SECONDA PARTE
Ero arrivata a Torino per una vacanza e mentre mia sorella
andava a lavorare io restavo con Michelina che si dava da
fare a prepararci pranzetti speciali. A me piaceva molto
mangiare pane e burro (venivo da un paese dove il burro
non esisteva). Poi quel burro, che veniva conservato nella
ghiacciaia, era particolarmente gustoso. Da Michelina,
così come anche nelle altre case di allora, non esisteva
il frigo ma avevano la ghiacciaia dove riponevano il
ghiaccio che compravano da un venditore di passaggio e per
un po’ gli alimenti si conservavano.
Alcune mattine mi recavo dai miei zii in via Principessa
Clotilde e spesso mio zio mi portava con lui in ufficio.
Era impiegato alla Prefettura di Torino in piazza
Castello, vicino al teatro Regio, al palazzo Reale e a
Palazzo Madama. Curiosa come sempre mi impadronii di una
macchina da scrivere; non l’avevo mai adoperata prima, ma
impiegai poco ad impratichirmene, tanto che i colleghi di
mio zio mi passavano delle pratiche. Per me divenne un
piacere scrivere con questo aggeggio.
Ci presi gusto e così tutte le mattine me ne andavo con
mio zio in Prefettura. Mi piaceva perchè mi facevo dare
dei fogli e scrivevo i miei racconti non più con la biro,
ma con la macchina da scrivere. Alle ore undici, poi,
assaporavo il piacere di uscire. Con lo zio andavo a
prendere il caffè da Florio, il bar frequentato dagli
impiegati, che era a pochi passi, in via Po. Bar elegante,
molto antico, tuttora esistente.
Dopo questo rito si tornava in ufficio.
Una mattina accadde che un collega dello zio mi chiese se
era nelle mie intenzioni di fermarmi a lavorare a Torino.
Un suo amico cercava una impiegata e secondo lui potevo
presentarmi perché il lavoro da svolgere poteva essermi
congeniale.
Accompagnata da mio zio mi recai a questo colloquio che
avvenne in casa di questo amico, in via Biella, che
incrociava con via Brindisi, dove abitavo.
Ci accolse una bellissima signora, molto elegante e
gentile che ci fece una ottima impressione, in modo
speciale a mio zio che apprezzava molto le bellezze
femminili.
Lei ci spiegò che era un incarico per registrare fatture e
svolgere la corrispondenza.
Al mattino dopo mi recai in questo magazzino, in via
Piave, dove trovai a ricevermi una signora molto avvenente
che mi diede subito qualcosa da fare: dovevo scrivere
delle lettere ad alcuni fornitori e lei aveva preparato
delle minute dove si esprimeva in maniera molto colorita,
con la grammatica che aveva smesso di avere la sua
funzione.
Tutto l’ambiente attorno mi confondeva. Erano presenti un
ragazzo imbronciato e una ragazza magra ma carina, molto
sorridente. Il fatto era che mentre io cercavo di
decifrare quelle lettere per scriverle a macchina, loro
parlavano, o meglio gridavano, a voce alta, in stretto
dialetto veneto, lingua per me incomprensibile.
A Dio piacendo, cercando di tradurre quelle minute, zeppe
di frasi assurde, riuscii a scrivere quelle lettere
secondo il volere della imbellettata signora, mitigandone
le frasi più dure. Glie le lessi ed ottenni la sua
approvazione. Le infilai nelle buste e dopo aver scritto
gli indirizzi dei destinatari, le consegnai a quel ragazzo
imbronciato, che si chiamava Pietro, che era suo figlio,
che andò a spedirle nel vicino ufficio postale. Anche la
ragazza sorridente era sua figlia. Poco dopo arrivò il
marito, che tutti chiamavano il cavaliere, una persona
molto curata che parlava un ottimo italiano. Arrivò con
una macchina di un certo livello. Io non conoscevo le auto
e non sapevo distinguere le marche, ma intuii che era
un'automobile di pregio.
Capii che il tenore dei loro discorsi a voce alta erano
litigi, ma non erano fatti miei. Nell’insieme, in quella
confusione non mi trovai smarrita e non mi spaventai,
anche perché la cosa mi faceva comodo, così non si
sarebbero avveduti della mia poca preparazione.
Tornai il mattino dopo e poi ancora.
Alla richiesta di mio zio se mi trovassi bene lo
riassicurai e continuai ad andare.
Tra una lite ed un’altra cominciai a capire anche il
veneto e a rendermi conto che la signora stava allestendo
un negozio in una zona importante di Torino e che presto
sarebbe andata via da quel magazzino all’ingrosso, dove
sarebbe subentrato il figlio maggiore, che era il marito
della signora bella ed elegante che avevo conosciuta con
mio zio in via Biella.
A tutta quella confusione subentrarono il figlio maggiore
e sua moglie. Tutto diventò diverso. Io e la signora, che
si chiamava Ade (Adelina) andavamo molto d’accordo. Suo
marito, al mattino, andava a vendere gli articoli di
ceramica ai fioristi e altri negozi e tornava nel
pomeriggio portando gli ordini ai quali io preparavo le
fatture, mentre lui, con l’aiuto di un ragazzo, preparava
gli oggetti da consegnare ai clienti il giorno dopo.
Io e Ade, vista la nostra giovane età (aveva quattro anni
più di me), avevamo molto appetito e diventammo ottime
clienti di una panetteria a fianco, che oltre alla pizza
faceva grossi panini ripieni di mortadella, che noi
mangiavamo con gusto e risate. Ricordo che ridevamo molto
al passaggio di un “barbone” che passava sulla strada
tirando un carrettino dove aveva il suo guardaroba e tutto
il suo avere (credo disdegnasse un alloggio) e guardandolo
passare dicevamo: chissà se anche noi faremo la stessa
fine.
Le discussioni però al magazzino non erano
terminate. Si ripetevano ogni qualvolta la signora
padrona precedente, la suocera della Adelina, veniva a
prendere oggetti per il suo nuovo negozio e non si capiva
se andavano fatturati. Certamente non li pagava e per lei
non aveva nessuna importanza se non venivano detratti
dalla merce in deposito magazzino. Non si capiva niente!
Il tempo trascorreva e in qualche modo si pagavano
le tratte che arrivavano con gli incassi della giornata.
Raccontare questo andazzo sarebbe lungo e complicato, ma
io cominciai a preoccuparmi per i pagamenti di fine mese,
tanto da patirne come se fossero stati impegni miei.
Il cavaliere si dava da fare per escogitare nuove entrate
da devolvere alla moglie che si adirava con lui
rivolgendogli invettive quando non era soddisfatta.
Tutte questa notizie ci giungevano tramite telefono, linea
molto attiva in quel magazzino.
A queste sfuriate seguivano mattinate di calma e
chiacchiere liete con Adelina, che aveva un bambino di due
anni che era guardato, a casa, da una baby-sitter.
Il Cavaliere si trovò a comprare una fabbrica di ceramiche
ad Albisola mare, patria di famose ceramiche.
Rilevò un patrimonio interessantissimo e naturalmente
tutti i pezzi più importanti finirono nel negozio di Via
Milano, che rendeva molto, gestito dalla sola signora Nana
(chiamata così dal marito per un diminutivo di Giovanna).
Una frase che mi è rimasta in mente era quella che il
cavaliere rivolgeva a sua moglie quando voleva calmarla:
“Nana! Sta brava!”
Non credo che queste persone si fossero rese conto di cosa
avevano trovato ad Albisola. Il precedente proprietario
ospitava artisti molto in voga in quel periodo, che
andavano in quella fabbrica per sperimentare le loro opere
d’arte, lasciando lì molti pezzi prova. Tra questi vi era
anche il famoso Lucio Fontana, per intenderci, quello
famosissimo delle tele con i tagli.
Il Cavaliere con i suoi figli adoperavano questa fortuna
per farne regali a persone importanti o che prestavano
loro del soldi. Ho visto passare piatti di Fontana ed
altri regalati con una facilità estrema. Oggi valgono una
fortuna, ma anche allora erano già apprezzatissimi.
Questa famosa fabbrica di ceramiche, il Cavaliere decise
di trasferirla a Torino ed allo scopo affittò un grande
magazzino a Settimo Torinese (diciamo periferia di
Torino).
In men che non si dica, tutte le attrezzature, vasche,
torni e soprattutto forni, vennero trasportati e istallati
a Torino.
Fu così che mi ritrovai ad essere l’impiegata unica di
questo enorme complesso. Quanta meraviglia nel vedere quei
forni e assistere alle creazioni di oggetti con quel
materiale che a me sembrava fango e che per magia si
trasformava in splendidi oggetti.
Il cavaliere e sua moglie si recarono nel Veneto e
tornarono con un gruppo di provetti ceramisti, ai quali
assicurarono uno stipendio adeguato e alloggio.
Questi operai comprendevano un esperto modellatore,
esperti di miscele di materiali per realizzare statue e
vasi artistici, tanto che la ditta fu intitolata
"Ceramiche Artistiche".
In quel lungo magazzino, dove io iniziai la mia attività
lavorativa, vennero installati tre forni. All’ingresso vi
era una stanza occupata da una scrivania per me e di
fronte un’altra dove spesso si fermava il cavaliere.
La fabbrica iniziava con uno spazio dedicato all’artista,
che inventava le opere, poi di seguito vi trovavano posto
due tornitori che facendo girare il tornio realizzavano
vasi, portaombrelli e altri oggetti. Erano capolavori
creati da sapienti mani che modellavano l'argilla. Le mani
ed i piedi azionavano il tornio, da dove spuntavano, come
in un miracolo, oggetti stupendi che venivano cotti al
forno. Al mattino, da quelle bocche di fuoco spente,
uscivano oggetti divenuti bianchi.
Il lavoro non terminava qui. Una gruppo di ragazzine
dipingeva questi oggetti, che venivano poi nuovamente
cotti nei forni, affinchè le pitture rimanessero impresse
in quelle ceramiche.
Per alcuni oggetti era necessario un ulteriore
procedimento: dopo averli impreziositi con rifiniture in
oro zecchino venivano nuovamente rimessi nel forno per la
definitiva cottura .
Gli oggetti migliori venivano fotografati ed inseriti in
un catalogo numerato, un campionario di almeno cento
articoli, che veniva presentato, per la vendita, a negozi
di casalinghi e fiorai.
Continuerò a raccontare premettendo numerose evoluzioni e
accadimenti in questa fabbrica, dove ho imparato a
districarmi in tutte le incombenze amministrative.