuale a Lentella capoluogo.

Andammo ad abitare in Via Roma, in una casa di una brava famiglia che di cognome faceva Cianci, che era ubicata appena smonta la salita.

Era di proprietà di Gine lu ferrarille (Gino il fabbro). Sua moglie, una brava signora, si chiamava Amalia ed aveva due figli maschi: Evandro, già giovanottino, che faceva come il padre il fabbro in piazza, e Oscar, il secondogenito, che andava a scuola.

Ricordo che a fianco a quella casa, c’era nu capescale (una scala esterna) in cui abitava una famiglia che i lentellesi chiamavano Niciarélle, simile ad un soprannome di un mio futuro dirimpettaio sansalvese, nella casa che stava finendo di costruire mio padre a San Salvo, in Via Savoia. Non era un appartamento vero e proprio quella nostra residenza a Lentella. Era 'na camere de case, che oggi chiamano in un modo di lusso: monolocale. Per una famigliola come la nostra, composta da padre, mamma e prole, che poi ero solo io, stavamo un po' stretti, ma in compenso potevamo muovere la testa a destra e a sinistra. Non ricordo bene dove fosse il bagno. Forse era fuori, dalla porta. A me bambino di quattro anni, facevano fare la cacchina in un pisciatore di zinco smaltato bianco scucchiulujéte (era saltato in qualche punto lo smalto) e poi, con quello in mano, uscivano fuori dalla camera, recandosi forse in un bagno adiacente alla porta, che stava sul ballatoio delle scale.

In compenso c'era però una bella camera da letto, con la Madonna sulla testa, un bel fornello nuovo per cucinare e naturalmente 'na bella banghe (un bel tavolo), multiuso, meglio di 'na cucéna 'merrecáne (una cucina componibile). Nonostante la presenza della Madonna in quella camera, un mattino successe un brutto incidente: mia madre, alzandosi per andare a scuola, poggiò accidentalmente un piede su una 600 Fiat grigia, affracchénnele (distruggendola con il suo peso). Era la mia prima macchinina giocattolo di cirologgiche (di cerolodie), una novità per quei tempi, e gli si ruppe la cappotte. Ci rimasi davvero male nel vedere quella mia automobilina coinvolta in quel brutto incidente. Non vi fu carrozziere nei paraggi in grado di ripararmela. Restò una 600 decappottabile a vita. Pazienza.

A parte questo incidente, che fortunatamente si risolse senza feriti gravi (a mia madre uscì solo un pò di sangue al tallone di Lidia, così si chiamava la mia mamma), quell'anno scolastico a Lentella fu per me determinante per la mia crescita sociale e culturale. Lentella era un paesino, piccolo, a misura d'uomo, anzi direi a misura di bambino. I miei genitori, per questo motivo, mi mandavano, senza alcun timore, a comprare da solo la pasta da Za' Amalia, un negozietto d'alimentari che vendeva anche le sigarette, che stava sulla strada a fianco della casa in cui abitavo. Lì, via Roma, restringeva un pochino, proprio a causa della casa in cui eravamo in affitto, che per metà stava mmezze a la ve' (im mezzo alla strada), gnè Marcofene 'mmezze a lìune (come Marcofono in mezzo alla luna).

Quell' anno di villeggiatura a Lentella non me la passai tanto male. Facevo il signorino. In pratica, ad eccezione di quando mi mandavano da Za' Amalia a comprare la pasta, la mortadella, e qualche volta, quando finiva, anche il sale, me la spassavo.

Mio padre, infatti il pomeriggio, quando tornava da la Uardióle, mi portava a spasso per tutta Lentella e mi faceva anche da Cicerone.

"Cua' è la Repe" (Questa è la Rupe), mi diceva. La Ripe, come dicono i lentellesi, era nu durrupatúrie (un dirupo) alto qualche centinaio di metri, dalla cui sommità si scorgeva mezzo mondo. Mi diceva: "Là sta San Salvo". Io guardavo in direzione del suo dito, ma vedevo poco niente. San Salvo era ancora 'na squécchie (piccola, come un escremento di gallina) e si vedeva da lontano qualcosa che mi pareva un pollaio.

Poi aggiungeva: "Là sta Montalfane, là sta lu muàre, cua' è la Treste, a elle lu fijume".

Come vedeva il fiume Trigno si avventurava in racconti bellici. Mi diceva:" Durante la guerra, quando gli inglesi bombardavano San Salvo dal ponte del fiume Trigno, io, insieme a tutta la mia famiglia, siamo stati sfollati a Lentella. Qua ci abitava una parente di San Salvo, Teresa Zaccardi, che era la moglie di Cumpuà Dionine (Cianci), a cui zio Antonino (suo fratello) aveva battezzati i figli. Siamo stati da loro più di un mese. In quel periodo non mi son tagliato mai la barba ed avevo una bella barba nera. Un giorno stavo qui, a la Répe, insieme a zio Antonino, quando da lontano abbiamo visto due soldati tedeschi che venivano verso di noi. Per non farci catturare séme calite (siamo scesi) abballe pe la Répe (giù per la Rupe), ze seme annusche dàndre a 'na rócchie (ci siamo nascosti in un anfratto nella roccia), ze séme calite le cazzìune (ci siamo calati i pantaloni), ze séme accucculìte (ci siamo accovasciati) e facevamo finta di cacare. I tedeschi passarono, non ci videro ed andarono via".

Io lo ascoltavo e li vedevo anch'io quei tedeschi che arrivavano e vedevo anche loro due, mio zio e mio padre, che sotta a na rócchie, stavano accucculìti, facendo finta di cacare e pensavo: "Ma questi erano proprio scemi. Se a uno di loro, in quella posizione a 35%, con i pantaloni calati, j scappave nu scardille (gli scappava una scorreggia) i tedeschi lo avrebbero sentito e risposto al fuoco. Meno male, pensavo, che non li scoprirono, sennò dovevano uscire allo scoperto, con le mani in alto, i calzoni calati, con i due fratelli fuori, cioè lui e mio zio, fuori da la rócchie."

Ma il giro di perlustrazione turistica non finiva lì. Terminata la visita rupestre, dopo aver passato sotto un arco, sopra il quale c'era una camera di casa, mi diceva: "Quà vicino abita commare Terese" e poi mi portava in Chiesa, dove secondo lui c'erano i fratelli Santi Cosma e Damiano. Ma non c'erano mai. C'erano sempre gli stessi santi: Sant'Antonio e Santa Innocenza, che non fornivano indicazioni.

Il giorno appresso stesso giro, stessa corsa: a la Répe, là sta San Salvo, Montalfano, la Treste, il fiume Trigno, tornavano i tedeschi, lui e zio Antonino dentro a la rócchie, i pantaloni calati, i due fratelli fuori, e poi alla chiesa; ma dei SS. fratelli Cosma e Damiano, nessuna traccia. "Muahh", pensavo io, "vuoi vedere che sono stati catturati dalle SS, scambiati per i fratelli Sparvieri?".

Finalmente li ritrovò il 25 Febbraio in una chiesetta che stava sempre chiusa in piazza, dove non erano prigionieri dei tedeschi, ma di Don Luigi, il prete di Lentella. Gli faceva prendere tre giorni d'aria all'anno: il 25 febbraio, il 26 luglio ed il 27 Settembre. "Questi Santi", mi disse commosso rivedendoli, "si chiamano Sande Cosme e Damiane e sono fratelli cuggini (cugini) di Sande Vetale. Quando San Vitale faceva il compleanno venivano sempre a trovarlo a San Salvo ed anche San Vitale veniva a Lentella, quando lo facevano loro. Poi hanno litigato", e mi raccontava di quella lite tra santi, un vero peccato.

E poi continuava: "Sande Cosme e Damiane, sono bravi medici e fanno miracoli. Meglio di loro non c'è nessuno".

"Ma come!", pensavo dentro di me:"Allora dici pure le bugie?".

E mi tornavano in mente le sue parole quando parlava del dott. Federico Bontempo, con mia madre.

"Lidia!", le diceva: "Federico è bravissimo. Fa i miracoli. Meglio di lui non c'è nessuno".

Poi capii tutto. Innanzitutto il dott. Federico Bontempo, che era il medico condotto di Lentella, originario di Montenero di Bisaccia, che da giovane si era strasferito a San Salvo, era suo amico da una vita e poi sua moglie, Zia Lidia, così la chiamavo io, era una parente omonima di mia madre.

E' un po' complicata la vicenda di questa parentela con il dott. Bontempo, ma ve la renderò chiara. Mia madre, che come già detto si chiamava Lidia come la moglie del dottor Bontempo, era una nipote acquisita di Donna Emma la mamméne, la levatrice di San Salvo, da mia mamma chiamata Za' Cummuare (zia comare), essendo stata da lei anche battezzata. Za' Cummuare, di origini aquilane,  era la madre di Zia Lidia, la moglie del dottore, che aveva sposato Antonio Fabrizio, un fratello maggiore di mia nonna Maria, che rimasta orfana da bambina, era stata cresciuta da Za' Cummuare e da suo fratello Zi' 'Ntónie, e quindi a questo punto vi dovrebbe essere tutto chiaro. (N.B. se volete saperne di più su chi fosse questa Za' Cummuare, cliccate qui).

La Fabreziare' - Un ramo della famiglia Fabrizio nei primi anni del '900. Nonna Maria è la ragazza in piedi, la prima a sinistra, con l'abito nero, in segno di lutto per la morte della della madre. Si occupò di lei il fratello maggiore Antonio che sposò Donna Emma Frasca, la levatrice acquilana, venuta occasionalmente a San Salvo per un parto nella famiglia di Don Oreste Artese, farmacista, persona tra le più benestanti di San Salvo.


Ho spledidi ricordi di quella casa lentellese del dottor Federico Bontempo, unico medico del paese. Stava anch'essa in Via Roma, a due passi dalla casa del sig. Gine lu ferrarille, che poi seppi che era il fratello di Evandro (Cianci) e di cumpuà Dionine, il marito di cummuare Terese, e questo spiega anche perchè vi ero capitato io.

A casa del dott. Bontempo, ci andavo a vedere la televisione.

Alle 4:00 in punto del pomeriggio, infatti, ero lì, puntuale. Quando la RAI iniziava le trasmissioni, andavo a trovare suo figlio Pietro, quasi mio coetaneo, e vedevamo la TV dei ragazzi. Alla sera, poi, ci tornavo spesso, una sera si ed un'altra pure, con i miei genitori per vedere il telegiornale. Dopo il telegiornale, e spesso e molto volentieri restavamo anche a cena, vedevamo tutti insieme Carosello, alle nove di sera. Poi tutti a dormire, ad eccezione del sabato sera, quando c'era qualche bella trasmissione.

Mio padre, lì imparò anche a fare il medico. Dopo il giro turistico per il paese, se ne andava a trovare il dott. Federico nel suo ambulatorio e lì parlavano di medicina. Per mio padre, non vi fu altro medico, per tutta la sua vita, di cui si fidasse cecamente; tantissima era la sua stima nei suoi confronti.

Lì, dentro quell'ambulatorio, parlavano di tutto: di come era fatto il cuore, il fegato, i polmoni, i calcoli renali, di quanto era lungo l'intestino, del perchè si incarnava un' unghia o nasceva lu turnadàte (il patereccio), lu vrugnaróle (l'orzaiolo). L'unica cosa che non mi piaceva era quando il dott. Bontempo, per spiegarsi meglio, gli diceva: "Evari'! Aspetta un attimo!". Usciva fuori dall'ambulatorio e se ne andava su al piano primo, ridiscendendo dopo un po' con un libro, in cui stavene artrattìte (erano ritratti) scheletri, coccie da morte (teschi), uomini spellati, insomma come stavamo fatti noi dentro e sapere che dietro la facciata umana si nascondessero quei mostri, detto sinceramente, un po' mi spaventava.

Una sera il dottor Federico gli disse: "Evaristo sai come nascono i bambini, come avviene il concepimento nell'utero... ". Mio padre gli fece: "Ssss!", portandosi il dito indice sulla bocca. Alzai io il dito. "Io lo so", dissi al dottore. Mio padre ingiallì. "E' come nascono?", mi chiese il dottore: "Li porta la cicogna", risposi. "Bravo!" esclamò mio padre. Dovetti aspettare altri vent'anni prima di capire come funzionasse veramente il concepimento ed a dire il vero, a parte ciò che sanno un po' tutti, superficialmente, tra protozoi, dermatozoi, metazoi, antigrittogamici, peronospora della vita, sono ancora orfano in materia, diceva il mio amico Mario.

Poi dicono che i bambini dicono le bugie!

Il corso universitario, generalmente, finiva verso sera, quando arrivavano i primi pazienti, che aspettavano, pazienti, nella sala d'aspetto, che mio padre finisse i suoi corsi di medicina. Poveracci, sembravano avere tutti l'itterizia, ma non avevano la cirrosi epatica: era colpa di quel lampadario all'ingresso, che faceva una luce fioca e gialla, ingiallendo i loro visi.

Aveva ragione mio padre. Faceva davvero i miracoli il dott. Bontempo a Lentella. Erano quelli i tempi in cui l'ospedale di Vasto era lontano, e si pagavano anche le degenze. Il dott. Bontempo li curava tutti, o quasi tutti a casa, anche persone colpite improvvisamentre da ictus cerebrali, paralisi, o da altre gravi patologie, recandosi di persona, ogni giorno, nelle loro case e spesso nelle masserie.

Anche se mio padre, frequentandolo assiduamente, era diventato un mezzo medico (un mezzo infermiere già lo era avendo frequentato in gioventù un corso per fare le punture), la sua vera professione era quella di maestro elementare e dopo qualche mese me lo dimostrò di persona.



Foto scattata qualche anno dopo il racconto. Parenti in gita domenicale al Porto di Punta Penna a Vasto. Da sinistra Gilda Checchia, moglie di Mimì Napolitano, Lina Fabrizio, moglie di Virgilio Cilli, Lidia Fabrizio, moglie del dottor Federico Bontempo, mia madre Lidia Napolitano, mio padre Evaristo Sparvieri, il dott. Federico Bontempo con le mani poggiate sulle spalle del figlio Pietro, Virgilio Cilli e Mimì Napolitano, fratello minore di mia madre. L'altro bambino al centro indovinatelo voi chi era. Io non lo so.


segue

14 Ottobre 2021


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