Il nuovo palazzo
scolastico
e lu cane de Jseppe
(Fatterelli)
di Fernando Sparvieri
Racconto scritto nel centenario della nascita di mio padre,
il maestro elementare
Evaristo Sparvieri
Classe IV - Ins. Evaristo
Sparvieri - Anno scolastico 1959/60.
Finalmente, dopo due anni che
jave sperzejenne pe 'ssu
muanne a fóre (andavo perdendomi per il mondo), tornai
a casa.
Mio padre, dopo anni di insegnamento tra frazioni di Lentella,
Fresagrandinaria e Palmoli, finalmente rientrò a San Salvo,
dove ancora fuori ruolo, subito dopo la guerra, lui e mamma,
avevano fatto prendere la licenza elementare ad una
cinquantina di giovani sansalvesi, che non avevano potuto
frequentare la scuola.
Era l'anno scolastico 1959/60 e misero pure a me
lu
mmuastarìlle (un piccollo basto), nel senso che iniziai
ad andare a scuola, che con gli anni divenne sempre più
pesante, fino
a deventa' mmaste (a diventare basto).
E lì, a scuola, indovinate chi ritrovai? Mio padre. Non
riuscivo proprio a togliermelo di torno.
Ero figlio unico e da quando ero nato non mi aveva mai
lasciato un attimo solo, fatta eccezione di quando stava a
scuola. Ora la mattina, ahimé, stavamo entrambi dentro lo
stesso palazzo scolastico, quello nell'attuale Piazza San
Vitale, e non potevo manco pensare di marinare la scuola e
dire al maestro il giorno appresso che avevo avuto un po' di
fréme (febbre) o
'na cacarélle (la diarrea).
Lui, a parte che aveva il mio termometro personale da sempre,
lo avrebbe raccontato al mio maestro, facendomi fare, come
avrebbbe detto Fantozzi, una figura di merdaccia.
E non sto scherzando. Era già successo. Mio padre era fatto
così. Non si sapeva tenere tre ceci in bocca. Stavamo una sera
tutti a casa del maestro Ugo Marzocchetti, suo cugino, e
guardavamo la televisione. Ne eravamo minimo una ventina,
dinanzi allo schermo, tutti parenti, e mi venne da fare un po'
d'aria intestinale. La feci, inserendo il silenziatore.
Tornando a casa gli confidai: "Papà, quando andiamo a casa di
zio Ugo a vedere la televisione,
je' ne faccie le patéte,
ma sole le mope" (io non faccio le scoregge, ma solo
aria) . Non glie lo avessi mai detto. Il giorno dopo raccontò
tutto, per filo e per segno a Zio Ugo, che qualcosa aveva già
subodorato, facendomi fare, detto come Dio comanda, la vera
prima figura di merda della mia vita.
Glie lo feci scontare molti anni dopo a Vasto, all'Istituto
Magistrale, quando dinanzi al Preside fece lui la stessa
figura: mollai quattro mesi di filone andandomene d'inverno al
Ristorante Miramare, ritrovo di molti filonisti sansalvesi, di
cui non cito i nomi per rispetto della privacy dei nipoti, ed
a primavera ai "Tre pini" , giù al mare.
Tornando alla scuola elementare, la situazione
divenne ancor più drammatica quando seppi che il mio maestro
era proprio lui: Zio Ugo,
lu majàstre Ughe (il maestro
Ugo Marzocchetti), che come già detto prima era il cugino di
mio padre. Non mi potevo proprio parare dai maestri. Mio padre
era maestro e mia madre pure. Adesso ci mancava anche zio Ugo,
il fiduciario, la massima carica scolastica locale, a
rattristire le mie giornate. Se a questo aggiungiamo che anche
sua moglie
la majastra Cresténe (Cristina Napolitano),
che era cugina di mia madre era una maestra, e che erano
maestre anche Zia Marina Napolitano, altra cugina di mia
madre, e Zia Delia Marzocchetti, altra cugina di mio padre,
entrambe nubili insegnanti, seppure non di ruolo (altra
categoria che quando s'ammala un maestro non fanno esultare di
gioia gli alunni), mi sentivo quotidianamente accerchiato dal
Magisterium, che non significa Magistratura, ma sempre di
domande ed interrogatori si trattava.
Praticamente i miei parenti maestri
m'avevene attúdde
(mi avevano scocciato): ognuno mi voleva insegnare qualcosa.
"Scusate! Ma quando lo faccio il bambino io?", pensavo.
E così, iniziai a giocarmi dentro il palazzo scolastico le ore
più belle della mia fanciullezza.
Come diceva Rousseau, l'uomo nasce libero, ma ovunque si trova
in catene, iniziai a sentirmi una specie di prigioniero
scolastico, con i maestri elementari, miei carcerieri.
Meno male che nel pomeriggio, invece di fare i compiti, ogni
tanto sgaiattolavo. Mi piaceva stare in mezzo alla piazza,
dove abitavano, alla casa dell'Arco della Terra, i miei nonni
materni. Lì, su quelle piastrelle di catrame, che erano di
lusso rispetto a tante altre strade fangose, o tutt' al più
nghe la pretáte (pavimentazione in pietra), mi piaceva
bucare d'inverno i pantaloni alle ginocchia, e d'estate, con i
calzoni corti, la pelle delle rotule, che stavano sempre
svarlesìte (escoriate). Era il prezzo della libertà.
Quanto era bella quella piazza, che all'epoca si chiamava
ancora Piazza Municipio e non ancora San Vitale. Sembrava di
stare in una sala giochi sotto il cielo. Giocavamo
a
pallìccie, a cartìccie, a strìscile, a fa la mandre, la
chiuppacéca, ma pure "Vedo" mi piaceva. Era un gioco da
femmina, ma insieme a qualche bambina giocavamo spesso pure
noi maschietti, specialmente a quei giochi in cerchio con
cantilene, tipo: "Ho perso la picorella dindilla dindella. Ho
perso la picorella dindilla scavalie' ".
Naturalmente era il gioco delle biglie quello che più mi
attraeva. Avevo
lu pallecchione, le marecanélle, le
mandavo a la carabbéscie, sticchiate e lu buche, e mi
piaceva giocare anche
a vraccìle (con 5 piccoli sassi
rotondeggianti). Era bellissimo giocare anche a "
Uno
mandaluno, due monta il bue, tre la figlia del re, quattro
spazzolini comunali di Bologna che puliscono per... terra
ecc. ecc. ecc.", che altro non era che la famosa "salta
cavallina
". Poi c'era anche "quattre e quattr'otte", che
era una specie di salta cavallina,
nghe la mammáre, con
un bambino che si metteva in piedi vicino ad un muro, facendo
la mammáre, cioè come una mamma con i cuccioli, mentre
altri con la schiena a 90° formavano una specie di trenino,
con il primo che poggiava la sua testa alla pancia
de la
mammáre, e altri ancora che saltavano
gne' grèlle
(come grilli), catapultandosi sopra le schiene di
quest'ultimi. Mi mancava solo
la fràzze (la fionda) che
non mi era permesso
gne' Luciane di Mast'Andonie, che
colpiva a 200 metri di distanza
nu passarílle (un
passerotto). I miei genitori me l'avevano proibita perchè
dicevano che potevo rompere la testa a qualcuno.
Erano proprio belli quei giochi terra terra, che più terra
terra di così non si poteva. Spiegarvi come funzionavano tutti
è un po' complicato. Ma qualche giorno ve lo dirò in privato.
Piazza Municipio, ora chiamata
Piazza San Vitale. Bambini che giocano in piazza.
Invece a scuola, sin da primo giorno mi sentii completamente
accerchiato dal corpo insegnante e mica solo da zio Ugo e da
mio padre? Appena arrivai, tutti i maestri,
di ecche e de
fóre (locali e forestieri), appena mi videro arrivare,
con quel grembiulino azzurro, il colletto bianco e la gioffe
(il nastro) al collo ...
hatte' (in modo esagerato)...
tutti a complimentarsi con mio padre: "Ma è tuo figlio? Ma che
bel bambino! Ma che carino!", gli dicevano, anche se secondo
me lo rifregavano.
Furono momenti interminabili quelli prima di entrare in
classe.
Ero combattuto. Da un lato riaffollavano nella mia mente le
prime due grandi ribellioni della mia vita, quei rifiuti a
suon di pianti e calci rifilati a mia madre quando, all'età di
tre anni, aveva tentato di lasciarmi all'asilo di Sanda Nicola
e poi quello successivo, a Lentella, quando tentò, con lo
stesso risultato, di farmi frequentare la primina. Dall'altro
lato, avevo la consapevolezza che questa volta non avrei
potuto dare calci a mia madre, innanzitutto perchè non c'era,
e che ora avevo l'età giusta per frequentare, come tutti gli
altri bambini, la scuola elementare.
E mentre ero assorto nei miei pensieri di evasione scolastica,
ancor prima di essere entrato in aula, inevitabilmente arrivò
il momento clou della giornata: la mia presentazione ufficiale
al mio maestro, a zio Ugo. Sebbene fossi ancora un moccioso,
anche per una specie di par condicio con i futuri miei
compagni, capii che non era il caso di chiamarlo zio Ugo a
scuola: era il mio maestro. Non sapevo proprio come chiamarlo.
Era una situazione che mi metteva in imbarazzo.
"Buongiorno signor maestro", lo salutai entrando in classe,
facendo finta di non conoscerlo, e lui mi fa: Fernando come mi
chiami a casa?". Io gli risposi Zio Ugo, e lui mi fa ancora:
"Chiamami anche a scuola zio Ugo. Io sono sempre zio Ugo, a
casa, al mare, a scuola ed in ogni dove".
Tombola! Mi sentii un raccomandato. Se a questo aggiungiamo
che mio padre si informava ogni dieci minuti con il cugino Ugo
di come andavo a scuola, vi lascio immaginare l'assedio
scolastico quotidiano.
Ero davvero un povero bambino disgraziato. Mio padre mi aveva
insegnato a leggere e scrivere l'anno prima a Lentella,
facendomi leggere i manifesti appicicati ad un muro, e mai
questa mia debolezza nel dargli retta, si rivelò cosa più
sbagliata.
Dicevano che siccome io sapevo già scrivere, ero sprecato per
la prima. Mi segnarono direttamente alla 2ª.
All'epoca i bambini di prima facevano
le segnitìlle (i
segnetti) fino a Natale per
affilare al rigo del
quaderno ed a me ritennero già fossi un professore, sbagliando
perchè i bambini devono andare a scuola con quelli della loro
età, perchè sono sempre più piccoli di quelli più grandi: è
una legge naturale. L'unica fortuna che ebbi, se di fortuna si
può definire, fu che mio zio, il maestro Ugo, siccome non ero
ripetente, ma antecedente, non mi fece mai fare il capoclasse
e questo mi aiutò poi nella vita a non fare mai il ruffiano,
anche se diventa molto difficile dimostrare il contrario.
Tralasciando come passai le vacanze di Natale e Pasqua, che
potrete leggere nel racconto integrale, con altri fatterelli,
cliccando qui,
finalmente arrivò il mese di giugno: promosso alla terza
elementare.
Ero libero.
La mattina il garrire delle rondini in piazza, che volavano a
frotte, ma ognuno per suo conto, mi davano un senso di libertà
riconquistata, mentre il sole, per un istante mi abbagliava
gli occhi, seguendole in volo. Seduto su un gradino in piazza,
ammiravo questo spettacolo della natura, mentre i profumi
della campagna e del mare inebriavano l'aria.
Ed a proposito di mare, mi disse una mattina mio padre: "Oggi
andiamo al mare". Mi prese e mi fece sedere sul telaio della
sua bici, trasformata a Mosquito. Partimmo.
Mi piacque molto quel giretto inaspettato. Passammo dinanzi
alla SIV, che non c'era ancora, e nessuno sapeva che sarebbe
arrivata, e poi arrivammo al passaggio a livello.
"Siamo quasi arrivati", mi disse mio padre.
Cominciai a guardare a destra e manca, ma del mare...
muahhh... nessuna traccia. "Ma dove sarà mai questo cacchio di
mare?", cominciai a pensare, "Non è che avrà sbagliato
strada?" Ci volle un altro quarto d'ora prima di arrivare e
scorgere all'improvviso il mare.
Non si arrivava mai. Mica era il mare di oggi? Era il mare di
ieri. Non c'erano ancora né il lungomare e neppure la statale.
Praticamente dopo 5 Km di Mosquito si arrivava al passaggio al
livello e dopo un paio di centinaia di metri si scendeva su un
viottolo in sabbia battuta, tra dune ed erbaccie selvatiche e
finalmente, dopo aver camminato a piedi, come cammelli nel
Sahara, per circa 1 Km, si scorgeva il piccolo chiosco
di Emilio Del Villano, da poco realizzato e finalmente il
mare.
Arrivammo. E lì chi ritrovai? Tutto il corpo nudo insegnante.
M'avesse vulute je' a nneha'.
C'erano, in costume, Zio Ugo, il mio maestro, il fiduciario,
che aveva una specie di piccolo neo sulla pancia, nulla di
eccezionale, ma io lo notai; sua moglie Zia Cristina, che sin
da ragazza era affetta da un grave problema ad un ginocchio,
che dicevano che se l'era procurato poggiandolo sul pianale di
un carro al momento di scendere, alla quale i medici avevano
consigliato di far prendere il sole per asciugare
l'inguaribile ferita; c'era poi il maestro Aldo Germani,
chietino, che aveva sposato
Mari', la feje de donna
Vetaléne (Maria Fabrizio, figlia di Donna Vitalina De
Cristofaro) e quindi ormai sansalvese d'adozione e dulcis in
fundo Zia Marina e Zia Delia, maestre fuori ruolo, da
maritare. Tra loro c'era anche mia mamma che mi stava lì ad
aspettare. Era andata con il 1100 nero di zio Ugo targato CH
5946, non essendoci ancora la pustale (la corriera).
Mi ritrovai, come in un dettato, punto e accapo.
"Fernando!", mi chiamava mio padre. "Vieni qui!!! L'acqua è
ancora fredda, non fare il bagno" (ci si poteva mettere a
cuocere la pasta asciutta). "Dove sta Fernando", diceva mia
madre appena non mi vedeva un attimo, aggiungendo appena mi
vedeva: "
Canda è belle lu feje me'! Lu ruà de la case"
(Quanto è bello il figlio mio! Il re della casa), mettendomi
in mano una brioches della Ferrero, prodotto appena
commercializzato. "Fernando, hai mangiato. Devi aspettare tre
ore prima di fare il bagno". Era un assillo,
nu talurne
(uno scocciamento), ripetevano sempre le stesse cose.
Il corpo nudo insegnante, tra
nu' squarcinejaminde e
n'andre (tra un vanto ed un altro), giocava a scacchi e
lì si sfidava in interminabili partite. Chi perdeva era
perduto, nel senso che avrebbe fatto la figura dell'asino, e
questo per un maestro elementare era l'onda, pardon l'onta più
grande che potesse ricevere al mare.
E mio padre, per farmi vedere che anche lui non apparteneva
alla categoria degli equidi (gli aveva insegnato a giocare a
scacchi Don Cirillo che era un campione), mi chiamò in un raro
momento in cui i suoi colleghi avevano lasciato la
schiacchiera
spéccie (libera) e mi disse: " Adesso ti
insegno a giocare a scacchi".
"A me piace la dama", gli riposi, cercando di evitare
un'ulteriore accanimento didattico. Non ci fu nulla da fare.
Mi insegno in dieci secondi la mossa del barbiere: scacco
matto al Re in quattro mosse".
Altro che scacco al Re, era sotto scacco io, il re della casa.
Per fortuna che c'era il maestro Aldo Germani, il padre di
Franco e Lina Pina, l'unico che non mi chiamava mai.
Secondo me in mezzo a loro era l'unico tipo da spiaggia. Aveva
trovato
arbelate (sotterrata) una barchetta, un
gozzo, che aveva restituito il mare, ed insieme a Gino
Sparvieri, altro cugino di mio padre, l'unico non maestro
elementare (vendeva le biciclette
e l'arpezzave), gli
aveva dato
'na rpittate (pitturata), e se ne andava a
pescare. Pesava come un accidenti quella barchetta, minimo 3 o
4 quintali. Per buttarla in acqua, tutto il corpo nudo
maschile insegnante doveva
vussare (spingere) e
siccome era pesante chiamavano anche me e Franco,
che
beneme', non aveva neppure voglia
di alijare (di
sbadigliare). Non mi vorrei sbagliare, ma secondo me quella
barchetta, era appartenuta a Simbad il marinaio, primo nome
d'arte di Fred Boris Borzacchini, prima di andarsene a Milano
a cantare. Per un periodo aveva fatto anche il pescatore per
campare, ma un mattino, si alzò e non ritrovò più la sua
barchetta, trasportata dalle correnti chissà dove, in alto
mare.
Mio padre, sebbene fosse grande amico del maestro Germani, non
andava mai con lui in barca a pescare. Solo qualche volta lo
vidi partecipare alla pesca con la sciabica, quella rete che
si trascina in gruppo ad un metro d'acqua e poi si torna verso
riva. Nonostante in più di una circostanza mi avesse detto che
lui era un capitano di lungo corso, avendo frequentato, prima
di diventare maestro, l'Istituto Tecnico Navale a Vasto,
sembrava non interessargli il mare. Forse anche perchè in
Marina, durante la guerra, era stato radio-telegrafista, e
quindi non si abbassava ad andare con una barchetta, lui che
aveva provato la nave. L'unico hobby, di cui non riusciva a
fare a meno al mare, era quello di avere sempre gli occhi
puntati su di me perchè temeva che un attimo di sua
distrazione potesse essermi fatale e poi perchè aveva sempre
quella mania, ovunque si trovasse, di insegnare.
Era esagerato.
Un giorno, ad esempio, per insegnarmi come si prendevano
le
ciocchéle (le telline), arò con le mani mezzo mare;
un'altro giorno, invece, per insegnarmi a prendere i
cannolicchi, con il mare agitato, butto in acqua mezzo litro
d'olio d'oliva, fino a farlo calmare; un altro giorno, ad un
ginocchio d'acqua, mi fece vedere come si faceva il pesce
morto facendomi, nonostante tutto, un po' preoccupare. Mi
aveva detto che bastava allungarsi sull'acqua, come nel letto,
e reclinare all'indietro il capo e tenere le orecchie in acqua
per galleggiare. Per farmelo vedere di persona si allungò e mi
guardava con gli occhi sbarrati. Io lo chiamavo e lui
naturalmente non ci sentiva e gridai aiuto, cosa dovevo fare?
Si incazzò di brutto. Arrivò di corsa il maestro Germani che
per poco non gli fece la respirazione bocca bocca.
Si alzò di scatto e gli disse: "Senti Aldo. Forse tu non lo
sai. Ma io prima di fare il maestro, ho frequentato a Vasto
l'Istituto Nautico Statale ed ho il diploma di capitano di
lungo corso e per dimostrarglielo si mise a spiegargli come si
traccia sulle carte nautiche la rotta stimata, la navigazione
costiera, la declinazione magnetica della bussola, le
previsioni del tempo e come si facevano i nodi marinari. Poi
passò all'alfabeto morse: tic tiiiic tic tititic, dicendo
questa e la A , questa la B e via morseggiando. Gli avrei
morseggiato un orecchio.
Roba dell'altro mondo. Ma proprio io, in questo campo di pazzi
nudisti maestri, dovevo capitare?
Al mare. Foto scattata qualche
anno dopo le storielle nel racconto. A sin. Vitale
Checchia, al centro indovinatelo voi chi è, ed a destra
Franco Germani, il figlio del maestro Aldo.
Purtroppo l'estate finì ed il corpo insegnante si rivèstì. Era
giunto anche per le rondini il tempo di migrare. E riaprirono
le scuole.
Non facemmo quasi in tempo ad rientrare al palazzo scolastico
di Piazza San Vitale che subito ci fecero sloggiare. Via,
tutti in Via de Vito, nella nuova Scuola Elementare (1961).
Che bello che era quel palazzo. Era una specie di grattacielo
di New York alto tre piani, senza ascensore, con ampi atri ed
in fondo 5 o sei aule per ogni piano. Nonostante fosse
bellissimo, sopratutto per noi maschietti, era pur sempre una
specie di casa circondariale e non vedevamo l'ora che suonasse
la campanella per tornarcene a casa.
All'uscita, dal portone principale, tutti i bambini a correre
come uccellini fuori
da la cajóle (dalla gabbia),
facendo un cinquettio infernale, finalmente liberi di librarsi
il volo e liberarsi da quella immane dittatura scolare.
Rientrando nel nuovo palazzo scolastico, al maestro
Marzocchetti toccò un'aula all'ultimo piano. Alla sua
sinistra, guardando dalle scale, vi era quella di mio padre,
che confinava a sua volta con quella del maestro Germani.
Praticamente, mio padre ed il maestro Germani, stavano porta a
porta e ognuno sentiva urlare l'altro da dentro la propria
aula, così come le bacchettate il cui eco risuonava
nell'atrio, sino a disperdersi nell'aere.
Il maestro Aldo Germani mentre
insegna a Nicolino Martelli, come girava il mondo
all'epoca.Il mondo, successivamente girerà in tutt'altro
modo. A la capechìule..
Si volevano un gran bene mio padre ed il maestro Germani. Si
stimavano a vicenda. Erano grandissimi amici.
Al mattino, prima di entrare in aula, si facevano delle lunghe
chiacchierate nell'atrio, prima che suonasse la campanella. La
loro amicizia si era consolidata per lavoro, come avviene per
le guardie carcerarie.
In pratica, con il maestro Ugo, erano tra i pochissimi maestri
maschi residenti in paese, e questo aveva favorito il loro
rapporto di amicizia da lunga data.
Il corpo insegnante sansalvese era abbastanza nutrito.
Iniziando dal corpo anziano femminile, c'erano la
Muscie (ins.
Vincenza Musci), classe 1905 da Bisceglie (BA), moglie di
Do'
Vétale Célle (Don Vitale Cilli), impiegato comunale,
Donna
Mari' (ins. Maria Mattia), da San Marco la Catola
(FG),anch'ella del 1905, moglie del geometra Rinaldo Artese,
appartenente
a chelle de Don Pitre (alla famiglia di
Don Pietro Artese) e poi c'era la signorina
Sciole
(Carmela Scioli), da Guardiagrele, più o meo loro coetanea,
che non era sposata, che abitava in affitto nella casa dei
Cilli (Pasta all'uovo) in P.zza San Vitale.
Gli altri, ad eccezione de
lu majastre Feleppe (ins
Filippo Mariotti), da Torino di Sangro, che aveva sposato
Maria Labrozzi, e di Enrico Maiarota, calabrese, che aveva
sposato Evelina Cirese, sorella di
Do' Rolande la poste,
venivano tutti da fuori. C'era il maestro Dragani, di Ortona
se ricordo bene, insieme alla Dragani, sua moglie, anch'essa
maestra elementare, che venivano ogni giorno con una '600 da
Vasto, dove avevano preferito abitare; c'erano poi il maestro
Pirozzi, chietino, un piccolino con un paio di baffetti e
capelli brizzolati, che sembrava più un sarto che un maestro
elementare, ed il maestro Giulio, pescarese, quest'ultimi
entrambi in affitto per non fare i pendolari. In attesa che
arrivasse il maestro Alfonso Mezzanotte, il quale arrivò con
la corriera qualche alba dopo, per prendere in sposa zia Delia
Marzocchetti, che lasciò nubile perenne zia Marina, faceva
invece il pendolare da Vasto, ma un anno si ed uno no, il
maestro Mario Strever, una specie di attore da fotoromanzo,
che a quanto dicevano, pare sapesse anche insegnare.
La carenza dei pochi maestri residenti in paese, determinò che
fosse un maestro locale, a doversi accollare altri compiti
connessi al buon funzionamento della Scuola Elementare.
Con il maestro Marzocchetti, già fiduciario, ed il maestro
Germani, che amava il mare e gli piaceva, sin da primavera
andare a pescare, l'unico salame elementare disponibile, chi
poteva essere? Naturalmente mio padre.
Divenne in quel periodo una potenza scolastica mondiale. Stava
sempre a scuola: la mattina faceva il maestro elementare, a
mezzogiorno il maestro alimentare (doveva occuparsi della
refezione scolastica), alla sera il maestro serale. In
pratica, essendo l'insegnante incaricato del Patronato
scolastico, che dava anche i quaderni, il lapis e
l'appezziutelappeze (il tempera matite) agli alunni meno
abbienti del paese, stava quasi sempre a scuola ed aveva
sempre un gran bel da fare: mo che arrivavano i viveri; mo che
arrivava il materiale scolastico; mo che finiva la bombola del
gas alla refezione.
Alla sera, poi, tanto per cambiare aria, se ne andava al
vecchio palazzo scolastico, quello a fianco alla chiesa, in
piazza San Vitale, dove andava ad aprire il Centro di Lettura,
una biblioteca scolastica statale, frequentatissima dai
giovani che andavano alle scuole superiori a Vasto, che negli
anni '80 con l'apertura del Centro Culturale Aldo Moro,
diventerà comunale.
Poco ci mancava che facesse pure il bidello.
Per fortuna sua e di tutti suoi colleghi, c'erano
Zi'
Juseppe lu budelle (Giuseppe Ciavatta, il bidello) ed il
suo cane, a pulire la scuola. Il suo cane, infatti, oltre a
stanargli le lepri e le volpi durante la caccia, lo aiutava
anche a pulire il pavimento, straiandosi per terra, dove gli
capitava.
Era un bel cane, quello di
Zi' Jséppe, un segugio a
pelo corto italiano. Lo seguiva ovunque, ma quando
Zi
Jseppe si sedeva alla sua cattedra da bidello al salone
al piano terra e non aveva nulla da fare, gli si sdraiava a
fianco e dormiva come un cane, aprendo un occhio, quello
sinistro, ma solo quando qualcuno gli passava proprio a
fianco, così tanto per indagare.
Tutti conoscevano il cane di
Jséppe, bambini e
maestri, ma nessuno conosceva la sua vera storia. Per tutti
era
lu cane de Jseppe, ma prima aveva avuto un
illustre padrone.
Era stato un cane sfortunato, quel povero cane. Lo aveva
colpito una grande disgrazia, che aveva avuto un triste eco in
tutto il paese. Si chiamava Lampo ed era il cane da caccia del
dottor Gustavo Cirese. Purtroppo quando Don Gustavo, medico,
forse la più influente personalità del paese, perse la vita in
quel tragico incidente stradale, nel '59, in un sorpasso con
la sua Giuletta dell'Alfa Romeo ad un camion nella piana di
San Pio delle Camere, era rimasto senza il suo adorato padrone
e
Zi' Jséppe, che era un parente del medico, lo aveva
adottato. Per lenire la nostalgia del suo primo padrone,
Zi'
Jséppe lo riportava ogni sera nella cuccia che Don
Gustavo gli aveva riservato nel suo palazzo nuovo in C.so
Umberto I, dove dormiva su un giaciglio in paglia, in una
stanzetta al piano terra di qualche metro metro quadro, con
ingresso in Piazza San Vitale. Ogni mattina
Zi' Jséppe,
prima di andare a scuola, andava a prenderlo e se lo portava
con sé, nel nuovo palazzo scolastico in Via de Vito.
Lasciando questa immane disgrazia, che colpì inaspettamente
l'intero paese, e tornando a scuola, la vita scolastica
proseguiva incessante, con mio padre, impegnatissivo, tra
insegnamento, Patronato Scolastico e Centro di lettura serale.
Ed ecco un bel mattino arrivare a scuola euforico il maestro
Germani.
"Evari'! Evari'!", disse appena vide mio padre, "Leggi questa
lettera".
Mio padre, prese la busta tra le mani, tirò fuori la lettera e
serio serio, la lesse senza parlare. I suoi occhi leggevano ed
a ogni rigo rigiravano ed andavano velocemente daccapo, come
un carrello di una macchina da scrivere. C'erano scritte, più
o meno, queste parole: "Ill.mo insegnante Aldo Germani, in
qualità di Provveditore agli Studi della Provincia di Chieti
mi onoro di comunicarVi (allora del lei non si dava), che la
S.V. è stata insignita di un'alta onorificenza scolastica da
parte del Ministero della Pubblica Istruzione, per il grande
lavoro sinora svolto al servizio della Scuola, che pone la
S.V. tra gli insegnanti più preparati e qualificati
dell'intera provincia di Chieti e della Patria. W l'Italia.
Firmato il provveditore agli studi".
Mio padre, dopo averla letta, sicuramente ne fu felice per il
collega, ma qualcosa secondo me, proprio giù non gli andava.
"Ma come!", secondo me avrà pensato," Io mi faccio il culo da
mattina a sera e mo arriva un riconoscimento del Provveditore
ed elogia il maestro
Germanie (così lo chiamavano i
sansalvesi) ed a me che sono dell'Italia (così chiamava mia
nonna Maria San Salvo:
Vulameze bbene mo' che stame
all'Italie), il Provveditore non mi caca proprio".
Il maestro Germani, si rimise la lettera in tasca e mentre
salivano insieme le scale, che conducevano alle loro aule
confinanti, al 3° piano, gli disse serio, parlando com'era sua
abitudine con mio padre, mezzo chietino e mezzo
italiano: "
Evarì'! Quesse è 'na lettera importante. J'aja
arspónne a lu Provveditore. Faceme 'na cose. Vedemeze doppe
mezzejiurne. Quattro occhi guardano meglio di due. Stenghe
troppe tese ed emozionato. Sole tu me pu' da' 'na mane".
Salirono le scale ed ognuno entrò nella sua aula.
Alle 12:30,
Zi' Jséppe, e il suo cane, suonarono la
campanella e tornammo a casa.
Stavamo mangiando ed ecco all'improvviso suonare il
campanello.
"Posta! Posta!". Era il postino.
Mio padre si alzò e dopo un po' tornò con una lettera in mano.
C'era scritto sulla busta Provveditorato agli Studi di Chieti.
Mio padre l'aprì, ma smise subito di leggerla. Era uguale a
quella che era arrivata al maestro Germani.
Preso dall'euforia, non finì manco di mangiare.
Si rimise la giacca ed uscì.
Mi disse: "Vieni con me".
Per strada volava, non riuscivo a tenergli il passo.
Arrivammo in un baleno a casa del maestro Ugo. Suonò il
campanello e dopo pochi interminabili istanti la porta si
aprì.
"Ugo, Ugo", disse appena vide il maestro Marzocchetti, il
fiduciario, la prima personalità scolastica del paese. "Mi è
arrivata una lettera d'encomio dal Provveditorato agli Studi
di Chieti. Leggi! Leggi!"
"Anche a te è arrivata?", gli disse il maestro Ugo
Marzocchetti, abbozzando un sorriso.
"Si!", gli rispose euforico mio padre. Me l'ha portata proprio
ora il postino", aggiungendo: "Una simile è arrivata anche
ieri ad Aldo Germani".
"Ah! Pure ad Aldo è arrivata", gli rispose senza scomporsi il
maestro Ugo Marzocchetti, il fiduciario del direttore.
"Si! Si!", gli rispose mio padre.
Il maestro Marzocchetti, sorridendo, tirò fuoi dalla tasca
della sua giacca una lettera e glie la mostrò: era identica,
uguale uguale, a quella che era arrivata al maestro Germani ed
a mio padre.
"
Me sa ca 'ssa làttere è 'rruvuete pure a lu cane de Jséppe",
gli disse abbozzando un sorriso, com'era solito fare.
15 Ottobre 2021
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Alcuni alunni del maestro
Evaristo
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