A Lendélle
(A Lentella)
(Fatterelli)
di Fernando Sparvieri
Racconto scritto nel centenario della nascita di mio padre,
il maestro elementare
Evaristo Sparvieri
La scuola peripatetica
"Averistotelica" lentellese
Come dicevo prima, erano quelli gli anni di Carosello e delle
prime reclames televisive, così chiamavano all'epoca gli spot
pubblicitari, ed i muri dei paesi cominciarono ad essere
tappezzati anche di manifesti di prodotti commerciali di ogni
tipo, insieme a quelli istituzionali del Comune, della
Provincia, e di quelli dei partiti politici.
Vi era un muro a Lentella, all'inizio di Via Garibaldi,
tappezzata di manifesti e lì, il pomeriggio, dopo il giro
panoramico per il paese, mio padre si fermava e li leggeva.
Gli interessavano i manifesti istituzionali ed anche quelli
dei partiti, mentre io, a fianco a lui, con la manina nella
sua mano, guardavo i mammocci
artrattite (ritratti).
E fu così che un pomeriggio all'improvviso mi fa: "Lo sai come
si scrive una bella
o".
"Bohhh" gli risposi, mai immaginando che il bicchiere non
serviva solo per bere. "Questa è la
o", e me la indicò
su un manifesto con il dito. "E' uguale ad una palla", mi
spiegò. Fraintesi un attimo non capendo a quale palla si
riferisse.
Poi continuò: "Questa è la
i con il puntino sulla
i,
questa è la
a, che è come una
o con una
i
attaccata a destra, ma senza puntino sulla i, questa è la
u
che è come due
i attaccate una dopo l'altra, ma sempre
senza puntini sulle i, e questa è '
na bella e
come la e di Evaristo".
"E la
f di fernando? gli chiesi per sapere se era
bella come la
e di Evaristo? E lui rispose: "Quella è
una consonante, noi stiamo studiando le vocali. '
Na cose a
la vo'" (una cosa per volta), concluse.
Le vocali me le indicava sul manifesto a caso, così come gli
capitavano sotto tiro. Il giorno seguente ricominciò: "Allora
mi sai dire dove sta qua
'na bella o". Io
guardai ed azzeccai. Bravo mi disse ed io
mi impostai (fui
orgoglioso di me stesso). Divenne una consuetudine il
pomeriggio. Io cercavo di non sbagliare quando lui con il dito
mi insegnava le vocali e lui mi diceva bravo. Poi fece lo
stesso lavoro con le consonanti e ci volle un po' più tempo,
specialmente con la mutolina
h, che mi diceva si
scrive ma non si legge. "Muahh", pensavo io, "se non si legge
perchè devo leggerla?". Non ci capivo un acca, ma non gli
dissi nulla per evitare discussioni.
Le consonanti che più mi piacevano erano la
m con tre
zampette, quella vera, però,
pronunciata con la m di
mela e non
emme (che mi ricordava Emme de Mingaune), e
pure la
n con due zampette, pronunciata nghe la n n n
(non so come fare per farvelo sentire per iscritto), e non
enne,
come chiamava Anna,
la ripaltàse, la moglie
de
Pasqualicce a la piazze, che era di Mafalda. La
consonante più odiosa era la
c, che insieme
alla
a si leggeva
ca e insieme alla
i
si leggeva
ci e non
chi. E qui cominciai a
capire a cosa servisse la mutolina. Facile facile fu quando mi
spiegò la
ccu: era come una
o con una zampetta
lunga e dritta, si scriveva così
q, praticamente come
una
a, non con la zampetta
argrecchéte,
(rigirata in alto come un uncino), ma tirando dritto, sotto,
fino a toccare l'altro rigo del quaderno a righe. La
confusione regnò ancor più sovrana quando finalmente mi spiegò
la
f di Fernando, la
L di Lidia, che era sua
moglie, la
s di Sparvieri, che era il suo cognome, e
la
z di zio Mimì, che era il cognato. Furono
davvero momenti complicati. La
f si leggeva
f,
come la
f di Fernando ma si chiamava
effe, la
L si leggeva
L, come la
L di Lidia, ma
si chiamava
elle, la
s si leggeva
s
come la
s di Sparvieri , ma si chiamava
esse,
e la
z di Zio Mimì si leggeva
z ma si chiamava
zeta.
Altra lieve difficolta quando mi spiegò i verbi ausiliari e le
preposizioni articolate. Con il verbo essere non avevo
problemi, ma con il verbo avere sì. Sempre quella cazzo di
mutolina. Il dubbio era: "Come scrivo:
ai o
hai?".
Altro dubbio con l'apostrofo. Si scrive
ce o
c'è?
Tiravo sempre un po' ad indovinare e spesso ci azzeccavo.
Praticamente solo la
e di Evaristo, la
a di
Antonino, la
o di palla, la
i di
Ianuccie
lu macellare e la
u di
Uggénie lu sacrastane,
si scrivevano e si leggevano come li aveva inventati Cristo,
avrebbe detto Mastro Luigi di Iorio, il sarto. Per il resto
era arabo, rendendomi conto del vero motivo per cui la lingua
italiana dicono che sia tanto difficile.
E così,
daje e 'rdaje (a furia di insistere), alla
fine mi insegnò anche tutte le consonanti, in corsivo ed in
stampatello, e poi ad unirle con le vocali per comporre le
sillabe, e successivamente i verbi e qualche altra
stupidaggine. Sorvolò un po' sulla matematica, sui numeri
arabi veramente, ma sapevo già contare fino a 30. Perciò mi
insegnò le tabelline dell' 1, del 2 e del 3, le uniche che
ricordo bene ancora oggi insieme a quella del 5, che imparai
quando andai a scuola.
Ed ecco un bel giorno a sorpresa l'esame finale. Avevano
appiccicato un bel manifesto nuovo, fresco di colla,
addo'
stave artrattate 'na bella zanzare (dov'era ritratta una
bella zanzara). Mi fece una domanda trabocchetto. Io mi
aspettavo che mi dicesse di leggere zan...za...ra. E invece
no. Mi disse: "Vediamo se riesci a leggere questa parolina in
stampatello: Ed io iniziai:
"FFFF LLLL IIII TTTT... FLIT",
esclamai. "Bravo", mi rispose.
Orama' ave' sfeléte
(Ormai avevo iniziato a leggere) e non mi avrebbe fermato più
nessuno, fatta eccezione di quei 4 mesi di filone che feci a
Vasto, quando divenni studente al Magistrale, dandogli una
grossa delusione.
Sapete che mestiere voleva che facessi da grande? Naturalmente
il maestro elementare? Mi diplomai con molte difficoltà molti
anni dopo. Feci anche un concorso magistrale. Lo vinsi a primo
colpo, ma finii per fare, con altra sua grande delusione,
l'impiegatuccio comunale. Per poco non svenne quando glie lo
comunicò ufficalmente la mia fidanzata. Io non ebbi il
coraggio di dirglielo: aveva litigato con
Do' Lelle, e
temeva fosse una mossa per farlo ripaciare. Mi lasciò libertà
di scelta, ma non ci ripaciò. Ma questa è un' altra storia, ed
anche se non mi disse nulla,
mo scuppave ncúrpe (stava
per scoppiare dentro): mi sognava direttore didattico di
Fresagrandinaria e Lentella.
Tornando ai pomeriggi lentellesi, gli unici manifesti che non
mi faceva mai leggere erano quelli del partito comunista, che
a Lentella, da quel che seppi da adulto, andava forte. Io ero
attratto dal giallo di falce a martello su sfondo rosso. Io
leggevo PCI. "
No quasse lassele perde", mi diceva in
dialetto. "
Je' so' bianghe", mi diceva sempre, anche se
io non riuscivo a capire come potesse piacergli un bianco
manifesto inespressivo, rispetto a quelli con tanto rosso ed
il giallo della falce e del martello. All'epoca lui e Do'
Lello erano ancora grandi amici.
La scolaresca de la
Uardióle nell'anno scolastico 1957-58. Il maestro a
sin.era mio padre Evaristo Sparvieri. Il prete non lo so.
Forse era il prete di Fresagrandinaria, nel cui territorio
ricade C.da Guardiola.
Era un bravo maestro mio padre:
sapàve lu fatte so' (era
preparato). Era talmente preparato che alla mattina si
preparava per andare a scuola
a la Uardióle. Si
metteva in testa una piroletta, così chiamava il suo basco
nero con il pirolino, un bel cappotto pesante, che
faciàve
fucheje', cioè teneva caldo,
du' chiapppétte
pe le pénne (due mollette da bucato) sotto ai
pantaloni, e con la sua bicicletta da maschio, a cui aveva
applicato un motorino della Garelli, il famoso Mosquito, se ne
scendeva a folle, per risparmiare miscela, fino
a la
Uardióle. Al ritorno, per non pedalare, accendendeva il
Mosquito, ma gli piangeva il cuore, e tornava a casa per
mangiare. Si era un po' ingrassato in quel periodo mio padre e
diceva che era l'aria di Lentella, ma secondo me erano
che le félle (quelle fette) di mortadella
, del
negozietto di
Za' Amalie. Anche mia madre divenne un
po' cicciotella, e nel suo caso forse era veramente l'aria di
Lentella, considerato che mangiava poca mortadella e non
arrivò manco la cicogna.
Povera mamma, le feci passare i guai una mattina. Siccome
ave'
sfeléte (avevo iniziato)a leggere e scrivere, a mia
insaputa, decisero di farmi frequentare la scuola. Forse
parlarono con un maestro e mi tesero l'agguato.
La seguii tranquilla sino a scuola, ma quando mi accorsi della
malaparata, cominciai a dare calci a destra e manca, come
avevo fatto due anni prima quando mi portarono all’Asilo di
Sanda
Nicole a San Salvo. Non ci fu nulla da fare:
riconquistai come due anni prima l’agognata libertà e rimasero
per la seconda volta
frecati.
Una bicicletta simile a quella
di mio padre con il motorino Garelli applicato vicino ai
pedali. I raggi della ruota posteriore erano
rinforzati. Notare il serbatoio della miscela sul
portapacchi e vicino al fanale il portabollo in plastica.
All'epoca le biciclette pagavano il bollo ed i carabinieri
emettevano salate multe se non lo si aveva. Anche i
carretti erano soggetti alla tassa di circolazione.
Ho bei ricordi di Lentella. Conobbi tanti bambini e persone,
che ancora oggi, porto nel mio cuore. Alcuni di loro avevano
nomi uno più bello dell'altro, addirittura più belli di quello
di mio padre Evaristo, che in greco significa gradevole, di
bell'aspetto. Si chiamavano Vivaldo, Sinibaldo, Vanni, Ebe
(nome femminile), Servante, Osmero, Fusco, Genesio, Gesualdo,
Icinio, Allegro.
E proprio in un allegro pomeriggio lentellese conobbi Alfredo
Bucciantonio, il fratello maggiore di Federico, il futuro
Sindaco di San Salvo negli anni '90, che seppi dopo che
apparteneva a chelle
de la milanìlle (famiglia
discendente da Melanina), come il mio amico Osvaldo Menna, che
non era un soprannome, ma il nome di battesimo in dialetto di
sua nonna.
Era un bel giovanotto, Alfredo, quando lo conobbi io. A
Lentella non era niente, manco consigliere comunale.
Faceva l'attore, anzi il prete. Ed era un bel prete,
ci
diciàve (stava bene con la tonaca)
, non proprio
come Don Matteo (Terence Hill), ma quasi. Giovanissimo, con
una tonaca nera, come indossavano tutti i preti quando io ero
bambino, apparì improvvisamente sulla scena di un teatro
parrocchiale, insieme a tanti ragazzi come lui e belle
signorine che gli cantavano: "Amami! Alfredo!" ed Alfredo li
amava tutti in modo preterintenzionale, forse già pensando a
qualche carica istituzionale. Era un attore nato Alfredo, nato
a Lentella.
E la gente, rideva. Era una recita in Chiesa, o lì vicino.
Sono trascorsi tanti anni e qualcosa non ricordo bene. Ciò che
ricordo bene e che non dimenticherò mai, è che a Lentella
c'era una quiete ed una pace da mattina a sera. Si sentivano,
all'alba, il cinquettio dei passeri ed il frinire dei grilli e
cicale, in un concerto quotidiano interrotto dai colpi di
martello di qualche fabbro o falegname , in quella dolce mia
primavera lentellese, che mi vide compiere cinque anni.
Era proprio bella la mia piccola Lentella.
Certe sere, ai Colli c'era la Luna piena, e la si poteva
toccare con un dito, facendo un saltino tra le stelle, nel
firmamento.
A scandire il tempo c'erano il rintocco delle campane e le
corriere.
"Che ora è?", domandava qualcuno.
"
Mo ha passate la poste de le cinghe" (Adesso è passata
la corriera delle 17:00), gli rispondeva qualche altro.
"
Muahhh! Mo me vede la lútema poste e dóppe me vaje a durmi’”
(Muahhh. Adesso aspetto che passi l'ultima corriera e poi
andrò a dormire).
Era l'ultimo svago per gli anziani lentellesi, ogni
sera.
Ed arrivo' anche per noi l'ultima sera.
Non aspettamo la corriera.
"Torniamo con il Mosquito", disse mio padre. Forse era tanta
la nostalgia per il suo paese natio e per il suo mare, che
aveva da lontano, tanto ammirati dalla Rupe.
Partimmo.
Mi fece sedere su un seggiolino, che stava agganciato al
manubrio, e mentre mamma iniziò a camminare a piedi, accese il
Mosquito, anche se era discesa, e partì.
Percorse alcune centinaia di metri e mi fece scendere: “Adesso
tu continua a camminare a piedi sul ciglio della strada", mi
disse. "Stai attento, che tra un po’ ritorno".
Rigirò il Mosquito e risalì la strada. Dopo un po’ lo vidi
arrivare con mia madre seduta sul telaio. Mi superarono.
Poi lasciò mia madre più avanti e mentre mia madre proseguiva
a piedi, tornò indietro a riprendere me.
Poi lasciò me e riprese mia madre.
Il sole primaverile era tiepido quando passai a piedi accanto
al vecchio gessificio e dopo un po’ arrivammo al bivio.
Ero felice, ma in quel bivio, quel bel gioco finì.
"Evari'!", sentii una voce chiamarlo.
Era un collega di Fresagrandinaria, che si era fermato con una
600 blu, avendolo riconosciuto.
Andava a Vasto.
Dopo un po' fece salire me e mia madre sulla sua 600, e ci
riportò a San Salvo.
Io seduto al sedile posteriore, lungo la discesa che conduceva
al ponte del fiume Treste, ogni tanto mi giravo dietro,
sperando di vedere mio padre, che come un corridore di
biciclette, sbucasse veloce dopo ogni curva, seguendoci in
discesa.
Non lo vidi.
Arrivò a San Salvo con un distacco di circa mezz'ora.
Il suo Giro d'Italia scolastico nelle frazioni dell'alto
vastese in bicicletta, era terminato.
Vinse la sua ultima tappa Lentella - San Salvo.
Al traguardo eravamo ad appaludirlo io e mamma, per dirgli che
aspettavamo con ansia il suo arrivo, e che non saremmo
ripartiti mai più.
14 Ottobre 2021
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