Il cinema in piazza
(Il furgone dell'Istituto Luce)
di Fernando Sparvieri
Alla sera un via vai di gente con le sedie andava in piazza.
Era uno spettacolo osservarla.
Non era la sera della festa di San Vitale: "
Ze faciàve lu
cineme" (c'era il cinema).
Era arrivato in giornata in Piazza San Vitale il furgoncino
FIAT dell'Istituto Nazionale Luce ed era un avvenimento da non
perdere. I tecnici dell'Istituto, da dentro il furgoncino,
proiettavano verso l'esterno, su un telone quasi sempre
apposto vicino ad un muro a fianco al bar di "
Vitarille"
(di Vito Ialacci), dei documentari che mostravano l'Italia
nell'immediato dopoguerra, finalmente alle prese con una nuova
era di sviluppo e di progresso.
La gente, seduta ognuna sulla propria sedia, seguiva
sbalordita le proiezioni, mentre il raggio luminoso e la
colonna sonora, che fuoriuscivano da speciali aperture e
botole collocate sulla cappotte del furgone, conferivano a
quello spicchio di piazza, per una sera, un'atmosfera
suggestiva ed irreale.
Si udiva nei pressi del furgoncino un
trrrrrrr che era
il rumore della pellicola che scorreva sugli ingranaggi
dentati della macchina proiettatrice.
Era musica per le mie orecchie, che ero un bambino.
I più felici eravamo proprio noi bambini. Per me ed i miei
amichetti, che già nel primo pomeriggio, gironzolavamo curiosi
intorno al furgone, era come assistere ad una romanzo
avveneristico di Jules Verne, in un paese che non offriva
niente come divertimenti, se non giocare alla sera
a
chiuppacéce (a nascondino)
e ad altri innocenti
giochi collettivi, tramandati da generazioni, tra cui anche
qualcuno non propriamente educativo come quello di
je'
tuzzuluénne le porte (bussare alle porte delle
famiglie), ridendo a crepapelle alle ingiurie ad alta voce che
ci piovevano addosso da chi si affacciava sull'uscio e capiva
lo scherzo.
Ma anche gli adulti guardavano quei documentari a bocca
aperta. Era per tanti di loro un mondo lontano, anni luce.
Immagini di inaugurazioni di mastodontiche opere pubbliche, di
primi treni elettrici che stavano sostituendo le vecchie
locomotive a carbone, di aeroplani a reazione impegnati nelle
prime trasvolate oceaniche, di nuove realtà industriali quasi
tutte al nord, scorrevano dinanzi agli occhi stupefatti di
bambini ed adulti, che guardavano lo schermo ammirati e
sbalorditi, come se stessero assistendo ad un mondo irreale e
fantastico, che non esisteva, ed invece c'era, una specie di
finzione cinematografica.
Eravamo negli anni cinquanta, ma le lancette dell'orologio del
progresso a San Salvo, così come anche quelle dei paesi
limitrofi, sembravano essere ferme da secoli o almeno andare
indietro rispetto a tutte quelle meraviglie proiettate sul
telone.
Quanta differenza tra San Salvo ed il resto del mondo vi era
in quei documentari, ma nessuno sembrava dargli peso: era come
assistere estasiati e nel contempo rassegnati ad uno progresso
che non ci apparteneva, che toccava ad altri, senza invidia: a
noi, per lo più contadini, toccava zappare la terra, con
sacrificio e sudore, con gioia per le annate buone e
preoccupazione per quelle che andavano a male, spesso per
"scherzi" metereologici. Agli altri, invece, sopratutto a
quegli uomini proiettati sullo schermo, il destino aveva
riservato sorte migliore, perchè da sempre così era stato,
così come si udiva nei racconti di chi era tornato
dall'America o di chi aveva fatto il soldato in grandi città e
che aveva
assaggiate (assaporato) il sapore di
un'antica modernità
Povera San Salvo, a pensarci oggi, com'era ridotta male.
Nel suo aspetto, un po' come tutti i Comuni limitrofi, era
rimasta pressoché identica all' '800, quasi del tutto
dimenticata dal progresso. La sua unica fortuna era il
passaggio della S.S. 16 in mezzo al paese, che rappresentava
l'unico vero contatto con il mondo esterno e con qualche
novità.
A qualche anno dalla fine della guerra, che in scenari
inquietanti aveva fatto cattivo sfoggio di moderni mezzi
bellici, mai visti prima, come i carri armati, camionette,
jeeps e persino aerei (sull'arenile vi era stato il campo
d'aviazione inglese), il paese era ripiombato nel suo atavico
medievalismo. Le abitudini, il modo di vivere, il grado
culturale della gente, non si discostavano molto da quelli dei
loro padri: secoli e secoli e modi di fare e pensare
tramandati da padri in figli; stesse mentalità; stessi modi di
affrontare la vita.
Gli asini, i cavalli, i buoi, che erano stati i mezzi di
trasporto secolari delle precedenti generazioni, erano ancora
i principali mezzi di locomozione e di lavoro. Nelle case vi
erano ancora le stalle. Gli animali da cortile passeggiavano
per le vie disturbate da qualche bambino che si divertiva a
rincorrerle, buscandosi qualche ramanzina dagli adulti. Le
strade erano ancora per la gran parte in terra battuta e
quando pioveva
la józze (il fango), imbrattava le
misere scarpe della gente, che molti ripulivano ancora "'
nghe
lu nicrifimue" (primordiale crema per scarpe), prodotta
in casa "'
nghi lu save e la filemmie", strutto o sugna
di maiale misto alla fuliggine del camino o del paiolo in
rame.
Certamente qualche timido segnale di progresso iniziava ad
intravvedersi.
Qualche motocicletta e automobile in più, prima appannaggio
dei soli Don Gaetano de Vito, Don Oreste Artese, Don Vitaliano
Ciocco, iniziavano a vedersi in giro.
Lu
camie de Tinarille (il camion di Luigi Di
Rito)
e qualche anno dopo
di
'Ntónie Carruzzìre (Antonio Fabrizio)
e
di
Vetale Valérie (Vitale Torricella, figlio
di Valerio),
avevano già sostituito
"le trajéne"
(i carretti), con i quali i loro padri avevano svolto il
servizio di trasportatori di merci conto terzi;
la pustalàtte de Capàune e le
prime "
pustale" (le corriere) di Tessitore e Di Fonzo
avevano mandato in pensione e nel mondo dell'oblio le carrozze
di
Gelarde (Gerardo)
D'Aloisio, il procaccia
postale, e di
Rocche de Mattijcce (Rocco fabrizio,
figlio di Matteo
), che svolgeva il servizio pubblico
per il trasporto passeggeri da San Salvo a Vasto, ma solo
quando la carrozza era piena;
qualche insegna in legno
dinanzi ai bar aveva iniziato a soppiantare la "
frasche"
(arbusti d'ulivo o di quercia) che venivano apposte sulla
porta delle vecchie cantine.
Insomma i primi progressi già erano nell'aria ed anche
l'amministrazione comunale pro-tempore social-comunista
(1946-1956) cercava di darsi da fare, anche se le risorse
economiche a disposizione erano soventi scarse. A tal
proposito, confidava Sebastiano Napolitano, assessore, a
Fioravante D'Acciaro, che nel dopoguerra non c'erano soldi
neppure per acquistare un foglio di carta.
Molto si era
dato da fare il Sindaco, Domenico Cervone, falegname,
socialdemocratico di Saragat, molto benvoluto dalla povera
gente, che si era prodigato in tutti i modi, con gli scarsi
mezzi ecomonici a disposizione, di rendere il paese più
vivibile. Nel 1948, con non poche difficoltà, era riuscito a
dotare San Salvo della prima fognatura pubblica, liberando per
sempre la cittadinanza dalla schiavitù perenne sopratutto dei
bisogni corporei che la stragrande maggioranza della
popolazione maschile era abituata a fare in aperta campagna o
nelle stalle.
La stessa amministrazione, al fine di sopperire alla carenza
di fondi e rendere meglio praticabili le vie di campagna,
istituì, sempre in quel periodo, la cosidetta "prestazione"
(una specie di fai da te) che era un obbligo rivolto a tutti i
cittadini di prestare la propria manodopera gratuitamente, per
uno-due giorni all'anno, nella bonifica delle vie rurali,
valloni ecc. Naturalmente i benestanti, gli artigiani e chi
svolgeva tutt'altro lavoro si fecero sostituire da altri,
pagando loro la giornata di lavoro.
Nel 1950 venne realizzata, sempre con "la prestazione", anche
"
la pretráte" (un selciato con pietre conficcate nella
terra nelle strade) che liberò dal fango tutta via Savoia e le
"
ruàlle" (i vicoli) confluenti. Ogni cittadino aveva
l'obbligo di procurare al fiume le pietre che venivano
sistemate da due operai del nord, esperti nella realizzazione
dei selciati, appositamente assunti dal Comune. Il lavoro di
preparazione del fondo stradale, livellamenti, pendenze ecc.,
venne eseguito dagli stessi cittadini, che seguivano le
indicazioni fornite loro dagli operai esperti, ai quali
rimaneva l'ultimo compito di sistemare in modo consono le
pietre.
Grazie sempre all' impegno del Sindaco Cervone, amico di
partito dell'On. Mario Tanassi, socialdemocratico, vennero
stanziati, durante il suo secondo mandato, i finanziamenti per
la realizzazione dell'attuale sede municipale (in quegli anni
il Comune,
dopo
che un incendio aveva devastato la casa comunale a fianco
alla Chiesa di San Giuseppe, era in affitto all'ultimo
piano del palazzo di Donna Porfide Artese, ubicato in IV Vico
Savoia), la cui realizzazione venne intrapresa qualche anno
più tardi dalla subentrata amministrazione democristiana, con
Sindaco Vitale Enrico Piscicelli (1956), e ditta esecutrice
dei lavori Impresa Molino di Vasto, che poi negli anni '60,
realizzerà la gran parte delle opere pubbliche in paese.
Insomma, pur tra mille difficoltà, sino alla metà degli anni
cinquanta, qualcosa di nuovo si era già intravista
all'orizzonte, ma la condizione economica e sociale della gran
parte della gente, e sopratutto la mentalità, parevano ancora
essere cristallizzate, come già detto, in una realtà che
assomigliava molto al medioevo, con gente che andava ancora in
giro con le pezze al culo, bambini d'estate scalzi, braccianti
agricoli che non possedevano terreni e lavoravano a giornate
le terre dei benestanti, niente pensioni ed assistenza medica
gratuita, con i soli impiegati statali
che terévene la
paghe (riscuotevano lo stipendio) e spesso, solo per
questo, accreditati del titolo nobiliare di Don.
Parafrasando Carlo Levi, con il suo romanzo "Cristo si è
fermato a Eboli", Cristo, che pure era in Chiesa e nei cuori
della gente, pareva essersi fermato altrove, lontano da San
Salvo e dal Mezzogiorno d'Italia.
Lo Stato era quindi distante anni luce e quando, alla sera,
arrivava quel furgone dell'Istituto Luce, con la scritta sulle
fiancate "Presidenza del Consiglio dei Ministri - Servizio
informazioni", quel raggio di luce, propagandistico, era come
se ne certificasse la distanza, ma nessuno pareva
comprenderla, si lamentava, perché così era stato da sempre,
per secoli e secoli, e le misere condizioni di vita erano la
normalità.
Uno scrosciante applauso echeggiava nella piazza, quando a
sera inoltrata, l'ultimo raggio di luce che fuoriusciva da
quel furgone, scriveva la parola FINE, facendola ripiombare in
quel buio di fatto e secolare.
Solo applausi.
Subito dopo, una lenta processione di uomini e donne,
soddisfatti per aver visto cose mai viste prima, con le sedie
in mano,che si erano portate da casa, facevano rientro nelle
misere abitazioni, soddisfatti di aver visto
lu cinéme.
All'alba la campagna li aspettava.
Fernando Sparvieri
14 novembre2014
NOTE:
- Gelarde (Gerardo D'Aloisio) era titolare del servizio
postale e di trasporto di passeggeri da San Salvo paese
alla Stazione e viceversa, mentre Rocco Fabrizio, figlio
di Matteo, svolgeva il servizio di linea San Salvo-Vasto
una volta la settimana, quando riempiva tutti i posti a
sedere della carrozza.
- Molte notizie relative sopratutto al periodo
post-bellico ed alla Amministrazione social-democratica,
sono state fornite da Tonino Longhi, Fioravante
D'Acciaro e dal Cav. Virgilio Cilli.