Ogni mondo è paese, ma il mio paese è il mio mondo.
Fernando Sparvieri
Ma chi sarebbero li salvanése
I racconti di Fernando
Sparvieri
Un po' di storia locale raccontando personaggi
I due Sant'Antonie
(Tra devozioni ed incomprensioni)
di Fernando Sparvieri
Tonino Longhi (Sant'Antonio)
e Luigi Franceschini (il diavolo).
La tradizione del canto del
Sant’Antonio Abate affonda le sue radici nella antica e
folcloristica civilità contadina, in cui il Santo ha
sempre rappresentato il simbolo del bene che prevale sul
male nell’eterna lotta contro il diavolo tentatore.
La forma di venerazione del cappuccino dalla fluente barba
bianca, simbolo di giustizia, amore e fratellanza, non si
limitava tuttavia al solo canto del Sant’Antonio nella
serata della vigilia del 16 Gennaio, ma era costantemente
assicurata nel corso di tutto l’anno dalla presenza tra le
vie del paese del “Porcellino di Sant’Antonio”, che mio
padre, il maestro Evaristo Sparvieri, in una prefazione di
una sua poesia in vernacolo, dal titolo "Lu purchette
di Sant'Antonie", così descrive: "Si usava una
volta, a San Salvo, che spesso i contadini facevano dono
a Sant’Antonio Abate, di un porcellino che, lasciato
libero, girava per il paese, usufruendo del rispetto e
dell’aiuto necessario alla sua sopravvivenza. Il
maialino , diventato adulto, veniva venduto all’asta ed
il ricavato andava a beneficio della Chiesa".
Audio della poesia
Il porcellino, così come si legge nella poesia, nonostante
fosse rispettato e riverito da tutti, tant' è che al suo
passaggio qualcheduno si toglieva addirittura il cappello,
venne inghiottito dal mistero e dagli stomaci di una
famiglia che pare abitasse in piazza Amistà, attuale
Piazza Europa, la quale a causa della fame, pensò "bene"
di farlo a paste de saggèccie (pasta di
salsiccia), decretando per sempre questa singolare forma
di venerazione del santo cappuccino.
Fatta questa doverosa premessa, per fatti che risalgono
agli anni del primo dopoguerra, tornando nel campo della
tradizione dei canti popolari, a molti di voi suonerà
strano, ma anche il canto del Sant'Antonio, il più noto e
famoso fra quelli di gennaio, fu il primo a finire nel
mondo dell' oblio. Nessuno lo cantava più. Infatti, sul
finire degli anni '50, al contrario del Capodanno, della
Pasquetta e del San Sebastiano, che continuavano ad essere
cantati per vie del paese, il canto del Sant'Antonio,
insieme al suo porcellino, parevano essersi dileguati, per
sempre, dalla tradizione folcloristica locale.
L'unica forma di venerazione di Sant'Antonio che io
ricordi era quando negli anni '50, qualche mamma, la mia
compresa, per sciogliere un voto fatto durante la
gravidanza a Sant'Antonio, quello di Padova o da Lisbona,
da non confondere con il nostro abate, definito anche il
Grande, l'egiziano o l'anacoreta, vestiva per un periodo
il proprio figlioletto gne' nu municiarìlle (come
un fraticello), perchè aveva esaudito le sue preghiere ed
aveva dato alla luce nu feje lèbbere e belle (un
figlio sano).
Tornando al canto, io personalmente, sino agli anni '80,
ne ignoravo l'esistenza, per un motivo molto semplice: non
avevo mai sentito nessuno cantarlo e quindi mi erano
sconosciuti sia il testo che il motivo musicale.
La prima volta difatti che mi imbattei nel Sant'Antonio,
fu quando una sera del 16 gennaio dei primi anni '80, ai
miei amici Tonino e Nicolino Longhi, Fernando Malatesta,
Gino Cacchione, Michele Molino e qualche altro, tutti di
qualche decennio più grandi me, venne in mente di andare a
cantare il Sant'Antonio a casa di 'Ntónie de Carruzzìre
(Antonio Fabrizio), che abitava in Piazza San Vitale, per
fargli una sorpresa. Mi coivolsero al'ultimo momento come
"suonatore" di fisarmonica. Per loro fu un successo, per
me un disastro. Siccome io non conoscevo la canzone e loro
non è che ricordassero bene il motivo e le strofe, fu un
adattamento musicale: testo di un presunto Sant'Antonio e
musica del San Sebastiano. 'Ntónie Caruzzìre,
nonostante lo scambio del motivo musicale, si commosse sin
quasi alle lacrime.
Usciti dalla casa di 'Ntónie, spinti dall'euforia,
decisero di recarsi a cantare a casa di un altro loro
amico, di nome anch'egli Antonio, che abitava in Via del
Popolo. Saggiamente l'altro Antonio, che io non conoscevo,
se ne restò a letto e non ci aprì, facendo ricordare a
tutti che esisteva anche il rovescio della medaglia e cioè
che non sempre le porte venivano spalancate.
Anche se quella fu solo una serata goliardica, l'anno
seguente i soliti amici vollero fare il bis.
Si presentarono, qualche giorno prima del 16 gennaio a
casa mia, manifestandomi l'intenzione di voler cantare di
nuovo il Sant'Antonio. Memore dell'esperienza precedente,
cercai di svicolare, ma non vi riuscii.
Iniziarono a cantare, con reminiscenze dell'antico canto,
ma non si capiva niente. I miei tentativi di carpirne al
volo la linea melodica, furono vani.
E fu così, che dopo aver tentato inutilmente di
accompagnarli con il pianoforte, non riuscendo a
comprendere addirittura se la tonalità fosse in minore o
in maggiore, all'mprovviso, quasi a volerli prendere e
prendermi in giro, mi misi a suonare un motivetto
inventato di sana pianta all'istante, con note che, come
non sempre accade ad un compositore, iniziarono a
susseguirsi una dopo l'altra, sino a diventare una
canzonetta.
"Fràgne quàsse!" (E' una bella canzone questa),
incominciarono a dire. "A ma' cantà 'ssa canzàune"
(canteremo questa canzone).
"Ma no", risposi loro ridendo. "Questo mi sembra più una
motivo da Sanremo che da Sant'Antonio", conclusi, sperando
di averli dissuasi. Ma non ci riuscii. Come si dice avévene
'ncuccìte (si erano intestarditi) e volevano
riascoltarla, cantandoci sopra, improvvisandosi ognuno
paroliere.
Secondo me il problema era che la melodia aveva uno
sviluppo armonico abbastanza complesso per un
Sant'Antonio, con la prima parte in La minore ed il
ritornello il La maggiore. Roba da lasciar perdere, ma non
vi fu nulla da fare.
Fatto sta, che richiamato più che dal suono dal frastuono,
dopo un po' arrivò mio padre, che conosceva la versione
originale del Sant' Antonio. Non gli fecero neppure aprir
bocca: avevano deciso di cantare quella mia estemporanea
composizione. Anzi, conoscendo la vena poetica dialettale
di mio padre, lo invitarono a scrivere un testo che si
adattasse a quella melodia. Dopo una mezz'oretta il nuovo
canto, in dialetto abruzzese, era bello, per modo di dire,
e pronto.
Ma non la finirono qui. Sulle ali dell'entusiasmo il
giorno seguente mi dissero che volevano addirittura
esordire in pubblico, con tanto di coreografia.
La cosa iniziava ad essere impegnativa.
Chiesi a questo punto ai miei amici coetanei suonatori di
darmi una mano e così organizzammo un'orchestrina con Ivo
Balduzzi alla fisarmonica, Michele De Filippis e Rino Di
Cola alle chitarre, Nicola Iannace a lu tàmirre
(al tamburo), io al violino che appena strimbellavo. Alle
prove, al garage di Nicolino Longhi in Via Platone, vi fu
un pienone. Eravamo una trentina, tutti amici, fra i quali
molti miei coetanei o quasi, come Enzo Marzocchetti,
Osvaldo Menna, i fratelli Vito e Luciano Cilli.
Ma questo era solo l'inizio. Ora vi era da studiare la
coreografia.
Qualche giorno dopo Tonino Longhi mandò sua moglie Maria
al mercato settimanale, che all'epoca si svolgeva in Via
dello Stadio, dicendole di acquistare quanti più metri
possibili di stoffa color marrone per realizzare le
tonache da mónecie (da frate), che ogni
partecipante avrebbe dovuto indossare. Quì incontrò un
ambulante che le disse che aveva degli spezzoni nel suo
negozio a Termoli, luogo in cui Tonino e Fernando
Malatesta si recarono in 500 FIAT la sera stessa,
buscandosi anche una contravvenzione per eccesso di
velocità. Motivo: j'avè 'ntrìte li vìrme nghìule
(modo di dire in sansalvese quando una persona diventa
super attiva non fermandosi più).
Sempre molto velocemente (Tonino tagliava e Maria cuciva),
vennero confezionate in poche ore 35 tonache di lunghezze
diverse, adattando gli spezzoni di di stoffa all'altezza
dei partecipanti. Ci uscì anche 'na tunucarélle
(piccola tonaca) da bambino.
Contemporaneamente Fernando Malatesta, invece, nel suo
laboratorio di perito elettrotecnico, come si intuisce già
dal suo cognome, ze na ve' jute de cóccie e faceva
lo scienziato: con dei tubi di plastica bianca, realizzò
35 candele a batteria, ognuna con una lampadinella sopra,
che benemè canda alijévene (che emanavano una luce
rossa e fioca), che si accendevano e si spegnevano facendo
fare contatto a due fili elettrici con la pressione delle
dita.
A questo punto, come in ogni congregazione di frati che si
rispetti, mancavano solo i cordoni, che vennero realizzati
con parecchi metri di corda acquistati a la puteche de
Carminuccie Colànde (Beniamino Carmine Tomeo), il
padre di Felice c'est bon. Costo completo per ogni
capo d'abbigliamento 10.000 lire.
La sera del 16 gennaio il gran debutto in piazza Giovanni
XXIII.
I frati, in fila per due, partendo dal garage di Nicolino
Longhi, iniziarono a sfilare per le vie del paese, come
quando, in occasione di un funerale importante, venivano i
frati cappuccini dall'Incoronata di Vasto, che i
sansalvesi chiamavano "Il Capitolo", che era un corteo che
precedeva il feretro, schierati con li municiarìlle
davanti (ragazzini che studiavano al collegio per
diventare frati), i frati dietro in ordine di altezza, ed
il priore che chiudeva la sfilata.
Tonino Longhi, in prima
fila, nghe la vesáccie, guida il corteo dei
"frati", che declama una litania, scritta da Michele
Molino.
E qui arrivò il bello.
Grande fu la mia sorpresa quando, arrivati in piazza,
incontrammo un'altra squadra che andava cantando il
Sant'Antonio.
Non so se l'incontro fu casuale o premeditato.
Erano personaggi del calibro del Cav. Leone Balduzzi, al
violino, Umbertuccio De Filippis alla chitarra, Olindo
Palucci al mandolino/banjo, Andrea Ciavatta (ndriucce lu
telefene) voce solista e caratteristica, mastre Ntunine
piccinciàlle (Antonio De Filippis), che cantava solo di
controcanto, l'attivissimo Ennio Di Pierro, Augusto Iezzi,
Rocco Martelli, Cirese Antonio, Virgilio Cilli e tanti
altri, accompagnati dalla fisarmonica di Tonino
Mariscialle (Masciale). Indossavano tutti le cappe ed
abiti tradizionali, un vero tuffo nel passato,
insuperabili, sopratutto perchè cantavano il vero
Sant'Antonio, quello tradizionale, che al ritornello dice:
"Oh lemosina! Oh remite! Dateci a noi soccorso e aiuto,
fateci a noi la carità".
Vi fu l'esibizione di entrambi i gruppi, tra gli applausi
ed i complimenti reciproci e degli spettatori.
I due canti, potete ascoltarli qui:
Audio
Lu Sant'Antonie
(tradizionale)
interpreti "Gli amici della Pasquetta"
(Alla fisarmonica Ivo Balduzzi, alla chitarra Ergilio
Monaco ed al mandolino Fernando Sparvieri)
Il gruppo degli anziani.
Accosciati da sin.: Ennio Di Pierro, Tonino Masciale
alla fisarmonica, Lucio Ottaviano, al mandolino,
Olindo Palucci, al mandolino banjo, Zi Umberte De
Filippis, alla chitarra. In piedi in prima fila da
sinistra: Andrea Del Villano, Rocco Martelli, Virgilio
CIlli, Ntunine Piccinciàlle (Antonio De Filippis),
Leone Balduzzi con il violino. In terza fila da sin.:
Angiluccie (Angelo) De Nicolis, Gennarino Raspa
(Sant'Antonio), Ntunine Cirascille (ANtonio Cirese),
Amedeo Artese, Egidio Cilli, Angelo Longhi. In quarta
fila, da sin. Augusto Giustino Iezzi, Michele Ranalli,
Vitale Raspa, Igino Granata, SEbastiano Checchia e
Donato Corrado. Gli ultimi due in alto: da sin. Luigi
Iezzi, figlio di Augusto e Nicola Artese, figlio di
Amedeo.
Lu Sant'Antonie
(Parole di Evaristo Sparvieri e musica di Fernando
Sparvieri)
Interpreti Cantori bambini "Non solo musica"
- diretti da Lara Molino
Il gruppo dei giovani.
Da sin. in piedi: Fernando Sparvieri, Michele Molino,
Sante Mincone, Gino Cacchione, Tonino Longhi
(Sant'Antonio), Nicolino Longhi, Nicolino Faraone
"Mazzemarelle (il diavolo), Ivo Balduzzi, Enrico
Malatesta, Vito Cilli, Lino Checchia, Ennio
Ciccotosto, Michele De Filippis. Accosciati da sin.:
Vitale ALfonso Franciotti, Diego Longhi (mascotte),
Fernando Malatesta, Ergilio Monaco, Osvaldo Menna,
Nicola Iannace, Vincenzo Monaco, Luciano Cilli, Cesare
Giampietro.
Nell'ascoltare l'interpretazione di Balduzzi & C.
restai letteralmente incantato dal Sant'Antonio
tradizionale, quello dei nostri avi, che finalmente avevo
ascoltato. Mi impressionò, sin dalle prime note, la sua
linea melodica (l'arie), semplice e soave,
supportata da uno sviluppo armonico facile, che portava
magicamente indietro nel tempo, facendomi rivivere con la
fantasia un' epoca che avevo vissuto da bambino, appena
assoporata e poi svanita con l'arrivo
dell'industrializzazione negli anni '60.
Balduzzi ed il suo gruppo furono invece entusiasti del
nuovo canto, decantandone la linea meolodica ed il tema,
molto simile negli argomenti ai canti del Sant'Antonio di
molti paesi vicini, in cui si racconta dell'eterna lotta
tra il Santo ed il diavolo.
Negli anni successivi i due gruppi, uno definito quello
dei giovani e l'altro degli anziani, prima di fare il giro
ognuno per le case prestabilite, continuarono ad
incontrarsi in Piazza Giovanni XXIII, ciascuno con il
proprio canto, richiamando un pubblico sempre più
numeroso. Gli "anziani" continuavano ad indossare le
tradizionali cappe. I "giovani", invece, continuarono a
sfilare sempre vestiti da frati, mentre recitavano litanie
tra il sacro ed il profano di cui ne era stato l'autore
Michele Molino.
Anche la scenografia veniva ogni anno mutata. Un anno i
frati arrivarono in piazza tutti sul ribaltabile del
camion di Egidio Cilli, guidato dal figlio Luciano, che
funse anche da palco per le esibizioni.
I due grupppi, quello dei
giovani e degli anziani, in una foto ricordo al
ristorante Palladio, in Via Grasceta, dopo aver
cantato il Sant'Antonio. Nella foto, in terza fila,
sono ritratti anche i fratelli Angelo, Antonio e Vito
Ialacci, classici interpreti di canti popolari
folcloristici locali, insieme all'altro fratello Dichidóre
(Teodoro), anch'egli nella foto nell'ultima fila in
alto al centro con il borsalino. In terza fila, il
primo a destra è invece Mario Ialacci, primogenito di
Dichidore.
I due gruppi, sempre in amicizia e senza alcun spirito di
rivalità, qualche anno dopo si fusero per partecipare a
festival regionali organizzati in altri paesi della
Regione (primo fra tutti quello di Loreto Aprutino), ove
cantavano entrambi i canti.
Dopo queste esperienze fuori terra e sull'onda
dell'euforia, Tonino Longhi ed altri amici del gruppo dei
giovani, decisero di organizzare anche a San Salvo la
prima rassegna regionale del Sant'Antonio, che si svolse
al Cinema Odeon, invitando a partecipare cantori
dell'intera Regione.
Fu così che nacque la Rassegna Regionale del Sant'Antonio,
oggi patrocinata oggi dal Comune di San Salvo.
I due gruppi continuarono a partecipare insieme a numerosi
festival del Sant'Antonio che si svolgevano sopratutto nel
pescarese, oltre a partecipare alle rassegne regionali
organizzate principalmente da Tonino Longhi all'Odeon di
San Salvo.
Il festival raggiunse fama regionale suscitando
l'interesse di TVL, una delle prime televisioni private,
emittente Abruzzese con sede in Lanciano, che venne a
registrare al Cinema ODEON l'intera manifestazione,
trasmessa poi in differita, con diverse repliche, di cui
posseggo una registrazione in pessimo VHS (fa le
furmucàlle).
L'ingresso al cinema Odeon
del gruppo dei cantori sansalvesi durante il 1°
festival del Sant'Antonio.
Il gruppo sansalvese
durante l'esibizione all'Odeon. Da sin. Gabriele
D'Alfonso (nella foto non inquadrato totalmente),
Alfonso Monaco, Rocco Martelli, Antonio Cirese, Nicola
Iannace, Vito Cilli, Osvaldo Menna, Lino Checchia,
Gino Cacchione seminascosto, Fernando Malatesta.
Felice Tomeo, presentatore
della prima edizione del Festival Regionale del
Sant'Antonio, dona una targa ricordo ai cantori
sansalvesi, riuniti in un unico gruppo e tutti vestiti
con le tonache. Da sin. Fernando Sparvieri, alle sue
spalle si intravede Ivo Balduzzi, seminascosto
Gabriele D'Alfonso, Enzo Marzocchetti, Alfonso Monaco,
Loriano Raspa, Tonino Longhi, seminascosto Ennio Di
Pierro, Rocco Martelli e Antonio Cirese.
Ma come avviene nella vita, in cui ogni cosa ha un inizio
ed una fine, un giornò l'armonia nel gruppo dei giovani si
ruppe.
Colpa di un maialino, o meglio di una vicenda che
coinvolse un maialino.
A Tonino Longhi, che era l'organizzatore principale, era
venuto in mente già da qualche anno di estrarre a sorte
alla fine del festival, tra tutto il pubblico partecipante
alla manifestazione, un porcellino vivo, che veniva
acquistato a Marie panattìre (Mario Artese),
figlio del panettiere Nicolino Artese, che non aveva
seguito le orme paterne, mettendosi a fare l'allevatore di
maiali nelle vicinanze del cimitero.
Quell'anno la manifestazione si svolse nella sala
consiliare del Comune, tutta illuminata come una cassa
armonica e gremita di pubblico, in quanto i due cinema di
San Salvo, l'Odeon ed il Biagino, avevano entrambi chiuso
per sempre i battenti.
Fuori nevicava.
La sorte volle che nessuno risultò vincitore del maialino
in quanto il possessore del numero estratto forse era già
andato via.
E qui successe l'impensabile.
Il dilemma era: "Chi si sarebbe preso cura del maiale?".
Qualcuno pur se lo doveva riportare a casa quel maialino,
che attendeva fuori, all'adiaccio, sotto la neve.
Si era fatto davvero tardi, molti erano già tornati a
casa, ed il maialino era ancora lì, in P.zza Papa Giovanni
XIII, che grugniva legato con una corda ad un albero
vicino al Comune, mentre gli organizzatori, sotto la neve,
che fioccava, non riuscivano a trovargli una sistemazione.
Si fece avanti a questo punto Nicolino Longhi, che lo
caricò nella sua 500 FIAT e se lo riportò a casa,
rinchiudendolo dentro un bagno del garage.
L'idea era quella che dopo qualche giorno sarebbe finito
in porchetta, in una cena collettiva.
Trascorse una quindicina di giorni e tutti parevano
essersi dimenticati del maiale, ad eccezione di Nicolino
Longhi, che ogni tanto diceva: "Ue' canda ze l' àmà
magnà chu lu purcitelle?" (Amici, quando vogliamo
mangiarlo quel maialino?)
La domanda di Nicolino era pertinente.
Una sera, infatti, mi telefonò Tonino Longhi, dicendomi
che Rosetta, la moglie di Nicolino, era imbufalita perchè
quel maialino, oltre a grugnire notte e giorno ed a dover
essere accudito, z'ave' magnate la pórte de lu
habbenàtte de lu cáraggie (aveva rosicchiato la
porta del bagno del garage) ed il povero Nicolino era in
crisi matrimoniale.
Bisognava farlo fuori urgentemente, anzi lo avevano già
fatto fuori, e mi invitava a cena a base di porchetta a
casa di Nicolino. Gli chiesi:" E gli altri?".
Mi rispose che data la ráje (l'ira) di Rosetta e
lo scarso tempo a disposizione per organizzare una cena
collettiva in un ristorante, avevano deciso di rinviare a
data da destinarsi il pranzo ufficiale con tutti gli
altri, naturalmente dopo aver riascquistato a loro spese
un maialino.
Intuendo la reazione degli altri miei amici, anche perchè
ero io che fungevo da collante tra di loro, pur
comprendendo le loro ragioni, non partecipai a quella cena
e ci rimasero male.
Ciò che temevo, il giorno dopo si avverò.
Il giorno seguente, infatti, com'era prevedibile, si
sparse la notizia fra gli altri componenti del gruppo, che
pur restando a pancia vuota, non digerirono.
Fu la goccia che fece traboccare lu trócche (il
trogolo).
"Z'hanne frichiti lu purcìtélle" (si son fregati il
maialino), fu il ritornello finale di quel Sant'Antonio.
Non riuscirono mai a chiarirsi tra di loro i miei amici e
quel maialino, finito in porchetta, mangiato solo da una
parte del gruppo, fu l'inizio della fine delle rassegne
regionali del Sant'Antonio a San Salvo, nonostante Tonino
Longhi , Gino Cacchione e Fernando Malatesta continuarono
ad organizzarne alcune per qualche anno.
L'armonia si era rotta.
La verità probabilmente, sta nel fatto, che i tempi
stavano mutando e che la società, in quegli anni di
benessere, si stava già avviando verso la mentalità
attuale, in cui è sempre più difficile comprendersi, tra
personalismi, mancanza di umiltà e voglia di protagonismo.
Per fortuna, da qualche anno la rassegna regionale del
Sant'Antonio è tornata in auge.
Dopo alcune rassegne organizzate anni dopo dal Centro
Cultutale di San Salvo, si è fatto promotore
dell'iniziativa il gruppo New Generation (Pro-Loco), fra
cui, consentitemi di citarlo, spicca il nome di Sandro
Cacchione, figlio del compianto amico Gino, fra i fautori
delle prime manifestazione. Sandro, all'epoca bambino, era
la mascotte del gruppo, insieme a Diego Longhi, indossando
entrambi un piccolo saio da "municiarélle". E'
proprio vero che chi ben semina ben raccoglie.
Prima di concludere un'ultima notazione sul canto del
Sant'Antonio, o meglio sui canti.
Il canto Sant'Antonio, che per un trentennio, dagli anni
'50 agli '80, era sparito totalmente dalla circolazione, è
passato in questo primo decennio del duemila da una fase
di deflazione ad un'altra di inflazione.
La sera del 16 gennaio, infatti, sono molte le versioni
che si sentono in giro per le vie del paese, scritte da
vari autori, compresa qualcuna in cupellese.
Anch'io ne composi una, per il motivo che vi ho
raccontato.
Forse perchè sono un amante della tradizione pura ed
autentica, un po' me ne pento per essere stato il primo ad
aver dato inizio a questo "inquinamento" del folclore del
Sant'Antonio, che coinvolge la quasi totalità delle
tradizioni, sempre più spesso adattate ai tempi.
La tradizione, per essere tale, credo che debba sempre
essere il più fedele possibile alle origini. E'
inconcepibile, ad esempio, che con la brace del fuoco di
San Tommaso ci si cuociano le salsiccie, confondendo il
sacro con il profano.
Forse sarà questo il motivo per cui, l'unico Sant'Antonio
che riesce ancora ad emozionarmi, la sera del 16 Gennaio,
è quando ascolto quello classico che cantavano i nostri
padri, che al ritornello faceva: "O lemosine! O remite!
Dateci a noi soccorse e alliere (sollievo) e
fateci a noi la carità".
Il resto "l'è tutto sbagliato... l'è tutto da rifare",
diceva Gino Bartali.
Fernando Sparvieri
I racconti di Fernando Sparvieri
Indice Gente, usi e costumi del mio paese
Un libro sul web MA CHI SAREBBERO LI SALVANESE
di Fernando Sparvieri
Indice I forestieri a San Salvo
I racconti del mare
I pionieri del mare ed altro
di Fernando Sparvieri Indice Emilie de Felicìlle
(Emilio Del Villano)