A lu cinéme di Biascille
(Fatterelli)
di Fernando Sparvieri
Ave' chiovéte (Era venuta la pioggia).
Abitavo ancora in Via Savoia ed avevo forse una decina d'anni.
La mattina della domenica mi prendevo la bicicletta, che era
parcheggiata nel corridoio d'ingresso della mia casa, e me ne
andavo in giro per il paese.
Quella mattina invece
ave' chiovète ed ogni tanto
chiuvuculujéve
(piovigginava) ed uscii a piedi.
Arrivato all'altezza della piazzetta di
Za' Cole, tra
IV Vico Savoia e IV Vico Garibaldi, vidi Pasquale Rosica, un
ragazzo di Montenero, apprendista muratore, che abitava lì,
nella ex casa
di Ntunine Artese, il papà del prof.
Giovanni, che discuteva
'mmaccue de porte (sull'uscio
di casa) con suo padre
Micchéle.
"
Auá'! Auá'! Auá'!"(Guarda! Guarda! Guarda!), diceva
Pasquale, a suo padre, mentre gli mostrava il suo portafogli
spalancato, completamente vuoto.
"
Cachece dàndre!" (cacaci dentro), gli rispondeva
serio, senza scomporsi, suo padre, in dialetto montenerese,
con la spalla appoggiata alla spalletta della porta, con lo
sguardo apparentemente indifferente, fisso altrove.
E Pasquale insisteva: "
Auá'! Auá'! Auá'!'"
Ed il padre continuava a rispondergli: "
Cachece dàndre!"
.
Osservai la divertente scenetta, ma era inopportuno fermarmi.
Svoltai l'angolo, passai dinanzi alla casa
de Mendine e
Amelia, la serva di Don Peppino, che stava sempre
incavolata, e mi allontanai lungo 3° vico Garibaldi, sentendo
ancora a distanza padre e figlio in quella tiritera
domenicale, senza una via di uscita, se non quella consigliata
dall'esperto genitore.
Era dura la vita dei giovani in quel periodo. Stavano quasi
sempre
sfasciulìte (senza un soldo in tasca). Molti di
loro andavano
a mannébbele (a fare i manovali ai
muratori), ma non sempre ciò che dava loro
lu mastre
(il mastro) se lo facevano bastare.
I soldi a quei tempi
e che te le dave (scarseggiavano).
L'economia locale era ancora misera. E la domenica bisognava
andare al cinema.
Il cinema, croce e delizia dei ragazzi dell'epoca. Costava un
po'. Gli adulti pagavano 100 lire ed i bambini 50. Erano
quelli i tempi dei films di Ercole, Maciste, Ursus e Sansone,
e dei colossal come "I dieci comandamenti", "Ben Hur",
"Ulisse", "Elena di Troia", ma anche Totò non scherzava, nel
senso che scherzava tanto con la sua straordinaria comicità
che il cinema la domenica si riempiva e scoppiava di risate.
E siccome molti ragazzi, come Pasquale, erano rimasti lisci o
quasi, già al sabato sera, avendo lasciato quei pochi
spiccioli guadagnati in settimana
a lu bar de Sélve o
Vetarílle (ai bar di Silvio o di Vito Ialacci), l'unica
soluzione per tentare di recuperare qualche lira era giocare
a
so' (a soldi).
E elle te le vedive! (E lì te li vedevi!).
Il Municipio sembrava un casinò municipale, una bisca di
ragazzini. Sotto i portici, ma anche nei muri delle case
vicine, giocavano
a sbattamìure (a chi avvicinava di
più la moneta, lanciandola vicino al muro), a
cóccie e
ciápere (testa o croce), e ad altri giochi che
provenivano dall'antica società contadina, ancor più misera,
quando non si giocava a soldi, ma
nghe le bettìune
(con i bottoni).
E lì facevano un casino della madonna, nel vero senso della
parola.
"
Eja la madonna!" bestemmiò un giorno un ragazzino,
dopo aver lanciato male la sua monetina.
"
Ue'!", gli rispose incazzato
Miccheline de
Rémmechéle (Michelino De Francesco): "
Le si' ca la
Madonne è la mamme di Gesù?". E poi aggiunse:
"N'andra vo' ch'arnighe la Madónne, pe' lu córe de
Sandrócche, je' te spácche la fáccie". Ribadendo, per
fargli meglio capire le sue intenzioni: "
Se' capìute? Je'
te spácche la fáccie... pe' lu córe de Sande Vetale
annecchiue", concluse religiosamente.
Tutto questo accadeva prima che aprissero i cancelli del
cinema. All'apertura la piazza si svuotava.
E qui i vincitori ed i perdenti prendevano strade diverse.
Chi aveva vinto se ne andava beato a vedere
lu cìneme
(il film), non prima però di aver fatto un salto a
Uide lu
spaccéste o
Marie Tacchélle (alle rivendite di
sale e tabacchi di Guido Fabrizio o Mario D'Achille), per
comprarsi qualche sigaretta nazionale o esportazioni con il
filtro, vendute sfuse in una bustina, contribuendo, durante le
proiezioni del film, a riempire di cicche il pavimento del
cinema; altri, con i soldi vinti, passavano da
Tumuasse
(Tommaso Ciccotosto) o
Caffettíre (Luigi Gottardo),
che vendevano
lupéne (lupini),
nucélle
(noccioline americane),
sciusciélle (carrube),
sumìnde,
cecie e fafe aschìte (semi di zucca, ceci e fave
abbrustoliti), contribuendo anch'essi, durante le proiezioni
del film, a riempire di
scorcie de lupéne e di scagne de
nucélle ecc. (bucce e gusci) il pavimento del cinema.
Chi restava
scupuléte (senza una lira in tasca),
invece, addio cinema, restava fuori, e
ze le faciave
arcuntà (si faceva raccontare)
lu cinéme
(il film) da qualche amico che se l'era visto e rivisto due
tre volte di seguito, entrando nel primo pomeriggio, appena il
cinema apriva i battenti, per uscirne la sera, all'ora di
cena.
Sì perchè
lu cinéme (la trama del film)
z'arcuntuáve
(si raccontava). Era un piacere raccontarla agli amici che non
erano andati al cinema. Lo facevano grossi e piccini, a volte
per giorni e giorni, sentendosi anch'essi un po' protagonisti.
Anch'io ci andavo al cinema la domenica. Mi piaceva. Non c'era
altro. E poi era anche un modo di sentirmi più grande,
rispetto all'età che avevo. Mio padre mi dava 50 lire e
partivo.
Ce n'erano due di cinematografi a San Salvo:
Bionde e
Biascille.
Bionde era Biondo Tomeo, il padrone
del cinema Odeon, che se l'era ricomprato da Pompeo
Marzocchetti (per conoscere la sua storia
cliccate
qui); l'altro invece era di
Angiuline Biascille
(Angelo Di Biase), che se l'era ricomprato dal prete Don
Cirillo Piovesan, che lo aveva chiamato Cinema San Vitale, in
onore del suo principale datore di lavoro: il protettore del
paese.
Avevo una lieve predilezione per il cinema di
Biascille,
forse perchè lì, quando ce l'aveva ancora Don Cirillo, avevo
visto il primo film della mia vita: "Elena di Troia", con
Rossana Podestà, una bellissima attrice che mi piaceva da
morire e detto sinceramente, me la sarei sposata volentieri.
Peccato che come Gigliola Cinquetti a Sanremo, anch'io a San
Salvo, non avevo ancora l'età per amare ma per andare alla
scuola elementare.
Il cinema di
Biascìlle, al contrario dell'Odeon, che
aveva il suo ingresso in Via San Giuseppe, era ubicato dietro
la casa canonica di Don Cirillo in Piazza Municipio e non era
accessibile direttamente dalla strada pubblica. Per arrivarvi
si varcava un cancello rossiccio tra Piazza Municipio e Via
Roma, che veniva spalancato all'orario d'apertura del cinema e
dopo aver percorso un vialetto privato, brecciato, lungo una
ventina di metri (attuale Via E. Fermi), che quando pioveva si
riempiva
de pandìre (di pozzanghere), si svoltava ad
angolo retto a sinistra, e lì, sulla destra, a pochi passi,
c'era l'ingresso con annessa biglietteria. Da lì, dopo aver
pagato il biglietto, si varcava un tendone rosso e si entrava
in sala.
Piazza Municipio - anni '60. In
fondo si vedono il cancello d'ingresso del cinema San
Vitale, ed i cartelloni pubblicitari. Dopo aver varcato il
cancello si percorreva un vialetto privato di m.20 circa
prima di arrivare alla biglietteria. Il vialetto oggi è
Via E.Fermi.
Era abbastanza grande quel cinema, o forse così sembrava ai
miei occhi di bambino. Realizzato da Don Cirillo, negli anni
'50, su un terreno donato alla Chiesa insieme alla sua quota
di proprietà dal medico Don Camillo Artese, non aveva la
copertura a tetto, ma a terrazzo. Tutto intonacato all'esterno
con cemento grigio chiaro, sembrava di stare dentro uno
scatolone delle scarpe con il coperchio sopra, con tanti
sedili allineati (circa 160) su una pavimentazione piana in
marmettoni chiari. Il pavimento aveva un lieve avvallamento
centrale, sulla sinistra: colpa
de lu fósse de la cággie
(del fosso della calce), che era stato
cavate
(scavato) all'interno del locale durante la sua costruzione e
che poi, finiti i lavori, era stato
arbeláte (riempito
di terra), cedendo in quel punto a seguito dell'assestamento
del terreno.
Ai lati della corsia centrale, collocati quasi sotto lo
schermo, per aumentare i posti a sedere, erano stati aggiunti
6 lunghi pericolosi
banghétte (banchi artigianali
senza schienali), tre per fila, a cui ogni tanto qualcuno nel
buio inciampava facendoli cadere, destinati, quando c'era il
pienone, ai bambini. I ragazzi, tra cui quelli che prima che
aprisse il cinema avevano giocato
a so' (a soldi) in
Piazza Municipio, si sedevano quasi sempre sulla destra, alle
prime file, mentre gli adulti, prendevano posto alla
spicciolata, dal centro sino agli ultimi posti, verso
l'uscita. Di ragazze quasi zero. Ogni tanto ne venivano
alcune, amiche, in età non ancora da marito, sedute tutte
insieme, possibilmente lontano dai maschi, mentre era più
frequente osservare qualche timida
spose (giovane
fidanzata), che il fidanzato aveva portato
a lu cinéme
(al cinema), con il permesso dei futuri suoceri. Era quindi un
ambiente prettamente maschile.
Gli spettatori, nel buio, appena illuminato dal fascio di luce
del proiettore che si stagliava sul telone, si immedesimavano
nella trama del film, guardando con interesse le gesta
de
l'attore e
de l'attrice (degli interpreti
principali),
ma ogni tanto
succedeva qualcosa
in sala che li distoglieva dalla visione, causato o da qualche
inconveniente tecnico o da giovani buontemponi, sempre pronti
a far baldoria, alla minima occasione.
Erano quasi sempre loro,
le mannébbele de le frabbecatìure
(i manovali dei muratori), a far commedia. Era una loro
caratteristica particolare. A loro non interessava nulla di
questioni culturali, politiche, sociali. Si atteggiavano,
fuori e dentro al cinema, a
fa' le grusse (a fare gli
adulti),
nghe la sicaràtte mmàcchue (con la
sigaretta tra le labbra), facendo battute e scherzi terra
terra, andandoci giù a volte anche con mano pesante, ma senza
cattiveria, così tanto per ridere, da autentici simpatici
mascalzoni.
Era come assistere ad un altro cinema nel cinema.
"O-ra-rio! O-ra-rio!", gridavano in coro quando la proiezione
tardava a partire. Altra musica invece quando si spezzava la
pellicola: partivano assordanti
ciuffulenne a la pecherále
(fischi alla pecoraio) per avvisare il cineoperatore che la
sala era rimasta al buio. "Lu-ce! Lu-ce!", gridavano invece
quando l'operatore, dopo aver rimesso in marcia il proiettore,
dimenticava di spegnere le luci in sala.
Pahhh!!! Ogni tanto si udiva, insieme al rumore dei
rocchetti del proiettore, il suono secco di
nu scaffatáune
(una sberla)
a la cuzzàtte (alla nuca) di qualche
ragazzo. Erano sempre loro:
le mmannébbele de le
frabbecatìure.
Il poverino che si era buscato lo schiaffo, che il più delle
volte era reduce da una recente rasatura dei capelli a zero
dal barbiere, si voltava dietro di scatto, inferocito,
guardando a chi era seduto nella fila alle sue spalle, ma
tutti, in silenzio, facevano finta di guardare lo schermo ed
il malcapitato non poteva accusare nessuno. Si risedeva. Non
trascorreva qualche minuto che
pahhh!!! Il Il povero
diavolo si buscava
n'addra frisèlle (un altro
schiaffo)
a la cuzzàtte.
"Je' te spacche la faccie", diceva alzandosi di nuovo
di scatto il povero sventurato, minacciando di solito qualche
innocente alla sua portata fisica, il primo che gli veniva a
tiro. E lì iniziavano le discussioni tra di loro.
"
Ue' l'aveta smàtte sennà mo ve l'accoppe je' du' ràsciune,"
(Ue' dovete smetterla, altrimenti ve li mollo io due
schiaffoni), interveniva qualche adulto seduto nei loro
paraggi, disturbato dal chiasso dei litiganti.
Come già detto, c'era poi chi mangiava i lupini e le
noccioline americane e buttava
le scórcie e scàgne 'ntérre
(le bucce ed i gusci per terra); chi fumava come un turco,
buttando le cicche ancora accese sul pavimento e chi le
lanciava addirittura in aria, ancora ardenti, che ricadevano
come stelle filanti sulle teste o sui vestiti di chi era
seduto alcune file davanti, spesso bruciacchiandoli o
bucandoli. Quando ciò avveniva, chi ne restava colpito, si
alzava di scatto e
scutulénneze scutulénneze
(scuotendosi il vestito), restava in piedi per una ventina
di secondi, guardando con occhio minaccioso la zona dalla
quale presumeva fosse partito il lancio, ma tutti a far finta
di niente, con gli occhi incollati sullo schermo, nell'omertà
più assoluta.
Succedeva spesso, nella penombra, che qualcuno,
all'improvviso, si alzasse per andare via. In quei casi due
erano le cose: o era arrivato in ritardo ed aveva visto il
film
smezzate,
cioè
era entrato al
cinema a proiezione iniziata e stava rivedendo sullo schermo
le stesse scene di quando era arrivato (e quindi si era visto
tutto il film, ma non dall'inizio), oppure doveva andare al
bagno.
Il bagno! Che Iddio ce ne scansi e liberi! Che bagno! C'era,
ma nessuno si augurava di andarci. All'epoca nessuno lo
chiamava bagno, ma
lu césse (il cesso) o tutt'al più il
gabinetto.
Grande
gnè 'na casarélle de le halléne (come una
casetta per le galline), solo un po' più alta, a misura d'uomo
normale, era ubicato fuori dal cinema, sul vialetto,
appoggiato al muro prospiciente della casa canonica di Don
Cirillo. Vi si accedeva da una porticina sgangherata in legno
antico,
nghe lu furràtte (con il ferretto di chiusura
all'interno), e lì dentro, poggiato sulla terra battuta, c'era
solitario, un vasetto, piccolo come quelli dell'asilo,
ahimè... quasi sempre con il buco
atturéte (ostruito)
e non solo dalla carta poco igienica, che era quella del
giornale. Per questo motivo, quando qualcuno aveva bisogno,
cercava
d' armantena' (di trattenere) il più possibile
e se proprio non ce la faceva più, raccomandava all'amico
seduto a fianco di tenergli il posto occupato, e si avviava.
"Io vado un attimo al gabinetto", diceva prima di uscire a chi
stava alla biglietteria, per evitare equivoci di scambio di
persone, al momento di rientrare.
Ed a proposito di biglietteria, ricordo una domenica
pomeriggio, arrivai al cinema con un po' di ritardo. Avevo in
tasca le solite 50 lire, che mio padre mi aveva dato per
pagare il biglietto.
Alla cassa c'era la signora Lidia, la moglie
di Biascille,
che aveva sostituito da qualche anno Elisa, la perpetua di
Don Cirillo.
"
Ssu uajaune ha da paha' cente lére" (Questo bimbo deve
pagare cento lire), diceva ad un giovanotto, che aveva portato
con sé un bambino, forse un nipotino.
"
E pecca'?", gli chiedeva quel giovanotto, "
què' è
nu uajaune!" (E perchè? E' un bambino).
"
No", insisteva la signora Lidia "
Quésse ha da paha'
cente lére".
"
E pecca'?", insisteva il giovanotto. "
Que' te'
decianne!" (E perché? Questo bimbo ha solo dieci anni!)
Iniziai a preoccuparmi. Avevo la stessa età di quel bambino.
"
Quesse ha da paha cente lére", concluse la signora
Lidia, "
pecca' lu cinéme le capéscie" (Questo bambino
deve pagare cento lire, perchè il cinema lo capisce).
Furono istanti interminabili per me. Non ricordo come andò a
finire. Fatto sta che in quegli istanti pregai Iddio che la
signora Lidia mi considerasse
nu mammoccie (un
bambino). Mi volevo rimpicciollire, apparire ancor più bambino
di quanto già fossi, incapace di intendere e di volere, non in
grado di capire.
Arrivò il mio turno.
Posai 50 lire, varcai il tendone rosso, che separava la
biglietteria dal locale cinematografico, ed entrai.
Grazie a Dio la signora Lidia mi aveva considerato ancora un
bambino e non mi importava che lei pensasse che io non capivo
il cinema. Tirai un sospiro di sollievo, ma non finì lì.
Per qualche anno, dopo quel giorno, incominciai a chiedere a
mio padre 100 lire, prima di andare al cinema.
Pagai ancora per qualche annetto 50 lire, ma in tasca ne avevo
altre cinquanta, in modo da non farmi trovare impreparato
quando la signora Lidia un giorno mi avrebbe detto: "
Uajo'!
Ti ha da paha' cente lére, pecca' lu cinéme le capescie".
Video
Enze
Video