Don Cirillo Piovesan
(Il prete con la tonaca)
di Fernando Sparvieri
Non ricordo bene se l’ultima volta che vidi Don Cirillo
Piovesan avesse o meno la tonaca.
Lo vidi improvvisamente arrivare disteso su una barella la
sera del 3 dicembre 1995 al reparto di chirurgia al 3° piano
dell’Ospedale Civile di Vasto, nella stessa cameretta dove era
ricoverato, grave, mio suocero Carmine Padula.
Quell’uomo sulla barella era proprio Lui, Don Cirillo.
Era stato colpito improvvisamente da un problema all’aorta e
lo avevano trasportato d’urgenza all’Ospedale di Vasto.
Mi avvicinai e cercai di confortarlo.
Era sereno, forse come non l’avevo visto mai, quasi
sorridente.
Restò pochissimo sdraiato su quel letto d’ospedale;
all’incirca un quarto d’ora. Dopo un po' lo caricarono di
nuovo su una barella per trasferirlo d’urgenza all’Ospedale di
Ancona.
Lo accompagnai sino all’ascensore e lo salutai dicendogli:
“Arrivederci Don Cirillo! Ci rivedremo a San Salvo”.
Mi guardò e sorridendo, con il crocifisso tra le mani, con la
sua voce robusta dall’accento veneto, mi rispose: “No
Fernando! Ci rivedremo in Paradiso!”.
Dopo un po' arrivò in Ospedale Monsignor Menichelli, all’epoca
Arcivescovo di Chieti e Vasto, che appresa la notizia si era
precipitato al suo capezzale, ma non fece in tempo a rendergli
omaggio. Gli raccontai di quel triste ed inaspettato incontro
avuto con Don Cirillo e di quel suo ultimo augurio di
rivedermi in Paradiso.
Il giorno dopo Don Cirillo volò in cielo, in quel Paradiso che
chissà quante volte in vita sua aveva pronunciato nelle sue
prediche.
Resta un mio grande rimpianto quello di non aver potuto
partecipare al suo funerale, non averlo potuto accompagnare
verso il suo ultimo viaggio: io che una volta, da bambino, lo
avevo accompagnato, insieme ai miei genitori, in un suo
viaggio di sola andata verso il suo paese natio, che doveva
essere senza ritorno verso San Salvo.
Non partecipai al suo funerale in quanto mio suocero era
gravissimo ed infatti dopo qualche giorno volò anch’egli in
cielo.
Appresi tuttavia che durante il funerale, che si svolse in
modo solenne nella Chiesa di San Giuseppe, dove le sue spoglie
vennero vegliate dai fedeli, Monsignor Menichelli,
nell’omelia, raccontò agli intervenuti di quelle ultime parole
e di quell'augurio che Don Cirillo rivolse a un compaesano,
che ero io.
Forse sono stato l’ultimo sansalvese a vedere in vita Don
Cirillo Piovesan, il prete di San Salvo, il mio prete, il
prete che mi ha battezzato 59 anni fa, mi ha dato la prima
comunione, mi ha unito in matrimonio, ha battezzato i miei
figli.
Si racconta che Don Cirillo arrivò da Carpineto Sinello nel
1945 sul dorso di un asino. Qualcuno sostiene invece su un
carretto.
A me piace immaginare che giunse sul dorso di un asino e che
appena disceso si caricò sul suo dorso l’educazione religiosa
e spirituale del popolo sansalvese.
Non ebbe vita facile Don Cirillo a San Salvo.
Negli anni dell’immediato dopo guerra, la lotta politica nella
nostra San Salvo era aspra, così come nel resto della
penisola.
I democristiani e comunisti si potevano vedere come cani e
gatti: erano gli anni così bene raccontati da Giovannino
Guareschi in “Don Camillo e Peppone”.
Don Cirillo, logicamente era democristiano.
Mio padre, che era suo amico intimo, mi raccontò che una sera
si fermò una macchina proprio alla curva a ferro di cavallo
tra Via Roma e C.so Umberto I e l’autista gli chiese dove
abitasse il prete. Mio padre, che era iscritto all’Azione
Cattolica, gli rispose che era un amico di Don Cirillo e fu
allora che quell’autista gli consegnò un pacco di manifesti
dicendogli di consegnarli al prete: erano i primi manifesti
della Democrazia Cristiana, partito di cui sino a quel momento
se ne ignorava l’esistenza.
Don Cirillo, con i giovani dell’azione cattolica, si prodigò
immediatamente a formare il partito della Democrazia Cristina
e questa sua iniziativa, indubbiamente venne sempre mal
digerita dalla fazione politica contrapposta, i comunisti, che
per lungo tempo non glielo perdonarono.
Don Cirillo, sempre da ciò che mi raccontava mio padre, aveva
una forza fisica incredibile.
A braccio di ferro batteva tutti.
Una volta però perse. Iniziò un lungo braccio di ferro con i
“nemici” comunisti, tacciati di materialismo ed ateismo, che
nel corso degli anni sfociò in vari scioperi contro di lui per
mandarlo via. Prima lo accusarono di fare sermoni in chiesa
che somigliavano molto a comizi, poi di aver mandato via le
suore missionarie Comboniane.
A dire il vero, sotto sotto, durante lo sciopero per le suore,
anche qualche democristiano faceva buon viso a cattivo gioco,
soffiando di nascosto sui carboni accessi dai compagni
comunisti. Taluni di essi, alla presenza di funzionari della
polizia di Scelba, che erano giunti per capire l'entità della
contestazione, colsero la palla al balzo, mischiandosi, subito
dopo la messa, al coro rosso dinanzi alla chiesa, suscitando
immediatamente lo stupore e la reazione dei comunisti, che
accorgendosi che stavano facendo il gioco di una fazione della
controparte, per tutta risposta cambiarono registro, iniziando
a gridare viva Don Cirillo.
A parte questa inaspettata alleanza, che forse lo salvò, fatto
sta che restavano sempre loro, i compagni comunisti, i veri
"nemici" da battere. I tasti, da ambo i lati, battevano sempre
sulla stesse note ed a Don Cirillo non mancava il coraggio di
determinate azioni per il suo partito. Prendeva solo qualche
precauzione.
Ad esempio, negli anni del dopoguerra, essendo un prete, non
potendo direttamente partecipare a le cuntradditúrie (ai
contradditori), una specie di tribune politiche in piazza, in
cui oratori di fazioni avverse si contrapponevano in pubblico
in botte e risposte da balconi, egli ascoltava ed interveniva
all'improvviso da una finestra di una casa privata.
Famoso resta un contraddittorio con l'avv. Arnaldo Ciavatta,
figlio di Don Antonio, monarchico, che predicava dal balcone
della famiglia Cilli, vicino l'Arco della Terra. Ad un tratto,
Don Cirillo, a mezzo busto, lo interruppe da una finestra del
piano terra de la casa de Pingichette (soprannome di un ramo
della famiglia Cilli), che abitava in un edificio dirimpetto,
demolito sul finire degli anni '60 per allargare la piazza,
iniziando un lungo contraddittorio, tra gli applausi ed il
disappunto delle parti contrapposte.
Insomma Don Cirillo, in poche parole, non si faceva,
specialmente per i compagni comunisti, propriamente i cavoli
suoi, anche se tutto il clero italiano era a quei tempi sulla
sua stessa lunghezza d'onda perchè così voleva il Vaticano.
Apriti cielo, ad esempio, quando, un bel giorno, un
altoparlante iniziò a trasmettere nell'etere canzoni e
propaganda politica democristiana dalla casa canonica.
Incolparono subito lui anche se in realtà ad installarlo pare
sia stato Doruccio Artese, giovane democristiano e condomino
di Don Cirillo, che abitava nello stesso stabile.
Erano quelli i tempi in cui entrambi i partiti avevano
comprato un autoparlande (un altoparlante), una novità per
l'epoca, e, come in una specie di primitiva radio privata,
oltre a trasmettere canzoni, se ne dicevano di tutti i colori,
spesso arrivando a pesanti offese reciproche personali.
Il fatto poi che Don Cirillo avesse aperto un locale
cinematografico, nato clericale, ma poi divenuto cinema
privato a tutti gli effetti e che, sempre nel palazzo in cui
vi era la casa canonica, la D.C. vi aveva instituito un
circolo giovanile Libertas, in cui vi erano un bigliardino ed
altri svaghi per i giovani, mandava su tutte le furie i
compagni comunisti, che lo ritenevano il regista occulto di
molte iniziative democristiane e quindi responsabile di
ingerenze nell'attività politica locale.
Questi suoi comportamenti, nel corso degli anni, crearono
quindi delle vere e proprie ruggini con i nemici politici, e
fu così che negli anni '60, si ripresentò una nuova occasione
per farlo seriamente fuori.
Il 20 Aprile del 1964, una folla roboante ed inferocita, si
radunò dinanzi alla chiesa di San Giuseppe, ed iniziò a
contestarlo aspramente accusandolo questa volta di aver
cacciato il giovane viceparroco Don Beniamino. Intervennero
circa 50 carabinieri per sedare gli animi e ci furono anche
incidenti. Alla sera la stessa folla si trasferì nell’attuale
Piazza Giovanni XXIII, dinanzi la casa canonica dove abitava
Don Cirillo, (casa ora demolita e ricostruita negli anni '70
nel palazzo in cui vi è attualmente la Farmacia Di Croce). Don
Cirillo fu costretto ad asseragliarsi dentro, mentre la folla
fuori vociava in modo minaccioso.
A pensarci oggi chissà cosa passò per la mente di Don Cirillo
quella sera: chiuso in casa, da solo, abbandonato anche dai
suoi stessi amici che in quella circostanza si comportarono
forse come San Pietro quando sentì per tre volte il canto del
gallo durante la Via Crucis.
Dopo qualche giorno Don Cirillo fu costretto a tornarsene a
Mussolente, in provincia di Vicenza, suo paese natio. Fu mio
padre che con il suo 1100 nero lo accompagnò alla stazione
ferroviaria di Termoli. Ad accompagnarlo in quel viaggio
prenotato in sola andata c’ero anch’io, piccolo, e mia madre
Lidia Napolitano, di famiglia d’origine comunista, che
nonostante non fosse mai stata una praticante cattolica, quel
giorno pianse, coinvolgendo anche me nelle sue lacrime, alla
vista di un uomo costretto alla fuga, non più padrone del
proprio destino.
Dopo qualche tempo i suoi amici, con in testa mio padre, si
riorganizzarono e fecero una raccolta di firme pro Don Cirillo
che convinse il Vescovo a farlo tornare a San Salvo (conservo
una lettera che mio padre scrisse a Don Cirillo durante la sua
assenza in cui lo informava degli sviluppi degli eventi).
Don Cirillo dopo qualche mese tornò in un clima di incertezza
e di tensioni.
Mio padre mi raccontò che la mattina seguente al giorno del
suo ritorno, Don Cirillo si alzò di buon ora e percorse i
pochi metri che separavano la casa canonica dalla chiesa,
passandò fra i principali organizzatori dello sciopero, che
l'aspettavano seduti su delle sedie dinanzi al portone della
chiesa, che si limitarono solo a scrutarlo con occhi
indisponenti.
Non successe nulla.
Don Cirillo era tornato e da quel giorno non andò più via da
San Salvo, affievolendo comunque notevolmente il suo impegno
politico, anche se restò sempre dietro le quinte.
Forse come nei racconti di Don Camillo e Peppone, fra le due
fazioni, vi era stato solo un apparente rapporto di disistima
e antipatia reciproca dovuta alla lotta politica, anche se a
me piace pensare che forse entrambi gli schieramenti si resero
ad un certo punto conto di aver esagerato, anche perché
facevano lo stesso ragionamento: tutti ambivano al bene ed al
progresso sociale della nostra San Salvo.
Da quel giorno Don Cirillo con la sua tonaca ed il cappello a
“treppezze” (berretta o tricorno a tre punte) , non smise più
di percorrere la strada che separava la casa canonica alla
Chiesa di San Giuseppe.
In 50° anni di missione ecclesiastica avrà celebrato migliaia
di messe. Non vi è cittadino di San Salvo di una certa età che
non abbia ricevuto da Lui almeno un sacramento.
Nel corso del suo cinquantennio di permanenza a San Salvo,
come parroco, ha accompagnato con la sua tonaca migliaia di
nostri concittadini al cimitero.
Non smise mai di farlo, anche da vecchio prete, quando seduto
dentro il carro funebre accanto al conducente, sempre con la
sua tonaca divenuta con gli anni come Lui un po' malandata,
non ha lasciato mai nessuno da solo verso l’ultimo viaggio
terreno.
Io, non sono mai stato un chierichetto, anzi..., ma ho voluto
scrivere questa pagina dedicata a Don Cirillo, perché egli,
oltre a svolgere la sua missione pastorale, a mio avviso, con
i suoi pregi ed anche i suoi difetti, ha contribuito, in modo
diretto ed incisivo alla crescita ed allo sviluppo sociale ed
economico della “Sua” San Salvo.
San Salvo deve molto a questa figura di religioso.
Ed in conclusione, tornando a quella sera del 3 Dicembre 2005,
quando lo vidi per l’ultima volta disteso su una barella, non
ricordo bene se Don Cirillo avesse o meno la tonaca.
Forse non l'aveva o... forse sì.
Per me l'aveva: quella sera che con il crocifisso tra le mani,
mi augurò il Paradiso.
Fernando Sparvieri
20 Aprile 2012