di Fernando Sparvieri
I colpi di martello del
fabbro che risuonavano sull’incudine, il ticchettio del
martello del calzolaio sulle mezze suole delle scarpe, lo
sfregare della sega del falegname su ruvidi pezzi di
legno, i colpi secchi d’accetta per spaccare la legna, gli
zoccoli ferrati dei cavalli che si infrangevano sui
selciati: erano questi alcuni rumori quotidiani di una San
Salvo d’altri tempi, che frammisti al cinguettio dei
passeri ed al garrire frenetico delle rondini a primavera,
davano vita quotidianamente ad una specie di concerto in
cui l’uomo e la natura scandivano all’unisono i tempi dei
giorni e delle stagioni.
Ve ne era uno, però, di rumore, assai diverso: un “bum
bum... bum bum...” che riecheggiava nell’aria ad una certa
ora della giornata, sopratutto d’estate, nel silenzio a
volte assordante di P.zza San Vitale. Somigliava molto al
suono di una grancassa: colpi di tamburo che si ripetevano
ad “libitum”, per minuti e minuti, con un ritmo cadenzato.
Per un po' smetteva e poi di nuovo ricominciava.
Era Don Rolando Cirese, affettuosamente chiamato dai
sansalvesi
Do’ Rolande la póste, direttore
all’epoca dell’ufficio postale di San Salvo, che timbrava
le lettere e cartoline in arrivo ed in partenza.
Con quel suo timbro, che era un bel timbrone… grande, con
l’impugnatura di legno e la parte timbrante in metallo,
Do’ Rolande, battendolo con forza, una volta sul tampone
dell’inchiostro ed un’ altra sul documento, dava vita a
quella specie di suono, amplificato dal bancone su cui
lavorava, che fungeva da cassa armonica.
Quando sentivo quel suono, io, forse perché già da bambino
avevo il ritmo musicale nel sangue, mi accostavo alla
porta d’ingresso della Posta e furtivamente osservavo.
Do' Rolande, con le mezze maniche nere alle braccia,
scorgendomi mi lanciava uno sguardo indifferente e poi
ricominciava. A dire il vero Do’ Rolande era un po’ lento,
anche con il timbro. Come tutti i Cirese se la prendeva un
po' comoda.
Donna Mari' (donna Maria), invece, sua moglie,
impiegata allo stesso ufficio, era decisamente più
dinamica, anche quando toccava a lei timbrare. Scorgendomi
mi sorrideva e mi invitava ad entrare.
Era una coppia perfetta. Si compensavano a vicenda.
Do’
Rolande era un po’ taciturno e bisognava quasi
sficcargli qualche parola dalla bocca per udire la sua
voce, mentre
Donna Mari', appartenente alla
famiglia dei Labrozzi, con un portamento da gran signora,
era prodiga di consigli e di sorrisi nei confronti di chi
le chiedeva informazioni. Dava loro una mano, nel senso
che era impiegata allo stesso ufficio, la signora Evelina
Cirese, sorella di
Do’ Rolande, che era sposata
con il maestro Enrico Maiarota, trasferitasi
successivamente con la famiglia a Chieti, dove diresse un
ufficio postale.
L’ufficio postale di Piazza San Vitale, l’unico che c’era
a quei tempi, ed era già troppo, si trovava dove oggi vi è
il Bar di Osvaldo “Il quadrilatero”. Era una casupola a
pian terreno, esternamente dipinta con una tinta
giallastra. Su una parete esterna, quasi sopra la porta, a
mò di bandiera, campeggiava la famosa insegna circolare
gialla con la scritta blu “PT - Poste”. Su un’altra
parete, invece, incassato nel muro, vi era l’imbucatoio in
metallo rosso scolorito.
Il suo interno somigliava un po' a quegli uffici postali
che si vedono in certi films del Far West: vi era un
pavimento rialzato con tavolacci che scricchiolavano sotto
i passi, un bancone con il vetro per ricevere il pubblico,
qualche scaffale, un telegrafo seminascosto, una stufa per
riscaldarsi d’inverno, alla cui accensione era addetta la
freddolosa signora Evelina, e.. qualche berretto da
postino, buttato lì su un tavolo, sopratutto d’estate.
E sempre d’estate, quando la finestra era aperta per il
caldo, da quell’ufficio fuoriuscivano all’esterno altri
piccoli rumori che destavano la mia curiosità di bambino.
All’improvviso, in orari non prestabiliti, si udiva un
ticchettio, simile a colpi dati da un picchio sulla
corteccia di un albero o a piccoli colpi di bacchetta
sull’orlo in metallo del rullante della batteria, che si
impadroniva del silenzio di Piazza San Vitale.
Era un aggeggio, che poi seppi, quando divenni più grande,
che si chiamava telegrafo.
Era sempre
Dò Rolande che se ne occupava. Ricordo
che con il dito medio dava dei colpetti su un tasto
producendo un ritmo a volte regolare ed altre sincopato,
come crome tra semiminime e biscrome tra crome. Altre
volte, invece, all’improvviso quell’aggeggio si metteva,
come per magia, in azione da solo.
Finito il ticchettio,
Do’ Rolande, serio serio,
senza mai scomporsi, si faceva scivolare tra le dita delle
lunghe striscioline di carta, arrotolate su se stesse, che
erano fuoriuscite dall’apparecchio. Poi, con una calma
serafica, prendeva un foglietto di carta gialla, vi
scriveva sopra con una penna stilografica, chiamava il
postino e gli diceva di portarlo a casa di qualcuno. Era
il telegramma.
Anche i postini di quei tempi avevano per me bambino un
non so che di artistico e di musicale. Mi ricordavano la
banda che veniva alla festa di San Vitale. Indossavano una
divisa color canna di zucchero, con un berretto da
bandista con uno stemma che raffigurava, guarda caso, una
trombetta.
In quell’ufficio vi lavoravano due postini ed erano
entrambi simpatici. Uno si chiamava Vitale Pellicciotta,
persona seria e ligia al dovere, l’altro invece si
chiamava Luigi Torricella, detto
Luegge Capàune,
un brav’uomo robusto e grosso, rosso di carnagione, con
due occhi intelligenti che apparivano piccoli nel suo
faccione, che aveva sempre la battuta pronta. Con le loro
divise non incutevano in noi bambini nessun timore, al
contrario dei carabinieri alla cui vista, da lontano,
scappavamo per timore che ci portassero alla casa di
correzione.
A modo loro, anche i postini, erano dei suonatori:
suonavano a quei pochi campanelli che c’erano nelle case o
a lu tuzzuluátàure (al bussatoio). Quando il
campanello invece non c’era, con le nocche delle dita
indice e medio, davano due colpetti secchi “toc toc” alle
porte dicendo “posta!!!”
Forse perché ogni bambino percepisce delle sensazioni
diverse da quelle dei grandi, quell’Ufficio Postale, che
era un luogo serio ed istituzionale, per me era un luogo
ludico e di armonia, e non solo musicale.
La gente vi si recava per lo più quando non andava in
campagna e qualcuno, entrando, si toglieva persino il
cappello. Eravamo all'incirca 4.000 anime. Si sostava
volentieri e rispettosi al cospetto di Don Rolando e Donna
Maria. Non vi era la fila per riscuotere le pensioni,
perché le pensioni non c’erano; non si effettuavano decine
e decine di versamenti, perché c’era poco da versare; non
si era insofferenti nell’attesa allo sportello perché
spesso non si sapeva dove andare; non vi era l’ansia di
riscuotere, perché non vi erano molti soldi da ritirare.
Oggi invece il tempo è denaro, la vera musica che risuona
nell’ufficio postale.
Ognuno è figlio del suo tempo.
Ai tempi di
Do’ Rolando e Donna Maria, vi erano
altri ritmi ...
Era tutta un’altra musica.
Fernando Sparvieri
L'ultima foto di Don
Rolando Cirese dentro il suo Ufficio Postale.Qualche
ora dopo (inizi anni '60) il tetto dell'edificio
crollò. Per fortuna il crollo avvenne nelle ore
notturne. Successivamente venne ricostruito un nuovo
edificio in Via G. de Vito.
Sposi 31 Ottobre 1957:
'Ntonie de Carruzzire (Antonio Fabrizio) e Olga
Ilda Enelda Fabrizio, durante il ritorno a casa dopo
il rito religioso in chiesa in P.zza Municipio (ora
P.zza San Vitale). Intorno agli sposi i bambini alla
caccia dei confetti dopo aver gridato fumì! Sullo
sfondo è visibile a destra il vecchio ufficio postale,
al cui posto oggi vi è il Bar del Quadrilatero, mentre
sulla sinistra la casa di Tumassine Russo , la prima
ad essere demolita per allargare la piazza, che era
ubicata proprio dinanzi alla vecchia torre campanaria
ed all'ingresso della Chiesa di San Giuseppe.
Donna Maria Labrozzi e Don
Rolando Cirese, ritratti durante un matrimonio.