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Ogni mondo è paese, ma il mio paese è il mio mondo.
Fernando Sparvieri







Maria Mastrocola

(Vita torinese)


I racconti della signora Maria











VITA TORINESE (1954)

di Maria Mastrocola in Dulbecco

SECONDA PARTE

Ero arrivata a Torino per una vacanza e mentre mia sorella andava a lavorare io restavo con Michelina che si dava da fare a prepararci pranzetti speciali. A me piaceva molto mangiare pane e burro (venivo da un paese dove il burro non esisteva). Poi quel burro, che veniva conservato nella ghiacciaia, era particolarmente gustoso. Da Michelina, così come anche nelle altre case di allora, non esisteva il frigo ma avevano la ghiacciaia dove riponevano il ghiaccio che compravano da un venditore di passaggio e per un po’ gli alimenti si conservavano.

Alcune mattine mi recavo dai miei zii in via Principessa Clotilde e spesso mio zio mi portava con lui in ufficio. Era impiegato alla Prefettura di Torino in piazza Castello, vicino al teatro Regio, al palazzo Reale e a Palazzo Madama. Curiosa come sempre mi impadronii di una macchina da scrivere; non l’avevo mai adoperata prima, ma impiegai poco ad impratichirmene, tanto che i colleghi di mio zio mi passavano delle pratiche. Per me divenne un piacere scrivere con questo aggeggio.

Ci presi gusto e così tutte le mattine me ne andavo con mio zio in Prefettura. Mi piaceva perchè mi facevo dare dei fogli e scrivevo i miei racconti non più con la biro, ma con la macchina da scrivere. Alle ore undici, poi, assaporavo il piacere di uscire. Con lo zio andavo a prendere il caffè da Florio, il bar frequentato dagli impiegati, che era a pochi passi, in via Po. Bar elegante, molto antico, tuttora esistente.

Dopo questo rito si tornava in ufficio.

Una mattina accadde che un collega dello zio mi chiese se era nelle mie intenzioni di fermarmi a lavorare a Torino. Un suo amico cercava una impiegata e secondo lui potevo presentarmi perché il lavoro da svolgere poteva essermi congeniale.

Accompagnata da mio zio mi recai a questo colloquio che avvenne in casa di questo amico, in via Biella, che incrociava con via Brindisi, dove abitavo.

Ci accolse una bellissima signora, molto elegante e gentile che ci fece una ottima impressione, in modo speciale a mio zio che apprezzava molto le bellezze femminili.

Lei ci spiegò che era un incarico per registrare fatture e svolgere la corrispondenza.

Al mattino dopo mi recai in questo magazzino, in via Piave, dove trovai a ricevermi una signora molto avvenente che mi diede subito qualcosa da fare: dovevo scrivere delle lettere ad alcuni fornitori e lei aveva preparato delle minute dove si esprimeva in maniera molto colorita, con la grammatica che aveva smesso di avere la sua funzione.

Tutto l’ambiente attorno mi confondeva. Erano presenti un ragazzo imbronciato e una ragazza magra ma carina, molto sorridente. Il fatto era che mentre io cercavo di decifrare quelle lettere per scriverle a macchina, loro parlavano, o meglio gridavano, a voce alta, in stretto dialetto veneto, lingua per me incomprensibile.

A Dio piacendo, cercando di tradurre quelle minute, zeppe di frasi assurde, riuscii a scrivere quelle lettere secondo il volere della imbellettata signora, mitigandone le frasi più dure. Glie le lessi ed ottenni la sua approvazione. Le infilai nelle buste e dopo aver scritto gli indirizzi dei destinatari, le consegnai a quel ragazzo imbronciato, che si chiamava Pietro, che era suo figlio, che andò a spedirle nel vicino ufficio postale. Anche la ragazza sorridente era sua figlia. Poco dopo arrivò il marito, che tutti chiamavano il cavaliere, una persona molto curata che parlava un ottimo italiano. Arrivò con una macchina di un certo livello. Io non conoscevo le auto e non sapevo distinguere le marche, ma intuii che era un'automobile di pregio.

Capii che il tenore dei loro discorsi a voce alta erano litigi, ma non erano fatti miei. Nell’insieme, in quella confusione non mi trovai smarrita e non mi spaventai, anche perché la cosa mi faceva comodo, così non si sarebbero avveduti della mia poca preparazione.

Tornai il mattino dopo e poi ancora.

Alla richiesta di mio zio se mi trovassi bene lo riassicurai e continuai ad andare.

Tra una lite ed un’altra cominciai a capire anche il veneto e a rendermi conto che la signora stava allestendo un negozio in una zona importante di Torino e che presto sarebbe andata via da quel magazzino all’ingrosso, dove sarebbe subentrato il figlio maggiore, che era il marito della signora bella ed elegante che avevo conosciuta con mio zio in via Biella.

A tutta quella confusione subentrarono il figlio maggiore e sua moglie. Tutto diventò diverso. Io e la signora, che si chiamava Ade (Adelina) andavamo molto d’accordo. Suo marito, al mattino, andava a vendere gli articoli di ceramica ai fioristi e altri negozi e tornava nel pomeriggio portando gli ordini ai quali io preparavo le fatture, mentre lui, con l’aiuto di un ragazzo, preparava gli oggetti da consegnare ai clienti il giorno dopo.

Io e Ade, vista la nostra giovane età (aveva quattro anni più di me), avevamo molto appetito e diventammo ottime clienti di una panetteria a fianco, che oltre alla pizza faceva grossi panini ripieni di mortadella, che noi mangiavamo con gusto e risate. Ricordo che ridevamo molto al passaggio di un “barbone” che passava sulla strada tirando un carrettino dove aveva il suo guardaroba e tutto il suo avere (credo disdegnasse un alloggio) e guardandolo passare dicevamo: chissà se anche noi faremo la stessa fine.

Le discussioni però al magazzino non erano terminate.  Si ripetevano ogni qualvolta la signora padrona precedente, la suocera della Adelina, veniva a prendere oggetti per il suo nuovo negozio e non si capiva se andavano fatturati. Certamente non li pagava e per lei non aveva nessuna importanza se non venivano detratti dalla merce in deposito magazzino. Non si capiva niente! Il  tempo trascorreva e in qualche modo si pagavano le tratte che arrivavano con gli incassi della giornata.

Raccontare questo andazzo sarebbe lungo e complicato, ma io cominciai a preoccuparmi per i pagamenti di fine mese, tanto da patirne come se fossero stati impegni miei.

Il cavaliere si dava da fare per escogitare nuove entrate da devolvere alla moglie che si adirava con lui rivolgendogli invettive quando non era soddisfatta.

Tutte questa notizie ci giungevano tramite telefono, linea molto attiva in quel magazzino.

A queste sfuriate seguivano mattinate di calma e chiacchiere liete con Adelina, che aveva un bambino di due anni che era guardato, a casa, da una baby-sitter.

Il Cavaliere si trovò a comprare una fabbrica di ceramiche ad Albisola mare, patria di famose ceramiche.

Rilevò un patrimonio interessantissimo e naturalmente tutti i pezzi più importanti finirono nel negozio di Via Milano, che rendeva molto, gestito dalla sola signora Nana (chiamata così dal marito per un diminutivo di Giovanna). Una frase che mi è rimasta in mente era quella che il cavaliere rivolgeva a sua moglie quando voleva calmarla: “Nana! Sta brava!”

Non credo che queste persone si fossero rese conto di cosa avevano trovato ad Albisola. Il precedente proprietario ospitava artisti molto in voga in quel periodo, che andavano in quella fabbrica per sperimentare le loro opere d’arte, lasciando lì molti pezzi prova. Tra questi vi era anche il famoso Lucio Fontana, per intenderci, quello famosissimo delle tele con i tagli.

Il Cavaliere con i suoi figli adoperavano questa fortuna per farne regali a persone importanti o che prestavano loro del soldi. Ho visto passare piatti di Fontana ed altri regalati con una facilità estrema. Oggi valgono una fortuna, ma anche allora erano già apprezzatissimi.

Questa famosa fabbrica di ceramiche, il Cavaliere decise di trasferirla a Torino ed allo scopo affittò un grande magazzino a Settimo Torinese (diciamo periferia di Torino).

In men che non si dica, tutte le attrezzature, vasche, torni e soprattutto forni, vennero trasportati e istallati a Torino.

Fu così che mi ritrovai ad essere l’impiegata unica di questo enorme complesso. Quanta meraviglia nel vedere quei forni e assistere alle creazioni di oggetti con quel materiale che a me sembrava fango e che per magia si trasformava in splendidi oggetti.

Il cavaliere e sua moglie si recarono nel Veneto e tornarono con un gruppo di provetti ceramisti, ai quali assicurarono uno stipendio adeguato e alloggio.

Questi operai comprendevano un esperto modellatore, esperti di miscele di materiali per realizzare statue e vasi artistici, tanto che la ditta fu intitolata "Ceramiche Artistiche".

In quel lungo magazzino, dove io iniziai la mia attività lavorativa, vennero installati tre forni. All’ingresso vi era una stanza occupata da una scrivania per me e di fronte un’altra dove spesso si fermava il cavaliere.

La fabbrica iniziava con uno spazio dedicato all’artista, che inventava le opere, poi di seguito vi trovavano posto due tornitori che facendo girare il tornio realizzavano vasi, portaombrelli e altri oggetti. Erano capolavori creati da sapienti mani che modellavano l'argilla. Le mani ed i piedi azionavano il tornio, da dove spuntavano, come in un miracolo, oggetti stupendi che venivano cotti al forno. Al mattino, da quelle bocche di fuoco spente, uscivano oggetti divenuti bianchi.

Il lavoro non terminava qui. Una gruppo di ragazzine dipingeva questi oggetti, che venivano poi nuovamente cotti nei forni, affinchè le pitture rimanessero impresse in quelle ceramiche.

Per alcuni oggetti era necessario un ulteriore procedimento: dopo averli impreziositi con rifiniture in oro zecchino venivano nuovamente rimessi nel forno per la definitiva cottura .

Gli oggetti migliori venivano fotografati ed inseriti in un catalogo numerato, un campionario di almeno cento articoli, che veniva presentato, per la vendita, a negozi di casalinghi e fiorai.

Continuerò a raccontare premettendo numerose evoluzioni e accadimenti in questa fabbrica, dove ho imparato a districarmi in tutte le incombenze amministrative.

Maria Mastrocola in Dulbecco





I racconti
della signora Maria


Maria Mastrocola
in Dulbecco














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