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Ogni mondo è paese, ma il mio paese è il mio mondo.
Fernando Sparvieri







Ma chi sarebbero li salvanése

I racconti di Fernando Sparvieri



Un po' di storia locale raccontando personaggi










Poi vogliono dire...
(Praticamente, fra la quale, cioé)

(Fatterelli)

Nel corso degli anni '60, con la lingua italiana che iniziava a fare capolino sempre più nella parlata dialettale, molti artigiani e sopratutto contadini, mentre parlavano tra di loro, per dare un tocco di classe ai loro ragionamenti, iniziarono a dire, quando ci serviva e non ci serviva, "fra la quale", pronunciata in dialetto senza far sentire la "e" finale". Divenne un tormentone. Un esempio: "Uje so' vèste Necole, fra la quale je stave a lu bar, canda me le so' véste arruvué'" (Oggi ho visto Nicola, fra la quale io stavo al bar, quando lo vidi arrivare).

Sempre in quel periodo altri due avverbi già noti alla lingua italiana divennero intercalari diffusissimi: "praticamente" e "cioè". Era frequente udirli da qualcuno, che rimasto a secco di idee, prima di riprendere lu fèle de lu trascàrze (il filo del discorso), guadagnava tempo dicendoli entrambi , insieme a fra la quale, durante un discorso. Se ne accorsero persino i bambini delle elementari, che a Dùméneche (Domenico), un loro compagno di scuola, j'arcacciaréne (lo soprannominarono): "Praticamente, fra la quale, cioè".

Restando in tema di intercalari, c'era invece un mio amico, che mentre parlava diceva spesso "esame", pronunciato senza far udire la "e" finale. Gli chiesi:" Ma perchè dici esame". Cadde dalle nuvole e mi rispose: "Je' deche esame?" (Io dico esame?). Non se ne accorgeva neppure lui quando lo diceva, manco quando glie lo feci notare subito dopo che l'aveva pronunciato. Secondo me, mentre parlava, non venendogli subito la parola giusta, intercalava "esame", che era un'abbrevazione di "ngnà ze chiame" (come si chiama), l'intercalare forse il più usato in dialetto sansalvese.

Insomma, gli intercalari si usano da sempre, e vengono fuori naturalmente. C'è chi abusa naturalmente di "naturalmente", chi di "insomma", chi di "giustamente". Io stesso ne faccio tutt'oggi un uso smodato, sopratutto di "praticamente", che mi riprometto, ogni volta che lo sento da me pronunciare, di non dire più, ma che poi mi scappano durante un discorso, praticamente.

Altra cosa, sono invece le frasi fatte, che vengono pronunciate con insistenza ripetiva da qualcuno. Vi era un sansalvese, che era tornato da Milano, che ogni tanto intercalava "Dio bono", tanto che questo Dio, bono, milanese, divenne una specie di suo soprannome. Vi era poi un vecchietto che diceva spesso: "E chi lo sa". Tante volte glie lo sentirono dire che glie lo ricacciarono (lo soprannominarono in quel modo). A tal proposito si racconta che un giorno, un ragazzo sansalvese, che aveva il collo lievemente storto, volle prendersi con lui una pizzicata e gli disse: "E chi lo sa".

"E chi lo sa se te z'arderrézze lu colle" (E chi lo sa se ti si riaddrizzerà il collo), fu la pronta risposta del vecchietto, che aveva capito che quel ragazzo gli aveva detto il soprannome.

Altro modo di dire che caratterizzò un'epoca, eravamo negli anni '70, fu: "Capite no?". Lo diceva sempre un sansalvese, anch'egli tornato da Milano, che faceva un uso smodato di "no", tra cui il più famoso era "capite no?" (hai capito o no?). Divenne fra i giovani un tormentone.

Ma un modo di dire, che mi divertì molto, sin da quando ci feci caso per la prima volta, fu quando una sera udii ripetere più volte da un mio amico, a conclusione di ogni suo discorso, un polemico "poi vogliono dire". Erano gli anni '80 e San Salvo già stava assumendo il volto attuale, con la mentalità che stava mutando.

Era un gran lavoratore questo amico mio, Delabbendeche (che Iddio lo benedica), come me. Aveva una voglia di lavorare, beneme' (bene mio), espressione dialettale usata per dire il contrario di quel che si pensa, che il sudore j culave a pisciarélle (gli colava dietro la schiena come rivoli di pipì) per la fatica. Proprio come me.

"Ferna'!
", iniziò a lamentarsi, parlandomi in italiano. "La mattina mi tocca alzarmi presto ed andare a lavorare in fabbrica; al ritorno, prima di potermi dedicare ai miei hobby, mi tocca dare una mano a mia moglie. Poi certi giorni mi tocca andare in banca e fare la fila, andare alla posta, a pagare le bollette... Poi vogliono dire", concluse, con intonazione di voce polemica.

Non diedi molta importanza la prima volta a quella sua ultima affermazione e pensai dentro di me: "Ha ragione. Tutti lavori pesanti per carità".

Poi ricominciò: "Sai l'assicurazione per la moto costa, l'ombrellone al mare non ti dico, quest'anno l'hanno riaumentato un'altra volta. Che fai, non ci vai al mare? E la sera a mangiare la pizza in pizzeria con gli amici non ci vai? Che fai resti a casa? Tutto aumenta. Si son messi la maschera." E concluse nuovamente il discorso con quel classico: "Poi vogliono dire!".

Iniziai a riflettere.

Ma cosa voleva dire per davvero, quel mio amico, con quel suo "poi vogliono dire", con quella sua inflessione di voce finale polemica. Forse voleva dire che nonostante lui si facesse il mazzo, per modo di dire, la gente aveva sempre qualcosa da ridire su di lui?

Secondo me sì. Ne era convintissimo. In qualche parte del pianeta, anche se lui ignorava dove fosse e che volto avesse, c'era sicuramente un suo denigratore, qualcuno che ce l'aveva con lui, sempre pronto a ridire su ogni cosa facesse. Per lui non era solo una sensazione. Era un certezza.

Riflettendoci bene, però, dopo un po' iniziai a pensare che forse aveva ragione. Un fondo di verità in quella sua espressione c'era.

L'uomo non si fa mai i cavoli suoi. E' sempre pronto a sparlare e ridire sul conto degli altri. Proprio come me.

Dicevo ad un mio amico, vicino di ombrellone in spiaggia, appena mi sedevo sulla mia sdraia: "Allàure a che vulame dece male uje?" (Allora a chi vogliamo dire male oggi?). Dopo un suo sorriso, non passavano dieci minuti, e alè... incominciavamo a sparlare di qualcuno, che a volte non conoscevamo manco bene, anzi per niente, ma che aveva la sfortuna di passare di lì, per caso, sulla battigia.

E' stato sempre così, da che mondo è mondo, battigia e non battigia.

I nostri difetti non li vediamo, vediamo solo quelli degli altri.

La colpa di tutto ciò che ci va storto è sempre e solo degli altri.

Ci vogliamo bene come gatti e cani. Solo sui social no: amicizia, fraternità, fratellanza, si sprecano.

Nella vita concreta le cose cambiano. Il motivo è che quando posiamo il cellulare, ci scolleghiamo dal mondo virtuale, ricollegandoci in quello reale. Non è neanche invidia. E' il logorio della vita moderna. Secondo me il problema nasce dal fatto che ci diamo fastidio, impiccio noi tra noi.

E che diamine! Andiamo in automobile e nel traffico ci diamo impiccio noi tra noi. Devi parcheggiare l'automobile e trovi i parcheggi tutti occupati, dandoci impiccio noi tra noi. Vai in banca o all'Ufficio Postale dobbiamo fare la fila, dandoci sempre impiccio noi tra di noi. Vai dal medico perchè ti fa male la pancia e devi aspettare il tuo turno per entrare, dandoci sempre impiccio noi tra noi. Ti fermi in un autogrill e trovi una corriera di studenti in gita scolastica, o pellegrini che tornano da un santuario e ti tocca fare la fila al bagno, dandoci impiccio noi tra noi. Insomma l'elenco è lungo.

Praticamente, fra la quale, cioè, non facciamo come mi insegnò mia nonna Maria, morta ultracentenaria, che per dire che bisogna volersi bene in vita e non quand'è ormai troppo tardi, disse: "Vulàmeze bbène mo che stame all'Italie" (Vogliamoci bene ora che siamo in Italia).

Aspettiamo prima che qualcuno emigri.

Poi vogliono dire.

Video
Capite no?

20 Maggio 2022





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