Come posso controllare le
parole che si affollano nella mia mente e chiedono con
insistenza di uscire fuori per essere impresse nella carta
quando queste affluiscono numerose in un mare di
sensazioni, che dilaniano l’anima e non vogliono essere
più represse, provocandomi un incessante tormento.
A quali dare la precedenza sicura per poterle far defluire
e comporre un logico racconto che mi aiutino a districare
i fili che compongono lo scorrere del raccontare.
I primi ricordi, non sono molto allegri, sono cresciuta
con la guerra.
A sette otto anni quelli sono i ricordi predominanti.
Incertezza, paura!
Paura dei tedeschi che incontravo fuori della porta. Gli
aerei da ammirare in formazioni triangolari, belli da
guardare, ma erano portatrici di bombe. Io giocavo
sull’uscio di quella casa, dove eravamo sfollati, e
sentivo il sibilo dei proiettili di cannoni che
attraversavano il paese per andare ad esplodere al di là
delle case.
Ascoltando avevo imparato a simulare il loro sibilo che
nei momenti di tregua ripetevo per giocare a far
spaventare mamma e nonna, che mi abbracciavano come a
difendermi da quelle bombe.
La nonna! E' stata l’unica ad avere avuto il coraggio di
tornare a San Salvo, dove era la nostra casa, camminando a
piedi, da Cupello, per andare a prenderci i vestitini
pesanti, visto che stava arrivando il freddo e la guerra
continuava. Eravamo stati sfollati con il caldo e si
pensava potessimo far ritorno a casa entro pochi giorni,
ma non fu così.
Lei, partì di buon mattino, a piedi, attraversando campi e
strade deserte, arrivando a casa dove trovò un paese
disabitato. Prese due fagotti di indumenti a noi necessari
e riprese la strada per Cupello.
Al ritorno ci raccontò che per strada, aveva invocato
continuamente il Signore che l’aiutasse ad arrivare viva.
Quelle cannonate delle quali sentivamo solo il sibilo, se
li era visti cadere vicino e trovava, sul cammino, buche
provocate da questi proiettili. Ringraziando Dio riuscì ad
arrivare da noi.
Insieme a noi vi erano altri parenti e tutti, in attesa
che i tedeschi andassero via, si prodigavano per il
sostentamento di questo gruppo.
In quei giorni, contrariamente a quanto accadeva nel resto
d’Italia, da noi abbondava il mangiare. Le donne facevano
il pane in casa e tutti abbattevano gli animali che
possedevano per non farli prendere dai tedeschi. Tutti i
giorni si facevano grossi tegami pieni di carne a (ciff e
ciaff), volevo dire solo soffritti insaporiti da peperoni
rossi essiccati al sole e spicchi d’aglio.
A volte, i tedeschi, che avevano allestito una cucina a
fianco a noi, in una casa dei nostri parenti, ci
sporgevano pezzi di carne che avevano in abbondanza.
Una mattina arrivarono un gruppo di tedeschi che cercavano
donne da portare con loro per farsi aiutare nelle cucine
ai margini del paese.
Tutte le donne di casa si misero a sfaccendare per far
vedere che erano occupate. Qualcuna ha preso in braccio il
mio fratellino piccolo e accadde così che solo mia nonna
era rimasta senza occupazione alcuna. I tedeschi la
stavano portando via ma non avevano fatto i conti con me
piccolina. Mi avvinghiai alle gambe della nonna e gridavo
affinché non me la portassero via. I due non parlavano
italiano ma capirono la mia angoscia e si commossero (alla
fine, anche loro erano soldati con tanto cuore).
Mi fecero una carezza e con un sorriso mi rassicurarono
andandosene via con un saluto della mano e non portarono
via nessuna delle donne di casa.
Una scena che non mi ha più abbandonata ed è servita a non
farmi più avere paura dei tedeschi che incontravo sulla
porta.
Maria Mastrocola in Dulbecco