Andrea Ciavatta
(alias
'Ndriúccie lu teléfene)
di Fernando Sparvieri
(Andrea Ciavatta)
“Uè giuvunò! Ca so’ gnùrante e
n' tìnghe la scóle va bbune! Ma ca tu mo me vu' fa cràde ca
pétrete sta dàndre a ssà casciàtte!!!” (trad.
Giovanotto! Che io sia ignorante è risaputo! Ma che tu voglia
farmi credere che tuo padre è dentro quella cassetta, non me
la dai proprio a bere!!!).
La cassetta in questione era un primitivo telefono, simile a
quelli che si vedono appesi ad un muro in certi films di
gangsters americani degli anni trenta, mentre la suddetta
frase era la battuta finale di una storiella molto nota a San
Salvo negli anni anteguerra, che tanto faceva sorridere i
sansalvesi.
Adesso ve la racconterò.
Si racconta che un falegname sansalvese si recò un giorno a
fare spese in un negozio di un grossista di legnami a Vasto
per comprare del materiale per la sua bottega. Avendo trovato
nel negozio il figlio del grossista, gli chiese di chiamare il
padre. Il figlio sollevo' la cornetta e dopo aver parlato con
il genitore, disse al falegname di attendere qualche minuto
che suo padre sarebbe arrivato di lì a poco.
Da lì la risposta del nostro falegname, che non avendo mai
visto un telefono, si sentì preso in giro.
La storiella da poco raccontata me ne ricorda molto da vicino
un'altra, quella de Za' Treséne (zia Teresina) che era
una mia zia avendo sposato il fratello di mio nonno, la quale,
un giorno a casa mia, quando mio padre acquistò negli anni '60
il primo televisore (un Magnadyne 23 pollici), mi chiese: " Ma
chesse mo' a ni j váde? (Ma questi signori in
televisione ci vedono?), aggiungendo: "A la televisione di
Italìne aéscene cirte bille signorine! Pure aecche?" (Al
televisore di Italino, che era il figlio, escono certe belle
signorine! Anche in questo?).
Tornando alla prima storiella, cioè a quella del telefono a
muro, evidentemente a quei tempi, nonostante Meucci, fosse già
morto da un pezzo, vi era ancora molta gente che ne ignorava
l'esistenza.
D'altronde, in un’epoca in cui persino gli orologi
scarseggiavano ed il tempo era scandito dal sole e dai
rintocchi delle campane, il telefono era fuori dal tempo e da
ogni logica. Ricordo, ad esempio, che quando Virgilio Cilli,
che aveva la stazione di servizio di carburanti in Via Roma,
negli anni '50 mise uno dei primi telefoni nel suo ufficio,
dirimpetto alle sue pompe di benzina, fu un avvenimento che
destò molto stupore. Il suo numero era il 17 che non gli portò
sfortuna affatto. Stesso stupore lo suscitò quando dotò lo
stesso ufficio di una macchina da scrivere "Everest" di color
verde e di una calcolatrice manuale beige che faceva solo le
addizioni e sottrazioni, entrambe della Olivetti.
Insomma, sino ai primi anni '60, a parte i soliti benestanti e
qualche antesignano dei tempi come il citato Virgilio, gli
abbonati alla SIP (Società Italiana per l'EsercizioTelefonico)
si potevano contare ancora sulle dita di una mano, e la gente
per scambiarsi notizie e saluti, continuava a scrivere lettere
e cartoline. Il mezzo di comunicazione più veloce era il
telegramma. Si andava all'Ufficio Postale, ci si toglieva il
cappello, e si diceva a Do' Rolande la póste (don
Rolando Cirese), che era il direttore dell' unico Ufficio
Postale che stava in piazza Municipio (attuale P.zza San
Vitale), di fare un telegramma, che però costava un accidenti.
Ma allora, certamente vi starete chiedendo, la gente in quegli
anni non telefonava?
Certo che telefonava, seppure ugne mórte de pape (ogni
morte di un papa, di rado).
C'era 'Ndriúccie lu teléfene.
‘Ndriuccie (Andrea Ciavatta), persona distinta e dal
portamento signorile, il miglior cantante di Sant'Antonio e
anche di Sante Sabbastijáne (San Sebastiano) che io
abbia mai sentito, era titolare dell'unica postazione di
telefonia pubblica del paese. Per questo motivo tutti lo
chiamavano 'Ndriúccie lu teléfene, che non era un
soprannome, ma un modo di dire, un rafforzativo del nome con
l'aggiunta del mestiere. Stessa cosa avveniva ad esempio per
il già citato Do' Rolande la póste, direttore
dell'Ufficio Postale, o Donn'Antonie lu ràfece (don
Antonio Vicoli, l'orefice), o mast'Andonie lu ferrare
(Antonio Castorio, fabbro). Persino Don Cirillo Piovesan, il
prete, veniva chiamato Don Cirille lu predde, anche se
non c'erano in paese altri preti o persone chiamate Cirillo,
tali da confonderle con lui.
Orbene ‘Ndriuccie lu telefene, che come già detto
gestiva l'unico posto di telefonia pubblica in paese, era
colui che faceva telefonare i sansalvesi. Aveva 'na cámere
de cáse (una camera), quasi all'imbocco di Via Savoia,
sulla destra, venendo da Via Fontana, e lì dentro vi era un
marchingegno rettangolare di fili ed una cabina telefonica.
Chi doveva telefonare si recava lì, parlava nghe 'Ndriúccie
lu teléfene (con Andrea) e telefonava.
Cosa diversa, invece, avveniva quando la chiamata era in
entrata.
Ndriuccie, ricevuta la telefonata, andava a casa di chi
era stato chiamato, bussava, e gli diceva che aveva telefonato
Tizio e Caio, avvisandolo che alle ore "tot" lo avrebbe
richiamato.
Ricevere una telefonata, a quei tempi, era qualcosa di
talmente raro e straordinario, che dopo un po' lo sapeva quasi
tutto il vicinato.
"Chisa' che sarà succésse!" (Chissa cosa sarà
successo). " Z'avute mure' cacchedìune! Sarà successe 'na
desgrazie?" (Sarà morto qualcuno? Sarà accaduta una
disgrazia), erano i presagi che affollavano la mente di chi
era stato chiamato.
"Ma nàune! N'è successe niscìuna desgrazie!" (Ma no,
non è successo nessuna disgrazia), diceva sempre qualcuno per
tranquillizzare. "S'avesse successe 'na desgrazie menève le
carabbenìre a la case" (Se si fosse trattato di una
disgrazia, sarebbero venuti a casa i carabinieri).
Non era facile a quei tempi gestire un posto di telefonia
pubblica. Bisognava stare lì tutto il giorno impalato, come un
piantone, in attesa che qualcuno telefonasse.
Ere chiu' la spàse che la 'mbràse (era più la spesa che
l'impresa), a significare che non si guadagnava nulla.
Tra l'altro dovevi essere anche un mezzo scienziato.
C'era un marchingegno rettangolare in legno, pieno di fili
colorati e tanti buchi ai quali bisognava infilare degli
spinotti. Per collegare la linea telefonica da un distretto ad
un altro, bisognava sficcare uno spinotto da 'na cavócchie
(da un buco) e infilarlo in un un'altro. Ad esempio se si
doveva telefonare a Milano, si infilava lo spinotto ad un
buco, se invece si telefonava a Napoli in un altro. Doveva
essere un deviatore di linee telefoniche.
'Ndriúccie svolse questa funzione con zelante
professionalità per diversi anni sino a quando, intorno agli
anni '60, non venne assunto dalle Poste, facendo servizio
dapprima a Milano, poi ad Ancona ed infine a Vasto.
La sua cabina telefonica passò a questo punto a Rosine de
Mertalàtte (Rosina Evangelista), che aveva 'na
puteche (un negozio) di alimentari in Via Savoia, quasi
dirimpetto alla postazione di 'Ndriúccie , la quale,
dovendo stare già in negozio, ebbe almeno la fortuna di non
stare lì ferma impalata, a fare la cazzàtte (la
calza), in attesa che qualcuno telefonasse.
Un fatto buffo avvenne qualche anno dopo quando la SIP iniziò
ad installare le prime cabine telefoniche nei bar del paese.
Uno dei primi fu lu bar de Felicille in Via Roma,
gestito da un giovane Emilio Del Villano, a due passi dal
distributore di benzina AGIP di Virgilio Cilli e dal Bar
Biondo. Un giorno sentirono sbraitare il povero Emilio perché
Zi' Cóle Delémpie, dopo essere entrato nella cabina
telefonica, vi cacò.
Chi era Zi' Cóle? Un anziano.
Insomma, sopratutto tra gli anziani, il telefono era un
oggetto misterioso, tant'è che qualcuno non lo adoperò mai, e
la gran parte della gente, pur avendone apprezzato con il
tempo l'utilità, si teneva alla larga, perché telefonare
costava troppo.
Anche quando, dopo qualche anno, con il sopraggiunto benessere
economico, qualcuno cominciò a metterlo in casa, non è che la
mentalità cambiò di molto: il telefono era bello da vedere,
una specie di status symbol per la famiglia che l'aveva, ma
era meglio tenerlo posato lì, come un soprammobile, ed usarlo
solo in caso di effettiva necessità. Il motivo era sempre lo
stesso: telefonare costava.
Una prima vera rivoluzione avvenne negli anni '70, quando la
SIP iniziò ad installare le prime cabine telefoniche a gettoni
per le strade del paese. Questi apparecchi, quando si chiamava
al di fuori del proprio distretto, ingoiavano gettoni più di
una slot-machine, ma in compenso, senza allargarci troppo, con
un solo gettone, si poteva chiamare a casa la propria ragazza,
ad un'ora concordata, facendo però attenzione che non
rispondesse il padre (ed era una cosa terribile), o la mamma.
Il telefono a gettoni fece la felicità di molti innamorati
legittimi ed illegittimi.
A ripensarci oggi, la cosa fa sorridere, ma era proprio così.
E chi l'avrebbe mai detto, all'epoca, che un giorno avremmo
passato ore ed ore con il telefonino in mano, a smanettare su
internet, a mandare messaggi, a fare fotografie, a postare
video e chi ne ha più ne metta... insomma a farci di tutto,
all'infuori di telefonare.
Come sono lontani i tempi di Ndriuccie lu telefene.
Per fortuna, oggi tutti possono permettersi di telefonare, con
internet sopratutto, anche in capo al mondo.
Si telefona, 'ngrazie a Dde', quando ci serve e quando
non ci serve: per strada, in autostrada (qualche volta
fuoristrada), sulla spiaggia, in bicicletta, mentre si mangia
e persino al bagno, l'unico posto in cui un tempo vi era la
vera privacy.
I bambini quasi quasi ci nasciene (ci nascono) con lo
smartphone in mano, ma anche gli adulti non scherzano. In ogni
famiglia ognuno ne ha due, tre a testa, sopratutto i
ragazzini, che ci parlano, ci giocano, si scambiano tra di
loro centinaia di messaggini, sovente in una lingua marziana
che nobilita l'italiano.
L ’uso della rete e dei social networks, ha ormai globalizzato
il mondo e con le video chiamate parli e vedi il tuo
interlocutore persino dalla Luna.
E che si vuole di più dalla vita.
Evviva la tecnologia digitale.
Vi è solo qualche controindicazione: bisogna fare attenzione
che la batteria non si scarichi, altrimenti si scarica
contemporaneamente anche il morale, perdendo momentaneamente
tutte le facoltà telefoniche e mentali.
Ed in quei momenti è meglio non scherzare.
Non sia mai dici per scherzo a qualcuno a cui si è spento il
telefono: "E 'ccáttete nu teléfene bbone" (comprati un
telefono buono). Se non si offende, nel migliore dei casi
resta sconcertato, e dopo un attimo di sbigottimento,
ripresosi dallo choc, ti spiega tutte le caratteristiche
tecniche del suo smartphone, sino a quando non ti dimostra che
ti eri sbagliato.
Oggi è davvero un altro mondo, anzi due: uno reale e l'altro
virtuale.
Quello reale, che Iddio ce ne scansi e liberi, fa schifo.
Bisogna lavorare (almeno per chi riesce a trovare un posto di
lavoro), e poi, come succede spesso litigare con il collega di
turno, con il proprio coniuge, o con il condomino, mentre
quello virtuale è bellissimo, perfetto, fatto di cortesia e
gentilezze, in cui regnano sentimenti nobili, come l'amicizia,
la solidarietà, la giustizia, l'amore.
Ed a proposito dell'amore.
L’altra sera sono andato a prendermi un caffè in un bar in San
Salvo Marina.
Seduti ad un tavolino, tra musica e luci psichedeliche, ho
notato una coppia di giovani, suppongo di innamorati.
Lei senza alzare la testa, sorridendo, digitava il suo
smartphone. Lui, seduto dirimpetto, altrettanto.
Li ho osservati con la coda dell'occhio per alcuni minuti:
silenzio tra di loro, neppure uno sguardo, una carezza.
Le carezze le ricevevano solo i loro smartphones.
Erano felici.
Non so perché, ma mi è tornata in mente quella vecchia battuta
del falegname.
L'ho solo modificata nel finale.
“Uè giuvunò! Ca so’ gnùrante e n' tìnghe la scóle va bbune!
Ma ca tu mo me vu' fa cràde ca la felicità sta dàndre a ssà
casciàtte!!!” (trad. Giovanotto! Che io sia ignorante è
risaputo! Ma che tu voglia farmi credere che la felicità è
dentro quella cassetta, non me la dai proprio a bere!!!).
12 marzo 2013