Poi
vogliono dire...
(Praticamente,
fra la quale, cioé)
(Fatterelli)
Nel corso degli anni '60, con la lingua italiana che iniziava
a fare capolino sempre più nella parlata dialettale, molti
artigiani e sopratutto contadini, mentre parlavano tra di
loro, per dare un tocco di classe ai loro ragionamenti,
iniziarono a dire, quando ci serviva e non ci serviva,
"fra
la quale", pronunciata in dialetto senza far sentire la
"e" finale". Divenne un tormentone. Un esempio:
"Uje so'
vèste Necole, fra la quale je stave a lu bar, canda me le
so' véste arruvué'" (Oggi ho visto Nicola, fra la quale
io stavo al bar, quando lo vidi arrivare).
Sempre in quel periodo altri due avverbi già noti alla lingua
italiana divennero intercalari diffusissimi: "
praticamente"
e "
cioè". Era frequente udirli da qualcuno, che rimasto
a secco di idee, prima di riprendere
lu fèle de lu
trascàrze (il filo del discorso), guadagnava tempo
dicendoli entrambi , insieme
a fra la quale, durante
un discorso. Se ne accorsero persino i bambini delle
elementari, che a
Dùméneche (Domenico), un loro
compagno di scuola,
j'arcacciaréne (lo
soprannominarono)
: "Praticamente, fra la quale, cioè".
Restando in tema di intercalari, c'era invece un mio
amico, che mentre parlava diceva spesso "
esame",
pronunciato senza far udire la "e" finale. Gli chiesi:" Ma
perchè dici
esame". Cadde dalle nuvole e mi rispose: "
Je'
deche esame?" (Io dico esame?). Non se ne accorgeva
neppure lui quando lo diceva, manco quando glie lo feci notare
subito dopo che l'aveva pronunciato. Secondo me, mentre
parlava, non venendogli subito la parola giusta, intercalava "
esame",
che era un'abbrevazione di "
ngnà ze chiame" (come si
chiama), l'intercalare forse il più usato in dialetto
sansalvese.
Insomma, gli intercalari si usano da sempre, e vengono fuori
naturalmente. C'è chi abusa naturalmente di "naturalmente",
chi di "insomma", chi di "giustamente". Io stesso ne faccio
tutt'oggi un uso smodato, sopratutto di "praticamente", che mi
riprometto, ogni volta che lo sento da me pronunciare, di non
dire più, ma che poi mi scappano durante un discorso,
praticamente.
Altra cosa, sono invece le frasi fatte, che vengono
pronunciate con insistenza ripetiva da qualcuno. Vi era un
sansalvese, che era tornato da Milano, che ogni tanto
intercalava "Dio bono", tanto che questo Dio, bono, milanese,
divenne una specie di suo soprannome. Vi era poi un vecchietto
che diceva spesso:
"E chi lo sa". Tante volte glie lo
sentirono dire che glie lo
ricacciarono (lo
soprannominarono in quel modo). A tal proposito si racconta
che un giorno, un ragazzo sansalvese, che aveva il collo
lievemente storto, volle prendersi con lui una pizzicata e gli
disse: "
E chi lo sa".
"
E chi lo sa se te z'arderrézze lu colle" (E chi lo sa
se ti si riaddrizzerà il collo), fu la pronta risposta del
vecchietto, che aveva capito che quel ragazzo gli aveva detto
il soprannome.
Altro modo di dire che caratterizzò un'epoca, eravamo negli
anni '70, fu: "
Capite no?". Lo diceva sempre un
sansalvese, anch'egli tornato da Milano, che faceva un uso
smodato di "no", tra cui il più famoso era "
capite no?"
(hai capito o no?). Divenne fra i giovani un tormentone.
Ma un modo di dire, che mi divertì molto, sin da quando ci
feci caso per la prima volta, fu quando una sera udii ripetere
più volte da un mio amico, a conclusione di ogni suo discorso,
un polemico "poi vogliono dire". Erano gli anni '80 e San
Salvo già stava assumendo il volto attuale, con la mentalità
che stava mutando.
Era un gran lavoratore questo amico mio,
Delabbendeche
(che Iddio lo benedica), come me. Aveva una voglia di
lavorare,
beneme' (bene mio), espressione dialettale
usata per dire il contrario di quel che si pensa, che il
sudore
j culave a pisciarélle (gli colava dietro la
schiena come rivoli di pipì) per la fatica. Proprio come me.
"Ferna'!", iniziò a lamentarsi, parlandomi in italiano.
"La mattina mi tocca alzarmi presto ed andare a lavorare in
fabbrica; al ritorno, prima di potermi dedicare ai miei hobby,
mi tocca dare una mano a mia moglie. Poi certi giorni mi tocca
andare in banca e fare la fila, andare alla posta, a pagare le
bollette... Poi vogliono dire", concluse, con intonazione di
voce polemica.
Non diedi molta importanza la prima volta a quella sua ultima
affermazione e pensai dentro di me: "Ha ragione. Tutti lavori
pesanti per carità".
Poi ricominciò: "Sai l'assicurazione per la moto costa,
l'ombrellone al mare non ti dico, quest'anno l'hanno
riaumentato un'altra volta. Che fai, non ci vai al mare? E la
sera a mangiare la pizza in pizzeria con gli amici non ci vai?
Che fai resti a casa? Tutto aumenta. Si son messi la
maschera." E concluse nuovamente il discorso con quel
classico: "Poi vogliono dire!".
Iniziai a riflettere.
Ma cosa voleva dire per davvero, quel mio amico, con quel suo
"poi vogliono dire", con quella sua inflessione di voce finale
polemica. Forse voleva dire che nonostante lui si facesse il
mazzo, per modo di dire, la gente aveva sempre qualcosa da
ridire su di lui?
Secondo me sì. Ne era convintissimo. In qualche parte del
pianeta, anche se lui ignorava dove fosse e che volto avesse,
c'era sicuramente un suo denigratore, qualcuno che ce l'aveva
con lui, sempre pronto a ridire su ogni cosa facesse. Per lui
non era solo una sensazione. Era un certezza.
Riflettendoci bene, però, dopo un po' iniziai a pensare che
forse aveva ragione. Un fondo di verità in quella sua
espressione c'era.
L'uomo non si fa mai i cavoli suoi. E' sempre pronto a
sparlare e ridire sul conto degli altri. Proprio come me.
Dicevo ad un mio amico, vicino di ombrellone in spiaggia,
appena mi sedevo sulla mia sdraia: "
Allàure a che vulame
dece male uje?" (Allora a chi vogliamo dire male oggi?).
Dopo un suo sorriso, non passavano dieci minuti, e alè...
incominciavamo a sparlare di qualcuno, che a volte non
conoscevamo manco bene, anzi per niente, ma che aveva la
sfortuna di passare di lì, per caso, sulla battigia.
E' stato sempre così, da che mondo è mondo, battigia e non
battigia.
I nostri difetti non li vediamo, vediamo solo quelli degli
altri.
La colpa di tutto ciò che ci va storto è sempre e solo degli
altri.
Ci vogliamo bene come gatti e cani. Solo sui social no:
amicizia, fraternità, fratellanza, si sprecano.
Nella vita concreta le cose cambiano. Il motivo è che quando
posiamo il cellulare, ci scolleghiamo dal mondo virtuale,
ricollegandoci in quello reale. Non è neanche invidia. E' il
logorio della vita moderna. Secondo me il problema nasce dal
fatto che ci diamo fastidio, impiccio noi tra noi.
E che diamine! Andiamo in automobile e nel traffico ci diamo
impiccio noi tra noi. Devi parcheggiare l'automobile e trovi i
parcheggi tutti occupati, dandoci impiccio noi tra noi. Vai in
banca o all'Ufficio Postale dobbiamo fare la fila, dandoci
sempre impiccio noi tra di noi. Vai dal medico perchè ti fa
male la pancia e devi aspettare il tuo turno per entrare,
dandoci sempre impiccio noi tra noi. Ti fermi in un autogrill
e trovi una corriera di studenti in gita scolastica, o
pellegrini che tornano da un santuario e ti tocca fare la fila
al bagno, dandoci impiccio noi tra noi. Insomma l'elenco è
lungo.
Praticamente, fra la quale, cioè, non facciamo come mi
insegnò mia nonna Maria, morta ultracentenaria, che per dire
che bisogna volersi bene in vita e non quand'è ormai troppo
tardi, disse:
"Vulàmeze bbène mo che stame all'Italie"
(Vogliamoci bene ora che siamo in Italia).
Aspettiamo prima che qualcuno emigri.
Poi vogliono dire.