La hatte de Donna Vetaléne
e lu capetáne
(il gatto di donna Vitalina ed il capitano)
(Fatterelli)
di Fernando Sparvieri
Vi sono a volte, dei modi di
dire, che si consolidano solo in certe famiglie o in gruppi di
amici, in quanto susseguenti da fatti di scarsa importanza a
cui si è assistiti, non noti a tutti, ma che entrano in un
linguaggio familiare, accompagnandoli per tutta la vita ed
addirittura tramandati da generazione in generazione.
Generalmente gli stessi autori del detto, non sanno neppure di
esserne stati gli artefici, in quanto deriva da frasi
pronunciate in circostanze occasionali, dette così tanto per
dire, che invece rimangono impresse nella mente di chi ha
ascoltato.
Stessa cosa a volte succede con i
soprannomi e nomignoli, non notori a tutti, ma solo ad un
ristretto numero di amici o di persone. Ad esempio mia suocera
aveva una comare, sua coetanea, che lei chiamava
affettuosamente, ma solo in famiglia, cummuare mammoccie,
a causa del suo modo di atteggiarsi a donna compita, colta
e super raffinata.
Tornando ai modi di dire, mio
padre, ad esempio, quando lo contraddicevo, usava rispondermi
con ironia: "Quesso poteto dire, no che la hatto... ecc.
ecc.ecc.", e poi si faceva una risata.
Vi svelerò la parte finale della
frase, alla fine del racconto.
Questa frase, ereditata, che uso
spesso anch'io, quando voglio dire a qualcuno: "Questo puoi
dire a giustificazione, ma non puoi negare un fatto che è
chiaro ed evidente", l'ho riascoltata, con mia sorpresa, di
recente da mio figlio, che vive a Bologna, durante un nostro
discorso, senza che lui ne conoscesse l'esatta origine,
facendo emigrare il detto persino in Emilia e Romagna.
Ho rivissuto in quell'istante, il
racconto di mio padre, che lui, tantissimi anni fa mi fece,
quando mi spiegò l'origine di quella frase, e dopo qualche
difficoltà iniziale su un protagonista della vicenda, mi si è
rilluminata di colpo la mente, facendomi anch'io una risata.
Prima di raccontarvi l'episodio è
però necessario fare una piccola premessa.
Come molti lettori di questo sito
già sanno, mio padre frequentava, insieme a tanti suoi
coetanei (Raffaele Artese, mio zio Antonino Sparvieri, Dino
Artese, Don Peppino de Vito ed altri), la bottega di Mastro
Luigi Di Iorio, che era un tipo molto ironico e sempre in vena
di raccontare fatti interpretati secondo il suo umoristico
punto di vista.
Un giorno successe un fatto, che
tra l'altro succedeva spesso a quei tempi, proprio dinanzi
alla sua bottega, demolita negli anni '60, che era ubicata
esattamente lungo il vicolo che collegava l'attuale Piazza San
Vitale al Municipio, all'incirca dove oggi iniziano gli scavi
archeologici del Mosaico.
I protagonisti della vicenda
erano Giuseppe Di Iorio, soprannominato lu capetáne,
perchè si diceva che era tornato in paese, quand'era soldato,
non si sa come, con una giacca militare con tanto di gradi di
capitano sulle spalle, buscandosi a vita quel soprannome, e
Donna Vitalina De Cristofaro, (Donna Vetaléne), che da
quanto mi è stato riferito da una sua nipote, mia amica, pare
fosse figlia di un segretario comunale, e ciò all'epoca già
bastava per essere appellata con il titolo di
"nobildonna".
Prima di raccontarvi la storiella, bisogna premettere che la
gran parte della gente, all'epoca non parlava in italiano, ma
solo il dialetto, per cui nel momento in cui era costretta a
farlo, ne venivano fuori espressioni che risentivano
dell'influenza dialettale, la vera lingua madre di ogni paese,
e non solo locale e del circondario, ma di ogni Comune
d'Italia. Il mio nonno materno, ad esempio, Sebastiano
Napolitano, ne era un gran campione, anche quando faceva i
famosi suoi comizi sopra
la bangarelle (il palchetto)
in piazza (per approfondimenti
cliccare
qui).
Il luogo esatto in cui avvenne
questa storiella. La signora con la mano dentro la
ringhiera della finestra era Donna Vitalina De Cristofaro,
maritata con Modesto Fabrizio, l'uomo a sinistra. In primo
piano la signora Gina Cilli, sua nuora, avendo sposato
Manfredo, uno dei due suoi figli maschi. L'altro figlio
era Mario mentre la figlia femmina era Maria. Sulla
destra, in alto, un pezzo di muro appartenente
all'edificio di Zi Lisandre di Iorio, zio di Mastro Luigi.
La bottega di Mastro Luigi, non visibile, era ubicato
proprio lì sotto, dirimpetto alla casa di Donna Vitalina.
L'intero gruppo di edifici, voltando su piazza papa
Giovanni XXIII e risalendo, a mo' di rettangolo sino a
Piazza San Vitale, erano di proprietà di più famiglie che
facevano di cognome Fabrizio, riconducibili probabilmente
ad un unico capostitipite.
La storiella è questa.
Era successo che la hátte
(il gatto) di Donna Vetaléne, che abitava proprio
dirimpetto alla bottega di Mastro Luigi, aveva fiutato un
forte odore di pesce che proveniva dalla casa de lu
capetáne, che abitava un po' più sotto, e come succedeva
a quei tempi, quando i gatti erano surgégne
(gran cacciatori di topi), la hátte (in dialetto il
gatto è sempre femminile) era salita méscie méscie (di
soppiatto) sino al primo piano e lì dentro, nella cucina de
lu capetáne, in quel momento deserta, con un balzo
felino era saltata sàprue a la banghe (su
tavolo da cucina) e lì si leccava i baffi, divorando quel po'
di pesce, che il povero capetáne aveva appena
comprato a zi' Predde, un pescivendolo vastese che
veniva a vendere il pesce a Don Peppine (nello
spiazzo dinanzi al palazzo di Don Peppino de Vito).
Senonchè proprio sul più bello, ma solo per il gatto, rientrò
a casa lu capetáne, che scorgendo la hátte sul
tavolo, che si stava mangiando il suo pesce, gli gridò a
squarciagola: "Fristequàaaaaah".
Il gatto, colto in flagrante, arruffando il pelo e digrignando
i denti, emettendo quel tipico suo suono di difesa "cqueeiiihhhh",
che potrete ascoltare nel video di sotto, zompò giù dal tavolo
e sbandando sbandando con le zampine posteriori, tra le grida
di imprecazione del malcapitato capitano, si diede alla fuga,
inseguito abballe pe le scale (per le scale) dal
capitano stesso, che nghe 'na granare mméne (con una
scopa in mano), e 'ngrazie a De' ca nz'è zuffunnáte
(ringraziando Iddio che non incespicò e cadde), cercava
di colpirlo invano. La sua fuga terminò qualche istante dopo,
quando il capitano, lanciandogli apprésse la granare (la
scopa dietro), non lo vide rientrare a la
hattarole (alla gattaiola) della porta di donna
Vetaléne, rimanendo fregato e hàbbáte (gabbato).
"Le puzzenalumuaccéte!" (Che ti possano ammazzare),
iniziò a dire sgomento il capitano. "Ti puzza strije"
(che ti possa tu distruggere), continuò imprecando contro il
gatto.
Quell'inseguimento però non era
stato vano.
"Qualle è la hátte de donna
Vetaléne!" (Quello è il gatto di Donna Vitalina), capì
vedendolo rientrare in quella gattaiola. "Mo me
le faccie arpaha'" (ora mi farò risarcire). Raccolse
per terra la granare (la scopa) e nghe
la granare 'mmène (con la scopa in mano), si avvio
verso la casa di Donna Vetalène.
Bussò
e donna
Vetaléne,
ignara del fatto, si affacciò.
"Donna Vetale'!", le disse il capitano, affannato e
piuttosto agitato. "La hátta to' me z'ha magnate lu
puàscie. E' 'ndrate a la porte, abbasse, ha
sìdde le scale, majme stave a n'andra camere, e z'ha magnate
lu puàscie che pruprie mo ave' 'ccatate! (Donna
Vitalina, il tuo gatto è entrato a casa mia, è salito per le
scale sino al primo piano, mia moglie stava ad un'altra
camera, e si è mangiato il pesce che avevo appena comprato".
"Pussebbele?" (Possibile?), gli rispose sorpresa donna
Vetaléne.
"Pussebbele scie'!" (E' possibile sì!), confermò a sua
volta lu capetáne, a significare che quanto riferito
era vero.
"Muahhh!!!", rispose ancora incredula Donna
Vetaléne: "La hatta ma' ne fa sse cose. Ngi cràde!"
(Il mio gatto è educato, non fa queste cose. Non ci credo).
"Coma è ca 'nci crede donna Vetale'!" (Donna Vitalina,
come non ci credi!), gli disse un po' indispettito lu
capetáne. "L'aje veste je' nghe l'ucchia mi! Che so'
cicate? " (Ho visto il tuo gatto con gli occhi
miei! Mica sono ceco?).
"Ne è ca 'nte cràde, Jse!" (Giuseppe, non è che non ti
credo), gli rispose ostentando calma apparente
donna Vetaléne. "Ma forze ere n'andra hátte'?" (Ma
forse era un altro gatto?), divagò quasi a
voler esentare da ogni responsabilità il suo gatto predatore.
"No Donna Vetale' te sbije!
Ere la hátte to'. Mo je' ne 'ncanascie la hátte de
segnure'?" (No Donna Vitalina ti sbagli. Era il tuo
gatto. Vuoi che io conosca il tuo gatto?), insistette
lu capetane. "Ere prupete hasse! Z'è
rfecchete a la hattarole to'. Meje de ccuscie' te l'aja
dece?" (Era propio lui. L'ho visto rificcarsi
dentro la tua gattaiola. Meglio di così devo dirtelo?).
"Jse'!", gli rispose
sempre con calma apparente Donna Vetaléne: "Ne 'npo' resse
la hatta ma'. J'aje ambárate ca na' da' tucca' lu
puàscie". (Giuseppe, ascoltami bene. Non puo essere il
mio gatto. Gli ho insegnato che il pesce non lo deve toccare).
"N'ha da tucca' lu puàscie to'!" (Non deve toccare il
tuo pesce), sbottò a quel punto lu capetáne. "Ma lu
pàscie me' pare ca ze l'ha frecate!" (Ma il mio pesce se
lo è fregato).
E qui iniziò un altro dialogo,
lievemente più concitato.
"Scie' Jse'!", gli disse
donna Vetaléne, "Però ti piure t'aveva sta 'ttente ehhh!",
aggiungendo: "Santa niende annecchije! Acchítte lu puàscie
e le púse sàprue a la bánghe e te ne vi'! Ne si ca po'
'ndra' 'na hátte e ze le magne?" (Sì Giuseppe! Però tu
pure dovevi fare attenzione. Santo niente! Tu compri il pesce,
lo posi sul tavolo e te ne vai! Non sai che può entrare un
gatto e se lo mangia?), concluse volendo dimostrare un
concorso di colpa in corresponsabilità con Giuseppe.
"Donna Vetale'! Ma secondo te,
je' dandre a la casa ma', canda accatte lu puàscie, m'aja
màtte a fa la uardie ca po' ndrà la hátte' de signure'? E
che so' lu cane da uardie de la hatta to' je'?", (Donna
Vitalina! Ma secondo te, io dentro casa mia, devo mettermi a
fare la guardia perchè può entrare il tuo gatto. E chi sono io
il cane da guardia del tuo gatto?), iniziò un po' ad
inalberarsi Giuseppe.
La discussione prese una piega,
sempre più contrastante.
E così tra un "è state la
hatta to'" e "Je' ngi cràde!" e "l'aje veste
nghe l'ucchia mi" e "ne è pussebbele", donna
Vitalina si spazientì e sfilò (cominciò) a parlare in
italiano:
"Senti Giuseppe! Può darsi pure che sia stato il
mio gatto! Ma adesso io che ci posso fare! E' pur sempre un
gatto!!!".
E di rimando il capitano, anche lui in italiano.
"Quesso poteto diro, no che la
hatto non è tuo".
La casa di Giuseppe Di Iorio,
detto il capitano, com'è oggi.
VIDEO
11
Ottobre 2021