“
Uè giuvunò! Ca so’
gnùrante e n' tìnghe la scóle va bbune! Ma ca tu mo me vu'
fa cràde' ca pétrete sta dàndre a 'ssà casciàtte!!!”
(trad. Giovanotto! Che io sono un ignorante e non sono andato
a scuola è risaputo! Ma che tu ora vuoi farmi credere che tuo
padre è dentro quella cassetta, non me la dai proprio a
bere!!!).
La cassetta in questione era un telefono in legno a parete,
simile a quelli che si vedono appesi al muro in certi films di
gangsters americani degli anni '30, e la frase suddetta era la
battuta finale di una storiella molto nota a San Salvo negli
anni anteguerra, che tanto faceva sorridere i sansalvesi.
Si racconta che un falegname sansalvese si recò un giorno a
fare compere in un negozio di un grossista di legnami a Vasto.
Non avendo trovato in negozio il titolare, ma suo figlio, gli
chiese di andare a chiamare il padre perchè doveva parlargli.
Il figlio sollevo' la cornetta del telefono e dopo aver
parlato con suo padre, disse al falegname di attendere qualche
minuto che sarebbe arrivato di lì a poco.
Da lì la risposta del nostro falegname, che non avendo mai
visto un telefono, si sentì preso in giro.
La storiella da poco raccontata me ne ricorda molto da
vicino un'altra, quella de
Za' Treséne (zia
Teresina) che era una mia anziana zia avendo sposato il
fratello di mio nonno, la quale, un giorno a casa mia,
quando mio padre acquistò negli anni '60 il primo televisore
(un Magnadyne 23 pollici), mi chiese: "
Ma chesse mo' a ni
j váde? (Ma questi signori in televisione ci vedono?),
aggiungendo: "
A la televisione di Italìne aéscene cirte
bille signorine! Pure aecche?" (Al televisore di
Italino, che era il figlio, escono certe belle signorine!
Anche in questo?).
Tornando alla prima storiella, cioè a quella del telefono a
parete, evidentemente a quei tempi, nonostante Meucci, fosse
già morto da un pezzo, vi era ancora molta gente che ne
ignorava l'esistenza.
D'altronde, in un’epoca in cui persino gli orologi
scarseggiavano ed il tempo era scandito dal sole e dai
rintocchi delle campane, il telefono era fuori dal tempo e
da ogni logica. Ricordo, ad esempio, che quando Virgilio
Cilli, che aveva la stazione di servizio di carburanti in
Via Roma, negli anni '50 mise uno dei primi telefoni nel suo
ufficio, dirimpetto alle sue pompe di benzina, fu un
avvenimento che destò molto stupore. Il suo numero era il 17
che non gli portò sfortuna affatto. Stesso stupore lo
suscitò quando dotò lo stesso ufficio di una macchina da
scrivere "Everest" di color verde e di una calcolatrice
manuale beige che faceva solo le addizioni e sottrazioni,
entrambe della Olivetti.
Insomma, sino ai primi anni '60, a parte i soliti benestanti
e qualche antesignano dei tempi come il citato Virgilio, gli
abbonati alla SIP (Società Italiana per l'Esercizio
Telefonico) si potevano contare ancora sulle dita di una
mano, e la gente per scambiarsi notizie e saluti, continuava
a scrivere lettere e cartoline, almeno chi sapeva scrivere.
Il mezzo di comunicazione più veloce era il telegramma. Si
andava all'Ufficio Postale, ci si toglieva il cappello, e si
diceva a
Do' Rolande la póste (don Rolando Cirese),
che era il direttore dell'unico Ufficio Postale che stava in
piazza Municipio (attuale P.zza San Vitale), di fare un
telegramma, che però costava un accidenti.
Ma allora, certamente vi starete chiedendo, la gente in
quegli anni non telefonava?
Certo che telefonava, seppure
ugne mórte de pape
(ogni morte di un papa, di rado).
C'era
'Ndriúccie lu teléfene.
‘Ndriuccie (Andrea Ciavatta), persona distinta e dal
portamento signorile, il miglior cantante di Sant'Antonio e
anche di
Sante Sabbastijáne (San Sebastiano) che io
abbia mai sentito, era titolare dell'unica postazione di
telefonia pubblica del paese.
Per questo motivo tutti lo chiamavano
'Ndriúccie lu
teléfene, che non era un soprannome, ma un modo di
dire, un rafforzativo del nome con l'aggiunta del mestiere.
Stessa cosa avveniva ad esempio per il già citato
Do'
Rolande la póste, direttore dell'Ufficio Postale, o
Donn'Antonie
lu ràfece (don Antonio Vicoli, l'orefice), o
mast'Andonie lu ferrare (Antonio Castorio, fabbro).
Persino Don Cirillo Piovesan, il prete, veniva chiamato
Don
Cirille lu predde, anche se non c'erano in paese altri
preti o persone chiamate Cirillo, tali da confonderle con
lui.
(Andrea Ciavatta)
Quindi, come già detto, era
‘Ndriuccie lu telefene,
che faceva telefonare i sansalvesi.
La sua postazione pubblica stave dentro a
'na cámere de
cáse (una stanza), quasi all'imbocco di Via Savoia,
sulla destra, venendo da Via Fontana.
Chi doveva telefonare si recava lì, parlava
nghe 'Ndriúccie
lu teléfene (con Andrea) e telefonava.
Cosa diversa, invece, avveniva quando la chiamata era in
entrata.
Ndriuccie, ricevuta la telefonata, andava a casa di chi
era stato chiamato, bussava, e gli diceva che aveva telefonato
Tizio e Caio, avvisandolo che alle ore "tot" lo avrebbe
richiamato.
Ricevere una telefonata, a quei tempi, era qualcosa di
talmente raro e straordinario, che dopo un po' lo sapeva quasi
tutto il vicinato.
"
Chisa' che sarà succésse!" (Chissa cosa sarà
successo). "
Z'avute mure' cacchedìune! Sarà successe 'na
desgrazie?" (Sarà morto qualcuno? Sarà accaduta una
disgrazia), erano i presagi che affollavano la mente di chi
era stato chiamato.
"Ma nàune! N'è successe niscìuna desgrazie!" (Ma no,
non è successo nessuna disgrazia), diceva sempre qualcuno per
tranquillizzare. "
S'avesse successe 'na desgrazie menève le
carabbenìre a la case" (Se si fosse trattato di una
disgrazia, sarebbero venuti a casa i carabinieri ad avvisare).
Non era facile a quei tempi gestire un posto di telefonia
pubblica. Bisognava stare lì tutto il giorno impalato, come un
piantone, in attesa che qualcuno telefonasse.
Ere chiu' la spàse che la 'mbràse (era più la spesa che
l'impresa), a significare che non si guadagnava nulla.
Tra l'altro dovevi essere anche un mezzo scienziato.
C'era un marchingegno rettangolare in legno, pieno di fili
colorati e tanti buchi ai quali bisognava infilare degli
spinotti. Per collegare la linea telefonica da un distretto ad
un altro, bisognava sficcare uno spinotto da
'na cavócchie
(da un buco) e infilarlo in un un'altro. Ad esempio se si
doveva telefonare a Milano, si infilava lo spinotto ad un
buco, se invece si telefonava a Napoli in un altro. Doveva
essere un deviatore di linee telefoniche.
'Ndriúccie svolse questa funzione con zelante
professionalità per diversi anni sino a quando, intorno agli
anni '60, venne assunto dalle Poste, facendo servizio dapprima
a Milano, poi ad Ancona ed infine a Vasto.
La sua cabina telefonica passò a questo punto a
Rosine de
Mertalàtte (Rosina Evangelista), che aveva
'na
puteche (un negozio) di alimentari in Via Savoia, quasi
dirimpetto alla vecchia postazione di
'Ndriúccie, la
quale, dovendo stare già in negozio, ebbe almeno la fortuna di
non stare lì ferma impalata, a fare
la cazzàtte (la
calza), in attesa che qualcuno telefonasse.
Un fatto buffo avvenne qualche anno dopo quando la SIP iniziò
ad installare le prime cabine telefoniche nei bar del paese.
Uno dei primi con la cabina telefonica fu
lu bar de
Felicille in Via Roma, gestito da un giovane Emilio Del
Villano, a due passi dal bar Biondo e dal distributore di
benzina AGIP di Virgilio Cilli. Un giorno sentirono sbraitare
il povero Emilio perché
Zi' Cóle Delémpie, dopo essere
entrato nella cabina telefonica, vi cacò.
Chi era
Zi' Cóle? Un anziano.
Insomma, sopratutto tra gli anziani, il telefono era un
oggetto misterioso, tant'è che qualcuno in vita sua non lo
adoperò mai, e la gran parte della gente, pur avendone
apprezzato con il tempo l'utilità, si teneva alla larga,
perché telefonare costava troppo.
Anche quando, dopo qualche anno, con il sopraggiunto benessere
economico, qualcuno cominciò a metterlo in casa, non è che la
mentalità cambiò di molto: il telefono era bello da vedere,
una specie di status symbol per la famiglia che l'aveva, ma
era meglio tenerlo posato lì, come un soprammobile, ed usarlo
solo in caso di effettiva necessità. Il motivo era sempre lo
stesso: telefonare costava.
Qualcuno addirittura, per cautelarsi, anche in famiglia, ci
metteva un piccolo lucchetto, appositamente realizzato per i
telefoni, che bloccava la ghiera per fare il numero.
Una prima vera rivoluzione nella telefonia pubblica avvenne
negli anni '70, quando la SIP iniziò ad installare le prime
cabine telefoniche a gettoni per le strade del paese. Questi
apparecchi, quando si chiamava al di fuori del proprio
distretto, ingoiavano gettoni più di una slot-machine, ma in
compenso, senza allargarci troppo, con un solo gettone, si
poteva chiamare a casa la propria ragazza, ad un'ora
concordata, facendo però attenzione che non rispondesse il
padre (ed era una cosa terribile), o la mamma. Il telefono a
gettoni fece la felicità di molti innamorati legittimi ed
illegittimi.
A ripensarci oggi, la cosa fa sorridere, ma era proprio così.
E chi l'avrebbe mai detto, all'epoca, che un giorno avremmo
passato ore ed ore con il telefonino in mano, a smanettare su
internet, a mandare messaggi, a fare fotografie, a postare
video e chi ne ha più ne metta... insomma a farci di tutto,
all'infuori di telefonare.
Come sono lontani i tempi di
Ndriuccie lu telefene.
Per fortuna, oggi tutti possono permettersi di telefonare e
addirittura videochiamare gratis con internet, anche in
capo al mondo.
Si telefona,
'ngrazie a Dde', quando ci serve e quando
non ci serve: per strada, in autostrada (qualche volta
fuoristrada), sulla spiaggia, in bicicletta, mentre si mangia
e persino al bagno, l'unico posto in cui un tempo vi era la
vera privacy.
I bambini quasi quasi
ci nasciene (ci nascono) con lo
smartphone in mano, ma anche gli adulti non scherzano. In ogni
famiglia ognuno ne ha due, tre a testa, sopratutto i
ragazzini, che ci parlano, ci giocano, si scambiano tra di
loro centinaia di messaggini, sovente in una lingua marziana
che nobilita l'italiano.
L ’uso della rete e dei social networks, ha ormai globalizzato
il mondo e con le video chiamate parli e vedi il tuo
interlocutore persino dalla Luna.
E che si vuole di più dalla vita.
Evviva la tecnologia digitale.
Vi è solo qualche controindicazione: bisogna fare attenzione
che la batteria non si scarichi, altrimenti si scarica
contemporaneamente anche il morale, perdendo momentaneamente
tutte le facoltà telefoniche e mentali.
Ed in quei momenti è meglio non scherzare.
Non sia mai dici per scherzo a qualcuno a cui si è spento il
telefono: "
E 'ccáttete nu teléfene bbone" (comprati un
telefono buono). Se non si offende, nel migliore dei casi
resta sconcertato, e dopo un attimo di sbigottimento,
ripresosi dallo choc, ti spiega tutte le caratteristiche
tecniche del suo smartphone, sino a quando non ti dimostra che
ti eri sbagliato.
Oggi è davvero un altro mondo, anzi due: uno reale e l'altro
virtuale.
Quello reale, che Iddio ce ne scansi e liberi, fa schifo.
Bisogna lavorare (almeno per chi riesce a trovare un posto di
lavoro), e poi, come succede spesso litigare con il collega di
turno, con il proprio coniuge, o con il condomino, mentre
quello virtuale è bellissimo, perfetto, fatto di cortesia e
gentilezze, in cui regnano sentimenti nobili, come l'amicizia,
la solidarietà, la giustizia, l'amore.
Ed a proposito dell'amore.
L’altra sera sono andato a prendermi un caffè in un bar in San
Salvo Marina.
Seduti ad un tavolino, tra musica e luci psichedeliche, ho
notato una coppia di giovani, suppongo di innamorati.
Lei senza alzare la testa, sorridendo, digitava il suo
smartphone. Lui, seduto dirimpetto, altrettanto.
Li ho osservati con la coda dell'occhio per alcuni minuti:
silenzio tra di loro, neppure uno sguardo, una carezza.
Le carezze le ricevevano solo i loro smartphones.
Erano felici.
Non so perché, ma mi è tornata in mente quella vecchia battuta
del falegname.
L'ho solo modificata nel finale.
“
Uè giuvunò! Ca so’ gnùrante e n' tìnghe la scóle va bbune!
Ma ca tu mo me vu' fa cràde ca la felicità sta dàndre a ssà
casciàtte!!!” (trad. Giovanotto! Che io sia ignorante è
risaputo! Ma che tu voglia farmi credere che la felicità è
dentro quella cassetta, non me la dai proprio a bere!!!).
12 marzo 2013