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Ogni mondo è paese, ma il mio paese è il mio mondo.
Fernando Sparvieri







Ma chi sarebbero li salvanése

I racconti di Fernando Sparvieri



Un po' di storia locale raccontando personaggi










Músche Tumasse lu...
(Fai solénzie)
(Fatterelli)


di Fernando Sparvieri



In una società come quella attuale, con mutazioni velocissime di ogni genere, in cui non si fa a tempo a dire l'ultima che è già diventata la penultima, presto ed inesorabilmente scompariranno molti modi di dire e parole dialettali in voga nel corso del primo cinquantennio del '900.

Due di questi vocaboli sono "músche", che significa taci, stai zitto, e "solénzie", altro modo di invocare il silenzio, derivante da una forma usuale di italiano maccheronico dell'epoca.

Le due parole, seppure sembrino avere entrambe lo stesso significato, celano tuttavia due piccole differenze, quasi impercettibili, ma ci sono.

Solénzie (silenzio) veniva più usato, o meglio urlato, per invocare ad alta voce il silenzio assoluto in un luogo affollato, dove c'era chiasso (ad esempio in un ambiente festoso durante un matrimonio, quando un invitato si alzava dal tavolo per  fare un discorso augurale agli sposi); músche, invece, aveva un significato più diretto, rivolto ad un solo interlocutore o ad un numero ristretto di essi, e veniva sussurrato a bassa voce, mettendosi contestualmente il dito indice sulle labbra, per mettere in guardia qualcuno a tapparsi la bocca, avvertendolo che era meglio tacere in quanto l'argomento di cui si stava parlando era in quel momento inopportuno, pericoloso se udito da orecchie indiscrete (es. "músche ca lu bérre sta aecche" trad. fai silenzio chè la persona di cui stiamo parlando è nelle vicinanze).

In altri termini músche era l'equivalente dell'italianissimo detto popolare "In una bocca chiusa non entrano le mosche", da cui forse deriva, oppure di "Acqua in bocca" o ancora di "Il silenzio è tesoro", ed era una specie di messaggio omertoso, un consiglio a qualcuno di farsi i fatti propri, perchè l'argomento che stava trattando non era proprio a la uale (uguale a come doveva essere), in quanto nascondeva un'insidia, e quindi poteva ritorcerglisi contro.

Anche se pronunciare solamente "músche", già assumeva il significato suddetto, nella società contadina, spesso, questo termine dialettale veniva associato a nomi di cose e di persona.

Famosi erano músche a la ciàste (al cesto) e músche a lu pajare (al pagliaio), derivanti probabilmente da fatti accaduti riguardanti un cesto o un pagliaio.

L'origine di músche a la ciàste è incerta, ma suppongo che qualcuno avesse rubato un cesto o fatto sparire il suo contenuto e quindi era meglio tacere altrimenti chi aveva subito il furto, se era nelle vicinanze, udendo, avrebbe scoperto chi ne era stato l'autore. Músche a lu pajare, invece, dà l'idea di qualcuno che avesse fatto nu 'ssadatte (rubato o fatto qualcosa di poco lecito) in un pagliaio di un contadino e quindi era consigliabile restare in silenzio, per timore potesse tornare alle orecchie del diretto interessato ed innescare risentimenti o ritorsioni.

Per quanto concerne invece i nomi di persona, i più famosi associati a músche erano Flummé' (Filomena) e Tumuásse (Tommaso).

Músche Flummué', probilmente derivava da un esplicito invito ad una donna di nome Filomena di smetterla di parlare a vanvera o di fare pericolosi pettegolezzi che erano inopportuni in quel determinato momento, mentre "músche Tumuásse" ebbe origine da un fatto realmente accaduto, di cui ne sono a conoscenza, che adesso vi racconterò.

Il fatto risale a prima della 2ª guerra mondiale, quando la fame era nera e d'inverno la povera gente non aveva né un tozzo di pane certo da mettere sotto i denti, né, d'inverno, un pezzo di legna da far ardere a lu fucheláre (al caminetto).

Bisogna premettere che prima della guerra, San Salvo aveva un bosco, il cosiddetto Bosco Motticce, così chiamato perchè ricadente in C.da Motticce, zona ubicata vicino al fiume Trigno, lungo la vecchia statale 16 in direzione Montenero di Bisaccia. Questo bosco, con querce secolari, esteso circa 180 ettari di terreno, venne totalmente disbocato, durante la guerra, da un battaglione di fanteria di stanza a San Salvo, per realizzare traverse dei binari, occorrenti per l'intera rete ferroviaria nazionale.

A vegliare sulla sua integrità, prima della guerra, vi era la guardia boschiva, che emetteva multe salatissime con conseguente denuncia alle autorità giudiziarie, se incappava qualcuno a fare un po' di legna.

Era proibito persino prendere ceppi e si rischiava la galera.

Ma nonostante il rigoroso divieto, nelle fredde giornate invernali, qualcuno di nascosto, per necessità, sfidava la legge e vi si recava a piedi, prima dell'alba, sperando di non essere visto nell'oscurità e quindi non incappare nella temutissime grinfie della guardia boschiva.

E fu così che Jséppe lu scarpare (Giuseppe, il calzolaio), che abitava in Rione Istonio, con la neve a terra, albe e no albe (prima dell'alba), si recò a piedi nel bosco e dopo aver fatto un fascio di ceppi, se lo caricò sulle spalle ed al suo ritorno, giunto nei pressi di Via del Popolo, stanco ed infreddolito, incrociò un ragazzo di nome Tumuásse, che gli chiese:

"Jsé'! Se jiute pe' ciàppe a lu bosche?" (Giuseppe! Sei andato per ceppi nel bosco?).

"Músche Tumuásse... lu contrabbande", fu la risposta di Giuseppe.



22 Febbraio 2022






I racconti di Fernando Sparvieri

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LI SALVANESE

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(Emilio Del Villano)















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