Non ti ho mai dimenticata.
Eravamo sedute su quel balcone nelle lunghe sere d’estate
io e te, nonna.
Tu pregavi. Io sognavo.
Tu pregavi. Io guardavo le stelle.
Quelle stelle, complice il buio, erano nitide e lucenti.
Qualche volta smettevi di pregare e parlavi con me. Mi
raccontavi episodi della tua vita quando mi sentivi
predisposta ad ascoltarti. Ricordavi cosa avevano
raccontato a te da bambina e osservando la luna piena, una
sera mi hai fatto notare come in quel disco luminoso si
vedesse nitidamente la figura di un uomo che cercava di
oscurarla. Mi dicevi “Vedi? È Bertoldo. Con un fascio di
sterponi cercava di oscurare la luna e nel tentativo di
coprirla, perché gli altri non lo vedessero mentre rubava
i covoni di grano, vi rimase attaccato e fu condannato a
restarci per l’eternità”.
Io vedevo chiaramente la figura da te indicata e pensavo a
quel povero Bertoldo che sicuramente non si trovava a
proprio agio in quella scomoda posizione.
Sono poi andati sulla luna, nonna, quando tu non eri più
con noi. Quelle ombre non erano di Bertoldo, ma delle
montagne ed io non ho potuto dirtelo. Non volevo crederci,
ma dimostrarono che era così. In verità lo sapevamo anche
prima, ma io preferivo credere a te.
Hanno cominciato così a distruggere i miei sogni.
Tu pregavi. Io fantasticavo.
No, non ricordo amore.
Già da piccola avvertivo che in quel paese non c’era
calore, sapevo che sarei dovuta andare via.
Le strade erano di fango e le case non avevano acqua
corrente.
Il banditore, a pagamento, annunciava dove andare a
comprare i piselli freschi e se in piazza era arrivato il
pesce o la frutta di stagione a buon prezzo. Si faceva
precedere da due squilli e poi con quanto fiato aveva in
gola reclamizzava la merce e il luogo.
I carretti tirati da asini e cavalli, partivano al mattino
presto per i campi e tornavano alla sera in fila superando
la salita della “curva” oppure quella più ripida della
“fonte”.
Fatti importanti ne accadevano pochi, qualche nascita, un
matrimonio, le due feste patronali del paese quando
arrivavano persino i gelati.
Non dimentico due fatti importanti. Due omicidi a distanza
di qualche anno uno dall’altro. La mia piccola mente non
poteva concepire come un fratello potesse togliere la vita
ad un altro. Non lo capivo. Non c’era amore.
Eppure le persone si sposavano e i bambini nascevano come
in ogni altro posto.
Non c’era calore in quel paese, non c’era tenerezza, le
carezze erano gesti ai quali gli abitanti non erano
avvezzi. Gesti di cui ci si vergognava.
Il fango, il fango abbondava nell’inverno.
L’acqua sporca si buttava dalla finestra, un po’ sparsa
perché si asciugasse in fretta. Quando era più abbondante
la si portava con una tinozza fino al lato della strada
dove veniva rovesciata in una cunetta scavata alla meglio,
nella quale scorreva un rigagnolo che provvedeva a
convogliare queste acque tutte nella medesima direzione,
la “Forma”, un canale artificiale che si trovava a destra
del paese.
Non c’era grande povertà e neppure grande ricchezza.
Il fango, tanto fango specialmente se pioveva e poi
tantissimo quando subito dopo la guerra si fecero gli
scavi per le fognature e per portare l’acqua nelle case.
In quel periodo era possibile camminare per le strade,
soltanto grazie alla buona volontà di molti che, spinti
dalla necessità, avevano provveduto a posare uno dopo
l’altro, dei grossi sassi lungo i percorsi abituali.
Non c’era amore. Poi arrivarono le suore, delle piccole
umili suore che si adattarono ai nostri usi e ci
insegnarono che c’era l’amore di Gesù.
Accolsi nel mio cuore questo sentimento grande, ma anche
questo lo tenni celato come ogni altro sentimento senza
mai tradire emozioni che sarebbero sembrate strane.
Contegno, freddezza, rudezza.
Questo è il paese dove sono cresciuta e dove ritorno
saltuariamente trovandolo sempre diverso ricordando che:
io ero qui quando questa terra era ostile e regalava solo
poesia, troppo poco per vivere e troppo per una pace senza
risorse.
Ora tutto è in fermento, tutto in costruzione.
I volti noti non ci sono più o ne vedi pochi, gli altri, i
nuovi arrivati, sono tanti e li vedi padroni di quei tuoi
sogni defraudati a te dalla vita che lenta, inesorabile,
ti fa guardare avanti ma non ti permette di dimenticare.
Amavo il mare, il suo fragore lontano nelle giornate di
burrasca.
Alla sera uscivo sull’uscio di casa e nel buio della notte
mi lasciavo rapire da quel rumoreggiare lontano e
affascinante che proveniva da quell’enorme massa d’acqua
in movimento.
L’Adriatico doveva agitarsi moltissimo se a tre chilometri
di distanza ne percepivo un suono così distinto.
In quelle notti il cielo era limpido e il mare si
sostituiva alle stelle per regalarmi sensazioni stupende.
La battaglia della vita è ora come quel mare in burrasca.
Il mio mare è lontano, il suo rumore non giunge fino al
mio udito.
Quella casa in mezzo agli ulivi non esiste più, le nuove
costruzioni l’hanno soffocata; i dintorni hanno subito una
trasformazione tale da rendere irriconoscibili quei luoghi
ormai vivi solo nella memoria di chi li ha vissuti.
Era un casa dove si era sempre in attesa di qualcuno che
doveva arrivare.
Prima la nonna che aspettava suo figlio che viveva al
nord, poi mia madre che aspettava noi e di questo
aspettare c’era tutta la speranza e il desiderio del
ritrovarsi che aiutava a vivere.
Vivere. La vita cos’è.
La bontà cos’è.
La cattiveria cos’è. Cos’è la lontananza.
Spesso mi sono sentita come un’emigrante in patria. Si è
sempre emigranti quando si va via, giovanissimi, da dove
abbiamo imparato a conoscere, al mattino, da quale parte
sorge il sole, e alla sera, dove tramonta. Si diventa
senza più riferimenti.
Lontana da quei luoghi, non ho più saputo discernere
l’alba e il tramonto, schiacciata tra il cemento e gli
affanni.
Quando ho preso il treno, alle quattro del pomeriggio, in
quella piccola stazione sulla direttrice Lecce-Milano,
lasciavo alle spalle un paese che viveva arroccato sulla
prima altura situata a pochi chilometri dal mare. Anche la
breve distanza dalla stazione ferroviaria rappresentava un
percorso difficile da superare poiché, anche se non sto
parlando del medioevo, i mezzi di comunicazione e
trasporto con i centri più vicini erano inesistenti.
Si viveva nel silenzio o meglio nel silenzio dei rumori
familiari, quelli del fabbro, del falegname, anche quello
della macchina da cucire di mia madre, delle campane e dei
passi che risuonavano nelle strade.
Nei pomeriggi estivi, il paese dormicchiava e la calura
conciliava le pennichelle dei suoi abitanti.
Eugenio suonava il “Vent’unora”, non ne conosco il
significato ma allora era il tardo pomeriggio. In tempo di
mietitura gli addetti a falciare il grano si fermavano per
una merenda.
Poi Eugenio, che era il sacrestano suonava il “Vespro”, l’
“Ave Maria” e terminava la sua fatica chiudendo la porta
della chiesa e avviandosi verso casa con un’andatura
leggermente curva su un lato e un fare lento e pensieroso.
Suonava poi l’ “alba”, la “missitella”, il “mezzogiorno”.
Le campane scandivano la vita di tutti gli abitanti.
Alla domenica poi, in occasione della “messa cantata”
suonavano a distesa.
Mentre queste scampanellavano, le donne in casa erano
affaccendate ai fornelli e dalle finestre uscivano profumi
di carne sul fuoco, pranzi riservati solo alla domenica
poiché durante la settimana, sui deschi imperava solo la
pasta asciutta impastata in casa, condita con semplice
pomodoro e magari con una spruzzatina di pecorino.
La monotonia del suono delle campane che scandivano il
tempo nell’arco della giornata, veniva rotta solamente dal
diverso scampanio che annunciava una morte o l’arrivo di
nubi minacciose che promettevano vento e grandine magari
proprio in prossimità del raccolto del grano coltivato a
grande maggioranza.
Il suono che annunciava a tutti la dipartita di uno degli
abitanti era greve e lento. Rintocchi tristi che venivano
ripetuti più volte a distanza ravvicinata e il numero
delle volte era determinato dall’importanza del
personaggio.
A quel suono le donne si affacciavano sull’uscio ad
interrogarsi.
La vecchia Zia Maria chiedeva a Carmela: “Chi è morto?”
“Non so” facevo eco zia Serafina affacciandosi alla
finestra.
La nonna, Caterina, si spingeva più in là e arrivava sino
in cima alla “ruella”che sbucava sul corso principale. Al
primo passante chiedeva e dopo parecchi “non so” che
duravano al massimo un quarto d’ora, di rimbalzo arrivava
il nome.
Allora, la donna di casa si pettinava i capelli raccolti a
crocchia sulla sommità del capo, si metteva un fazzoletto
in testa legato sotto il mento, possibilmente nero, e
correva a portare il primo saluto della famiglia, ai
parenti del morto i quali erano già pronti per ricevere
quelle visite seduti attorno al defunto adagiato sul letto
allestito per l’occasione con la massima cura.
Alla sera andavano gli uomini, mentre le donne si
organizzavano per la veglia notturna.
Prima della guerra non esistevano “thermos”, ma poi
arrivarono anche quelli e così il caffè veniva portato
caldo per tutti poiché in quella casa, mentre c’era il
morto presente non si sarebbe acceso fuoco alcuno per cibi
e bevande calde.
Ogni familiare era rigorosamente seduto al posto che gli
competeva a fianco del letto, secondo il suo grado di
parentela.
La stanza funebre veniva liberata da tutti i mobili
trasportabili e al loro posto venivano allineate sedie in
gran quantità così che i visitatori trovassero posto a
sedere in circolo attorno al letto funebre.
Per quasi due giorni, tutto il paese sfilava e si
soffermava in questa stanza come a voler tenere compagnia
al morto, per l’ultima volta.
Il motivo non era solo quello; ci si ritrovava un po’
tutti ed era l’occasione per conversare, anche se
sommessamente.
Qualcuno si fermava più del necessario per raccogliere
maggiori informazioni sugli ultimi avvenimenti degli altri
o aspettando magari qualche persona che non vedeva da
tempo. A bassa voce si scambiavano notizie sulle loro
famiglie e sui fatti dei paese e non di rado, si gettavano
le basi per combinare matrimoni tra giovani che neppure si
conoscevano, lasciando alla discrezionalità dei genitori
valutare la convenienza sociale ed economica di favorire
un simile approccio.
I componenti della famiglia del malcapitato, a turno,
piangevano il morto a voce alta e con una specie di
cantilena rievocavano la vita di costui esaltandone le
qualità.
Nel caso il defunto in questione, in vita, fosse stato un
po’ carognetta verso alcuni familiari, costoro coglievano
l’occasione per intercalare le cantilene con frecciatine,
più che dirette al morto, dirette alle persone in vita che
avrebbero beneficiato dei torti da loro subiti e non
raramente i chiamati in causa rispondevano con lo stesso
indiretto sistema.
In questi casi l’eco si estendeva fuori dalla stanza,
fuori dalla casa, così che i curiosi visitatori
diventavano più numerosi per non perdersi le varie
battute.
L’avvenimento di una morte si trasformava così in
un’occasione per comunicare e conoscere le storie di
attualità del paese. Era la televisione o il settimanale
scandalistico dell’epoca, un bollettino che veniva
ascoltato e riferito a chi non era presente.
Era cronaca rosa, cronaca gialla, argomenti sussurrati con
autentico mistero, cronaca nera. Tutto il paese passava
sotto i racconti delle croniste del tempo poiché le più
informate erano sempre le donne.
La signora “bene” che non usciva mai da casa, mandava la
serva a raccogliere informazioni e questa si documentava
scrupolosamente per riferire ogni particolare che riteneva
potesse interessare la sua “padrona”.
Ricordo, per tutti, Donna Elvira (casa che frequentavo da
bambina) e la sua serva Francesca.
E queste erano poi le notizie sulle quali si sarebbero
accentrati tutti i discorsi fino a nuovi avvenimenti.
Eugenio espletava tutte le incombenze relative ai
funerali.
Suonava le campane a morto, preparava il catafalco, le
sedie in chiesa e non dimenticava niente. Tutto veniva
allestito secondo i desideri dei familiare e in
proporzione alla retribuzione concordata.
Lui, Eugenio, suonava anche l’organo in verità un po’
sfiatato a causa del mantice ridotto in cattive condizioni
e cantava i salmi con un biascicato latino che non era
necessario fosse comprensibile; l’unico latino
‘conosciuto’ era infatti quello delle preghiere recitate
dagli anziani del paese ascoltando le quali si poteva
intendere quanto poco se ne masticasse.
Naturalmente c’era anche il parroco, ma Don Oreste poco si
occupava di tali faccende.
Viveva ritirato nella sua casa dedicandosi al proprio
arricchimento intellettuale che poteva coltivare anche
grazie al fatto che egli possedeva una delle poche radio
esistenti in paese che tra l’altro, durante la guerra, (si
diceva che ascoltasse “Radio Londra”) gli permetteva di
essere sempre aggiornato sugli ultimi bollettini di
guerra.
L’ultimo atto della vita vissuta in quel paese era quello
di essere accompagnato dal parroco e da tutti gli abitanti
lungo il viale alberato che conduceva al cimitero.
Dal 1944 in poi nei discorsi di tutti, gli avvenimenti
venivano indicati come accaduti:
- prima della guerra
- dopo della guerra.
Maria Mastrocola in Dulbecco