Zia. La chiamavo zia ma in realtà non eravamo neppure
parenti.
Era venuta ad abitare vicino a casa mia da circa dieci
anni.
Vedova, abitava da sola. Quando era arrivata aveva già
settanta anni ma non li dimostrava. Agile e deliziosa, si
vestiva con cura, le piaceva condurre una vita
confortevole e dignitosamente vivace.
È proprio vero che gli anni non si misurano dalla nascita
ma dall’aspetto e dallo spirito che una persona conserva
dentro se stessa.
Eppure aveva avuto una paralisi facciale, qualche anno
prima e il suo cruccio era quella bocca leggermente storta
che ogni giorno, guardandosi allo specchio, cercava di
correggere. Con un po’ di trucco leggero e garbato e un
po’ di ginnastica facciale inventata da lei, ci era
riuscita, si avvertiva appena e la sua vita scorreva
tranquilla.
A ottantasei anni, la guardavo ultimamente in quel letto
rivolta spesso a guardare le due foto ben incorniciate ed
esposte sopra il comò: una del marito, da tempo scomparso,
ed una dei suoi passati trent’anni.
Un ritratto ben fatto, bella, uno sguardo di occhi chiari
e superbi, onde dei capelli corti e ben sistemati, alla
moda degli anni trenta.
Su quel letto, vedevo ancora lo stesso sguardo, lo stesso
portamento altero di chi non vuole arrendersi, di chi non
vuole concedere agli anni e al male la sua parte e senza
forzature artificiose ci era riuscita.
Aveva dei capelli bianchissimi e bellissimi, un bianco che
creare artificialmente non è possibile, morbidi,
impeccabilmente pettinati. Gli occhi chiari maliziosi e
sfuggenti in un ultimo guizzo di civetteria. Un corpo
snello ancora da mannequin, come amava definirsi prima di
cedere il passo al male e al letto.
Nulla voleva concedere a quel male che avanzava e che lei
rifiutava di qualificare per quanto veramente era. Non
sono mai riuscita a penetrare quella mente ancora così
lucida e capire se: sapeva!
Certo, l’aiutavo anch’io nel rafforzare la sua
convinzione.
Quel male, lei diceva, le era venuto per suo errore, una
infezione: un giorno, raccontava, mentre eseguiva le
pulizie igieniche del suo corpo, si avvide che sotto il
piede si era formato un pezzetto di carne sporgente come
un filo molto spesso. Senza rifletterci su tanto, passando
le mani nell’atto di lavarsi, l’aveva afferrato e
strappato pensando così di disfarsi di quel piccolo
imbroglio che poteva dare fastidio a lei che a ottanta
anni portava ancora i tacchi alti.
La sua figura alta e snella acquistava maggior risalto con
quei tacchi alti con i quali era abituata a camminare sin
dalla sua gioventù, che quella foto le rammentava.
Con nessuno parlò di questa cosa che in fondo era un suo
fatto personale, lei era abituata da sempre a gestirsi da
sola e a curare la sua salute con risultati eccellenti.
Dopo qualche mese però, quello strappo si mutò in una
infezione e questa infezione, nonostante i medicamenti che
eseguiva, cresceva.
Come un fiore che sboccia, senza alcun dolore (o era lei
tanto forte da non denunciarlo) si limitava ad aumentare
le foglie del male che non si aprivano a corolla ma si
sovrapponevano, come un bocciolo di rosa nel tardo autunno
quando il freddo incombente non gli dà la possibilità di
aprirsi.
Queste foglie o petali si aggrovigliavano in una maniera
raccapricciante formando una notevole protuberanza.
Uno sguardo rapido del dottore, il dubbio sciolto dagli
esami in ospedale: “melanoma maligno”.
Certo i suoi occhi avevano colto un barlume di verità, ma
il suo spirito indomabile non l’accettava.
Decise di seguire ogni terapia consigliata dai dottori ed
erano loro gli amici che più considerava.
Cominciò così un lungo periodo di visite quindicinali al
Day-Ospital San Giovanni di Torino.
Considerando l’età e non tenendo conto dello spirito
giovanile, non ritennero opportuno intervenire
chirurgicamente amputando il piede e iniziarono con una
cura che consisteva nel praticare una serie di punture
attorno alla parte malata nell’intento di arrestare questo
dilagante male inguaribile.
I risultati erano apprezzabili ma la zia non poteva
appoggiare il piede per terra, vista la posizione in cui
si trovava la protuberanza.
Per di più necessitava di medicazioni multiple giornaliere
e bisognava fare i conti anche con emorragie saltuarie.
Un giorno disperata e un giorno ottimista, il tempo
trascorreva e va detto che per lei quel doversi recare
saltuariamente al Day-Ospital era diventata un’occasione
di evasione; attendeva quel giorno come una fanciulla
attende di recarsi ad una festa. Si preparava per tempo in
ogni minimo particolare, voleva essere elegante e quindi
terminata l’ultima visita, cominciava a prepararsi per la
successiva; curava il colore di ciascun capo abbinando con
gusto i colori della camicetta, dei pantaloni e dei
foulard i quali erano il suo debole, ne possedeva di tutte
le tinte.
Quando entrava al Day-Ospital, lo faceva festosamente,
salutava i malati che incontrava nei corridoi e nelle
stanze con allegria. Passava in mezzo a persone che
avevano solo più in fondo agli occhi la speranza e li
rincuorava; riusciva a trasmettere in questi cuori un
briciolo di serenità fino a far spuntare un sorriso su
labbra da tempo non più avvezze a quell’atteggiamento.
Reclamava il suo posto informandosi cosa avessero di buono
in cucina come se si fosse recata al Grand Hotel ed un suo
cruccio era che la cucina non disponeva di vino, tanto che
le infermiere, se ne avevano in proprio, gliene portavano
un po’, così mangiava più volentieri.
Questo durò qualche anno, poi ci fu la bronchite e il
ricovero in un ospedale diverso della città.
Il suo fare, il suo pretendere educatamente e
scherzosamente faceva sì che tutti la trattassero con
compiacenza.
Fu così che, guarita dalla bronchite, il primario volle
parlarmi comunicandomi che la paziente aveva ben reagito
alla malattia guarendo perfettamente ed espresse il suo
parere su quel male che divorava il piede. Il suo
consiglio era: amputare.
AMPUTARE, una parola che mai avrei ripetuto alla zia, ne
sarebbe rimasta sconvolta, senza più la speranza di
tornare a camminare.
Esclusi questa possibilità e il giorno dopo sarebbe
tornata a casa per ricominciare la solita terapia sin lì
seguita.
Invece al mattino seguente, trovai la zia che con fare
autoritario di chi è ancora padrone della sua persona,
rivolta ad una sua nipote, mia suocera, disse:
“Ho deciso di tagliare questo piede che mi fa tribolare”.
“Sei sicura?”.
“Sì, la gamba è mia e ne faccio quello che voglio”. La
nipote ribatté: “Ti rendi conto che resti senza un
piede?”.
“Certo” rispose “però non avrò più questo marciume infetto
che provoca puzza e repulsione. Il professore ha detto che
la mia salute è buona e che posso vivere altri dieci anni,
con un arto artificiale sarò ancora in grado di camminare
e vivere più serena”.
La decisione era presa e la volontà di ferro.
E così tutto era andato come voleva. Amputata la gamba,
rifatto un arto artificiale; ginnastica a tutto andare
fino a tornare a casa in grado di camminare da sola
persino senza bastone.
Era tornata a fare i suoi lavori in casa, si metteva i
pantaloni per coprire l’arto artificiale e scendeva al bar
per fare chiacchierate con gli amici di sempre.
E questo a ottantatre anni.
Eppure quel male era in agguato. Non rispettava tanto
coraggio e per ben due volte ancora si era riprodotto più
in alto su quel pezzo di gamba che era rimasto.
Con coraggio aveva subito altre due operazioni e sempre,
Lei, aveva ripreso a vivere gioiosamente.
Questo alternarsi di ricoveri in ospedale e di ritorni a
casa faceva ormai parte delle sue abitudini. Il consiglio
di disfarsi della casa e di andare a vivere in un
pensionato veniva escluso categoricamente. La sua pensione
non era altissima ma sapeva amministrarla con parsimonia e
giudizio sì da avere sempre qualcosa per persone che
potevano essere a lei utili.
Diventava, in questi casi, generosissima e volentieri si
disfaceva di quel braccialetto, di quella catenina d’oro
che possedeva e li regalava per aver avuto un giorno di
compagnia. Qualche volta la rimproveravo, sempre con il
sorriso, ma poi le davo anch’io qualche oggetto affinché
lei potesse a sua volta regalarlo, tanta era la gioia che
provava nel farlo.
Ma anche in questi regali c’era un pizzico di malizia:
questo faceva sì che chi l’aveva ricevuto si sentisse in
qualche modo obbligato e lei stessa, ricevendo il
servizio, non si sentiva in dovere di riconoscenza, in
fondo aveva pagato.
Quanti piccoli o grandi particolari si potrebbero
ricordare.
Quante piccole astuzie per far sì che le persone che aveva
occasione di incontrare la tenessero in considerazione.
La gratitudine era riservata solo al suo medico curante il
quale, conoscendo la natura del suo male, veniva a
trovarla anche se non chiamato. Penso che quel dottore,
pur abituato ai mali e ai malati sarebbe gratificato e
certamente lo era, nel sapere quanto bene arrecavano
quelle visite.
Ho passato qualche anno a seguirla in questo suo
peregrinare tra ospedali e casa, ma soprattutto gli ultimi
sette mesi durante i quali ero impegnata vicino a lei in
continuità, volendo che sentisse vicino una presenza
affettuosa.
In quel prodigarmi vicino al suo letto alleviandole le
sofferenze con farmaci che i medici mi davano da
somministrarle e con sorprese giornaliere a lei care,
pensavo di averle dato tanto e quasi mi compiacevo. Ma ora
che ho finito di adempiere al mio compito con il curare
l’atto finale che mi aveva raccomandato, il suo funerale,
sentivo un gran vuoto, le mie giornate non avevano più
senso, mi mancava quel contatto umano e quella voglia di
vivere che sapeva trasmettermi.
Riflettendo attentamente sento che in fondo, in questo mio
dare, pesa di più quanto ricevuto.
Ho assistito a qualcosa di irripetibile: ottantasette anni
e una gran voglia di vivere, godendo di ogni piccola gioia
e facendo progetti per il futuro.
Ed io che con la metà dei suoi anni, non riesco a pensare
che si possano ancora fare progetti per il futuro.