Era il 1961 e frequentavo
la 3ª elementare, quando dai minuscoli altoparlanti
dei primi giradischi a 45 giri, si iniziarono ad
udire, per le vie cittadine, le note di una canzone
che aveva per titolo: Zi' Nicola.
Il suo autore era Cesare De Cesaris, uno straordinario
fisarmonicista che veniva a suonare sulla cassarmonica
alle feste
, che duravano una sola giornata.
A cantarla invece era Antonio Basunno, un cantante
abruzzese, anche se nella fantasia di tutti la cantava
lui, il re della fisarmonica: Cesare De Cesaris.
Divenne un tormentone. Io che suonavo la mia
fisarmonichina, cercai di impararla. Ma ere deffecele.
Suonava, nel testo così:
Nel disco, invece, suonava così:
Anch'io ci andavo in campagna quand'ero bambino. Mi
ci portava mio nonno
Bastijane (Sebastiano
Napolitano), il papà di mamma, che era contadino. Si
faceva prestare
la mìule (il mulo), dal suo
consuocero
cumpà Pasquale (compare Pasquale),
perchè a lui
, j z'avè' morte la
juménde (gli si era morta la giumenta),
l'attaccava
a lu trajéne (al suo carretto),
che non si era morto e gli era rimasto
murtelezzáte
(inutilizzato), e partivamo. Veniva con noi anche
mia nonna Maria, che
z'arrangáve (saliva sul
carretto), si sedeva a fianco a mio nonno e gli
diceva: "
Bastijà' va chiane" (Sebastiano vai
piano).
Nonno Sebastiano e
compà' Pasquale Checchia, consuoceri. Zio Mimì
Napolitano aveva sposato zia Gilda, la figlia di
compà Pasquale. Le famiglie erano già compari
prima del matrimonio. Zio Mimì aveva cresimato
Sebastiano Checchia e quindi in famiglia
continuavano a chiamarsi compari.
Lo sapeva davvero guidare il mulo mio nonno
Sebastiano, il mulo di
compà' Pasquale.
"Aaahhhh", gli diceva, quando doveva partire.
"Tócche! Tócche!", invece quando lo doveva
far lanciare e
"Jiiii", quando si doveva
'mbujè,
cioè fermare.
Se qualche difettuccio nella guida gli dovevo
proprio trovare (non dico un capello nell'uovo
perchè sotto al cappello c'era la calvizie totale),
era che non si fermava mai allo stop, anche se
arrivava un camion sulla nazionale; non dava la
precedenza a destra, manco se gli sparavano (era
comunista), e andava qualche volta contromano, non
proprio come compà' Pasquale, che ci andava sempre,
ma non nel senso equivoco della parola, ma solo
perché non rispettava proprio alla lettera, il
codice della strada.
Con un po' di scuola guida, imparai a guidarlo
anch'io quel mulo ed alla sera, quando tornavamo
dalla campagna, mio nonno
staccave lu trajéne
(staccava il mulo dal carretto), e mi diceva: "
Mo
arpurte ti la mìule a cumpà Pasquale" (Adesso
riporta tu il mulo a compare Pasquale).
Era un grosso divertimento per me guidare quel mulo.
Una sera provai a farlo sgommare. Eravamo nel
rettilineo di Via Savoia, dove abitava compà'
Pasquale, e gli dissi:
" Tócche! Tócche", ma
lui, il mulo,
con
la capa toste (con
la testa dura), un po' come compà Pasquale (gli
animali somigliano nel carattere ai padroni), fece
orecchie da marciante e non mi volle ascoltare.
Riprovai:
" Tócche! Tócche!", gli dissi di
nuovo, ma niente da fare.
E siccome
avè' 'ncucciáte (si era
intestardito), gli mollai due colpi
a le
fiangàtte (ai fianchi)
nghe le calechégne
(con le calcagna). Partì come un razzo, volava.
E che te ne vuoi fare del cavallo della pubblicità
della benzina API, (con API si vola), volava più di
un mulo alato. Ribot, il cavallo da corsa tra i più
forti del mondo, con lui avrebbe fatto la figura di
un asino
ammaláte.
A voglia a dirgli
"Jiiii!!!", per farlo
frenare.
Si erano rotti i freni. Sgommò dapprima alla curva a
sinistra del vicolo che da Via Savoia immetteva
nella discesa della stalla di compà' Pasquale e poi
a quella a destra, prima di arrivare. Poi si infilò
a folle velocità nella porta della stalla, che era
aperta, facendomi fare appena in tempo ad abbassare
la testa, prima che si
squaquaracchiásse (sfragellasse)
contro la volta ad arco dell'ingresso, sempre della
porta della stalla di compà' Pasquale, e una volta
entrati dentro, fece una piroetta: si fermò dinanzi
alla magnatàure (alla mangiatoia) ed iniziò
a mangiare il fieno, che glie lo aveva lasciato lì,
sempre compà Pasquale, che secondo me non era in
casa e forse
ave' juta a fa' 'na 'mmasciate.
Che mulo e figlio di mulo, era quel mulo di compà
Pasquale.
Nella foto l'Arco
della Terra e sullo sfondo il muro dell'antico
ufficio postale.
Fu l'ultima volta quella sera che vidi quel mulo.
Compà' Pasquale si comprò una bella
laparella
(un tre ruote Ape Piaggo), 48 di cilindrata, color
arancione ed il suo mulo sparì per sempre dalla
circolazione.
Povero nonno Sebastiano, ci rimase davvero male. E
siccome in campagna pur ci doveva andare, una sera
chiese a mio mio padre Evaristo: "
Evarì'! E'
deffecele a purtà 'na laparélle?".
Non so perchè lo chiese a mio padre e non
direttamente a compà' Pasquale.
Mio padre, che non l'aveva mai guidata
'na
laparelle, se lo provò ad immaginare.
"Si guiderà come la Vespa di Aldo Aldo Germani?",
pensò.
E per far vedere a mio nonno che lui con le moto ci
sapeva fare, si mise a raccontare di quando il
maestro Germani, suo collega, gli aveva prestato la
sua Vespa perchè lui doveva andare a fare una
supplenza a Cupello.
"A nu rettilinee",
disse a mio nonno che lo stava ad ascoltare,
"mentre arpassave nu camie e remorchie, ha
spundate da 'rrétte a na curve 'na pustale. So'
vuta passa' mmezze a l'autotrene e la pustale e me
l'aje affrangáte pe' Créste e Dómmene
nostre", concluse tra il vanto e la paura.
E poi cominciò la spiegazione.
"E' facile guidare
'na laparellle. La
laparella", gli disse,"ha tre marce: la prima la
seconda e la terza. Poi c'è folle". Poi, per far
capire a mio nonno come si mettevano le marce, si
mise a simulare con le mani il manubrio della Vespa
del maestro Germani.
"Nga', sta' la freziàune",
e simulò con la mano sinistra come si tirava la leva
della frizione. "
A staddre quarte ti'
l'accelleratàure ". E gli fece vedere con la
mano destra, come doveva girare il polso per
accellerare.
"Tu, dopo aver messo in moto", gli disse,
ricominciando a parlare in italiano, "senza
accellerare, premi la leva della frizione e tac...
andando su, da folle, metti la prima ed accelleri;
poi riabbassi l'accelleratore, premi la frizione,
ripassi per folle e tac... metti la seconda. Poi",
continuò ancora, " riabbassi l'accelleratore, ritiri
la frizione, e dalla seconda...tac... metti la
terza".
"Scié Evari'! Ti però a ma m'ha da 'nzegnà addo
sta lu frene" (Sì Evaristo, pero tu mi devi
dire dove sta il freno), gli chiese mio nonno.
E mio padre gli insegnò dov'era il freno.
Poi ricominciò la spiegazione:"
Allaure me si'
capìute?" (Allora mi sono spiegato?), gli
chiese. "E' facile", e ricominciò: "Tu", gli spiegò
di nuovo a mio nonno, "senza accellerare, premi la
frizione e tac... metti la prima ed accelleri; poi
riabbassi..."
"Sciè", lo interruppe di nuovo mio nonno:
"Però
tu, Evari', a mà m'ha da 'nzegnà addò sta lu
frene".
Mio nonno Sebastiano, non riuscì mai a capire dove
fosse il freno, o forse mio padre non glie lo seppe
spiegare, e non si comprò mai la laparélla.
Intanto compà Pasquale, faceva il diavolo a tre
ruote, con quella sua
laparélla. Ti passava
a fianco come il vento. Non rispettava né stop, né
precedenze, insomma la guidava come la sapeva
guidare solo lui, alla compà' Pasquale, continuando
come sempre ad andare ancora contromano. Tanto che
faceva! Mica faceva qualcosa di male!.
La sera, tornando dalla sua campagna
,
risaliva piano piano, con la 1ª, la salita della
vecchia fontana. Il motore sotto sforzo si sentiva
fino a Montalfano, ma appena imboccava Via Savoia,
ripartiva a tutto gas, come se stesse per decollare
un aeroplano.
Giunto alla stradina che conduceva alla sua stalla,
svoltava alle ultime due curve su due ruote, poi
frenava solo con il freno davanti, facendo impuntare
la laparella con il culo in aria, prima che
ricadesse a terra su tutte e tre le ruote.
Finalmente compà Pasquale, dopo una giornata di duro
lavoro nei campi, era arrivato alla sua ex stalla.
Il mulo non c'era più.
I tempi stavano mutando.
Era iniziata l'era
moderna, della motorizzazione. Le laparélle ed i
motocoltivatori stavano cacciando gli asini, i muli
ed i cavalli dalle stalle.
Però che mulo e figlio di mulo, era quel mulo di
compà Pasquale.