Il tuo bacio è come un
Rock
ed il sogno della vita
(Fatterelli)
di Fernando Sparvieri
A ripensarci oggi, che bella che era la mia piccola San Salvo
la domenica mattina. Era tutta una
romania (un'armonia),
avrebbe detto il mio amico Sebastiano Valentini.
Avevo si e no cinque o sei anni ed al mattino il paese si
svegliava con la musica ed era come stare lì, al festival di
Napoli o San Remo, con cantanti che cantavano in mezzo alla
strada.
C'erano Nilla Pizzi, che ogni domenica faceva il compleanno e
ringraziava dei fiori qualcuno che glie li aveva donati, non
smettendo mai di ringraziarlo, anche se le spine delle rose le
pungicavano le dita ed il cuore; Claudio Villa che si era
innamorato in Spagna di una certa Granada (forse di una
lontana parente di
Zi' Vingenze Granate, che aveva la
terra e
elle cantave; Domenico Modugno che faceva il
finto tondo (
lu scivule e casche) con una donna riccia
e secondo me anche pelosa, che non si depilava mai, perchè
così a quei tempi si usava; e poi un giovanissimo Adriano
Celentano, che aveva dato il suo primo bacio ad una ragazza,
non so di dove, ed era rimasto fulminato dal suo bacio che era
come un Rock, detto in americano.
Chi fosse però questo Rocche, non ve lo so proprio dire, non
riuscivo proprio a capirlo. Anzi mi sembrava strano che una
donna baciasse come Rocco, cioè come un uomo. Muah...
All'epoca di Rocco, a parte
Sandrócche, che non mi
pare di averlo mai visto baciare una donna, anzi erano le
donne a baciare lui dopo essersi fatte il segno della croce,
conoscevo
Rocche Natale, che proprio un tipo da baci
non mi sembrava, e quel povero
Rocche de Zenore (Rocco
Di Bello) un bel ragazzo bravo e bruno, purtroppo deceduto
prematuramente appena sposato, che abitava proprio lì vicino
casa mia, in Via Savoia, dove ero andato da poco ad abitare
(1958). Di altri Rocco, conoscevo poi la famiglia Di Rocco,
non quella degli zingari che all'epoca non ancora arrivava a
San Salvo, ma
chélle de Barracche. "Sarà una loro
figlia?", pensavo. Muahhh!
A mettere quei dischi, perchè di dischi si trattava, era
Combúccie (Confucio Ciavatta), che aveva aperto un bel
negozio di radio, biciclette, fornelli e bombole di gas, oltre
a qualche giradischi e fisarmonica in C.so Garibaldi, il quale
poverino (per modo di dire, perchè proveniva da una famiglia
nobile), per vendere qualche disco, che però nessuno comprava,
aveva messo sul tetto del suo palazzo di famiglia, quello di
suo padre Don Antonio Ciavatta, un grosso altoparlante, e da
lì irradiava di musica, tutte
lu quart'ammande e parte
de lu quartabballe (la zona alta del paese, e parte di
quella a valle).
Confucio Ciavatta a sinistra,
alla Scuola Radioelettra di Torino.
Ma non era solo
Combúccie a mettere i dischi. Secondo
me, anche Don Cirillo li metteva, almeno nella mia fantasia di
bambino.
Arrivati infatti nei pressi alla sua casa canonica,
nell'attuale Piazza Giovanni XXIII, dove c'era anche il suo
cinema, che non capivo se fosse proprio suo o di San Vitale
(si chiamava Cinema San Vitale), ricominciava lì un altro
festival, l'altro festival, che era più o meno sempre
la
stessa canzàune di Confucio, nel senso che erano le
stesse canzoni, con la partecipazione straordinaria di Renato
Rascel, che cantava sempre "E' arrivata la bufera", anche se a
San Salvo c'era un sole che spaccava le pietre e si poteva
andare al mare, e di Renato Carosone, che cantava stranamente
ad un giovanotto, ma non so dirvi chi fosse: "
Comme si'
belle a cavallo a stu camello, tattatarete
tarattatarete tattatarete taratatà". Guarda di qua e
guarda di là, io questo cammello non lo vedevo proprio in giro
per San Salvo e manco di asini, che la domenica si godevano la
festa nelle stalle, ad eccezione di qualche cosiddetto animale
quadrupede a due zampe (modo di definire qualcuno asino), che
ignaro della sua condizione di bipede quadrupede, ascoltava
pure lui la canzone del cammello, come un asino in mezzo ai
suoni.
Esagerazioni, un po' dappertutto a parte, non era naturalmente
Don Cirillo, come seppi qualche anno più tardi, che metteva
quei dischi, ma
Dorúccie (Cassiodoro Artese), un
giovane aitante democristiano,
'nu mortaccése, per
indicare in dialetto un ragazzo intelligente, purtroppo
deceduto prematuramente a causa di una grave malattia, il
quale, la domenica mattina, con il permesso di Don Cirillo,
che lo esentava dalla messa per partito preso (Don Cirillo era
stato il fondatore del partito), si divertiva a fare il disk
jockey nella sezione giovanile della Democrazia Cristiana, che
stava nella stesso palazzo della casa canonica in cui
anch'egli abitava al piano primo, mentre lo stesso Don Cirillo
stava al piano terra, insieme ad Elisa, la sua perpetua, che
non ho mai capito se fosse sua sorella, o una
sorella
cuggina (cugina), come vociferavano i sansalvesi.
Fedeli sansalvesi in
pellegrinaggio. Al centro Don Cirillo. Alla sua sinistra
Elisa,la sua perpetuta, che i sansalvesi dicevano che era
sua sorella o una cugina.
Don Cirillo quindi c'entrava, anche allo stesso portone, ma
non centrava lui la puntina nel 1° solco del disco nel
giradischi.
E come poteva essere lui, poverino, che la domenica mattina
sopratutto, non aveva tempo neppure di farsi il segno della
croce, tanti erano i suoi impegni!
Ma lo immaginate, voi, Don Cirillo, che la domenica mattina,
alle 11:00, invece di cantare la messa cantata in chiesa,
accompagnato all'organo da
Uggénie lu sacrastane e
dal vecchio
coro celestiale di
Juccie la monache
ed altre
vezzóche (attempate nubili fedeli), metteva
il disco "
La donna riccia", lui che i capelli delle
donne, ricce e non ricce, bionde e brune, non le faceva manco
entrare in chiesa, se non coperte da un fazzolettone in testa?
Ma a me così mi
diciave la coccie (diceva la testa) e
pensavo fosse davvero lui.
Ne ero talmente convinto che me lo immaginavo addirittura con
il suo cappello
a treppézze in testa, il collarino
ecclesiastico al collo, la tonaca abbattonata sino ai piedi,
mentre metteva i dischi da dentro il suo studio per fare
pubblicità al film domenicale del suo cinema o di San Vitale,
dubbio che mi restò sino a quando non se lo ricomprò
Angiulìne
Biascìlle (Angelo Di Biase), che per far capire a tutti
che il cinematografo era suo e basta, e che non c'erano santi
che tenessero, il cinema, lo chiamò qualche tempo dopo
"Biagino", italianizzazione del suo soprannome.
Don Cirillo nel suo studio
nella casa canonica. Nella foto alle sue spalle Don
Camillo Artese. Don Camillo, che era fratello di Don
Cesare, a sua volta padre di Doruccio, alla sua morte donò
la sua quota di eredità alla Chiesa. Ed è questo il motivo
per cui Don Cirillo viveva in quella casa.
Era quindi Doruccio e non Don Cirillo a mettere quei dischi,
ed era bravo, naturalmente non come
Combúccie che
aveva studiato musica addirittura alla Scuola Radio Elettra di
Torino.
Ma perchè Doruccio metteva i dischi?
Era in atto, in quel periodo, ma io che ne potevo sapere, la
guerra calda degli altoparlanti, tra comunisti e
democristiani. Entrambi i partiti avevano installato nelle
rispettive sezioni dei potenti altoparlanti, appena usciti sul
mercato, e lì davano vita con i rispettivi microfoni, con i
quali tutti avrebbero voluto provare a cantare o parlare (
che
sa gna ze sente a lu mucrofene la vàucia ma'), ad
estemporanei ed improvvisi attacchi politici, a volte anche
personali, in cui si offendevano a vicenda, in diretta,
dicendosene tra di loro di cotte e di crude, che i sansalvesi
chiamavano "
lu contradditorie", che era una specie di
tribuna politica nell'etere, senza moderatore.
Quello che non so dirvi però è perchè quei dischi li metteva
la domenica solo la Democrazia Cristiana e non i comunisti.
Evidentemente, ma questa è solo una mia supposizione, i
comunisti non avevano soldi per comprarli, ed avevano solo il
disco di "Bandiera rossa" e mica potevano stare lì, da mattina
a sera, a dire al popolo: "
Avanti popolo alla riscossa,
bandiera rossa, bandiera rossa". Anche il comunista più
rosso di tutti, si sarebbe stancato di andare avanti. I
democristiani, invece, più ricchi, perchè prendevano i soldi
dal Vaticano, avevano una collezione di dischi più o meno come
quella di Renzo Arbore a Gianni Boncompagni nella trasmissione
radiofonica degli anni '60 "Bandiera Gialla", e quindi
facevano gli smargiassi, ma non il panettiere, Angelo
Smargiassi, che non aveva ancora aperto il forno in C.da
Garibaldi, perchè non ancora tornava dall'Australia.
Insomma, io ero un bambino e facevo tanta confusione.
Doruccie (Cassiodoro) Artese.
A ripensarci oggi, com'è bella la fanciullezza. E' sicuramente
l'età più bella della vita. Si capisce una cosa per un' altra,
ma il suo ricordo resta indelebile, almeno uno crede, fino a
quando, con il trascorrere del tempo, non sopraggiunge anche
un po' di arterio sclerosi ed allora bisogna mettere anche il
pannolone e, buonanotte ai suonatori, restando in tema
musicale.
Ripensare ogni tanto, però, a quei tempi belli, non costa
niente. Spesso ci ripenso. E come rivivire, tra ricordi
confusi, la propria bambinità, in un sogno reale ed irreale,
che ti riporta indietro nel tempo e ti strappa un sorriso,
sovente un po' amaro.
Ed a proposito di sogni, ve n’è uno, risalente alla mia
infanzia, che per me rimane il sogno della vita, ma non ditelo
a nessuno, innanzitutto per una questione di privacy e poi
perchè, detto sinceramente, me ne vergogno un po' raccontare
in giro, e scusatemi il termine, ma oggi si usa, i cazzi miei
agli altri.
Avevo all’incirca otto anni (1961) e
Combúccie e
Dorúccie
avevano già smesso di fare i disck jockej domenicali.
Don Cirillo,
ave' mésse méne (aveva messo mano) alla
demolizione dell'antica torre campanaria e della facciata
anteriore della chiesa, con conseguente ampliamento della
campata anteriore e ricostruzione dell'attuale campanile.
Ad eseguire i lavori venne incaricata l’ impresa Verre di
Vasto, una delle più importanti nella zona, insieme a quella
dei F.lli Molino, che invece aveva costruito qualche anno
prima, il nuovo Municipio.
L'impresa, ottemperando a ciò che erano le norme sulla
sicurezza del lavoro all'epoca vigenti,
ha 'ffelite
(mise in fila una sull'atra)
quattre tavéle
(quattro tavole) intorno alla zona interessata ai lavori,
creando una recinzione in piazza, tutta in legno, alta circa
un paio di metri, non accessibile ai non addetti ai lavori.
Anche Don Cirillo, naturalmente, dovette sloggiare.
Prese qualche santo, tra i più importanti (gli altri li
ammantò con un lenzuolo) e se li portò alla palestra della
scuola elementare di Via De Vito, da poco costruita, dove
c'era uno splendente e nuovissimo pavimento in plastica di
colore nero, che ben si addiceva ai funerali ed un po' meno ai
matrimoni, che iniziarono ad essere celebrati tutti lì,
insieme a tutte le altre funzioni religiose.
Corone funebri dopo la messa
funeraria alla palestra della Scuola Elementare di Via de
Vito.
Corteo funebre dopo la messa
alla palestra della Scuola Elementare di Via de Vito.
Per farla breve, anche se breve nonostante mi sforzi non
riesco ad esserlo, la facciata principale della chiesa venne
presto sventrata e dallo squarcio si intravvedevano dalla
piazza, al di là del recinto, l
e restìre de le
frabbecatìure (le impalcature) con tutte le
decorazioni, in alto, e le scritte dorate.
Noi bambini che abitavamo in piazza e nelle strade adiacenti,
che all’epoca non si chiamava ancora il Quadrilatero, perchè
gran parte della gente non conosceva né la matematica e né la
geometria, quando il cantiere era vuoto,
zumbavame gnè
grélle (saltavamo come grilli) la recinzione,
arranghénnece
(arrampicandoci) sulle tavole ed entravamo per gioco nel
cantiere e qualche volta anche dentro la chiesa sventrata.
Dentro quella chiesa ferita l’atmosfera era davvero spettrale.
Sembrava di stare in una chiesa scomunicata. Il silenzio ed il
rimbobo dei nostri stessi passi ci incuteva un senso di
terrore. Non ci spingevamo mai sin sotto l’altare. “
E
s’ariesce cacche morte?”, pensavamo, uno dei tanti morti
di cui lì c’era stata la cassa durante il funerale.
A rendere ancor più tetro quel luogo, fu quando scavarono
le
pedemìnte (le fondazioni) per l’ampliamento della nuova
campata e della nuova torre: fuoriscivano dai solchi tutte
le
ualetà (le specie) di ossa umane: ulne, femori, omeri,
braccia, mani, dita di scheletri, come radici spezzate e
penzolanti in un solco, rotte da uno escavatore durante lavori
di scavo.
Noi bambini però, in compagnia, ci facevamo coraggio, anche se
la paura, faceva novanta.
Zombavamo la recinzione e lì dentro al cantiere giocavamo,
riportando a sera, dentro le scarpe, sabbia e breccioline ed
altro materiale: “
Mortaccie’”, mi diceva mamma. “
Mo
te so’ fatte lu bagne. Me pire lu camie de Muléne. Se
‘rpurtate a la case mezze micchie de ràne e vràccele”
(Delinquente! Adesso ti ho fatto il bagno. Mi sembri il camion
dell'impresa Molino. Riporti ogni sera a casa sabbia e
breccioline).
Operai dell'Impresa Verre di
Vasto, al lavoro nella Chiesa di San Giuseppe.
Intanto i lavori procedevano ed avevano realizzato al grezzo
la nuova facciata ed il campanile.
Ed ecco un tardo pomeriggio d'estate, mentre giocavo con gli
amici nella piazzetta del palazzo scolastico, adiacente alla
chiesa, venirmi all’improvviso di fare pipì.
Potevo andare benissimo a casa dei miei nonni, che abitavano a
cinquanta metri, ma non lo feci.
Mi allontanai dagli amici e da solo, mi arrampicai al recinto
della chiesa ed entrai nel cantiere , e lì, dopo aver guardato
in alto, per vedere se da una finestra di qualche casa li’
vicina qualcuno potesse vedermi, me ne andai all’angoletto che
si era formato, dopo la ricostruzione del nuovo campanile, tra
il campanile stesso ed il muro della chiesa. Tirai fuori il
fratellino, che all’epoca era davvero piccolo, e cominciai a
fare pipì. C'era qualcosa però che non andava. La pipì
fuorisciva male: era come se
lu tibbue (il canaletto
urinario) si era mezzo
attúrete (ostruito),
'ntuppuáve
(intoppasse). Un istante dopo sentii
‘na cosa calle
abballe pe' le cósse (sentii qualcosa di caldo lungo le
gambe): avevo pisciato al letto.
Mi svegliai di soprassalto, accorgendomi non di averla fatta
nel cantiere, ma al letto e chiamai subito mia mamma, che
appicciò l’abajour e venne tutta allarmata (e ci credo erano
le due notte), mettendo un asciugamano sul materazzo,
cambiandomi, le mutande, cannottiera e le lenzuola.
"
Mo ardúrmete! Mortaccese notte e jurne!" (Adesso
riaddormentati! Peste di notte e di giorno), mi disse.
Avevo all'incirca dieci anni e da quella notte
'ngrazie a
De' (ringraziando Iddio), non feci più la pipì a letto,
anzi la rifeci, cinquant’anni dopo… la prostata, ma questa
volta chiamai mia moglie.
Siccise la vecchiaje (Sia maledetta la vecchiaia).
Ed a proposito di vecchiaia, consentitemi infine di usare
un'altra parolina detta
adderétte (direttamente, senza
giri di parole).
Un giorno chiesi a mio zio Mimi' Napolitano, ormai
anziano:"Zio Mimì! Come va
la pingarélle?".
E lui mi rispose:"
Zizi'!'Ngrazie a De' ca ci pescie".
E per celebrare indegnamente i santi misteri, il contrario di
come diceva Don Cirillo in chiesa, il nostro Don Cirillo,
faceva finta di non ascoltare quelle canzoni, ma in realtà gli
piacevano, specialmente quella di Renato Carosone che faceva:
"
Comme si' belle a cavallo stu camello, tattatarete
tarattatarete tattatarete taratatà".
Infatti quando se ne andò in pensione...
Era proprio bello il nostro Don Cirillo.. eh.
6 Ottobre 2021
N.B. Casomai, dopo la mia morte, diventerò uno scrittore
famoso, cosa molto probabile visti i precedenti, ed a
qualcuno venisse in mente di onorare la mia memoria, come si
usa di questi tempi per le persone che hanno dato lustro e
contributo alla nostra città, sarei molto lieto se venisse
apposta in questo luogo, alla presenza di tutte le
personalità, civili e religiose, una lapide in mio onore,
con il seguente epitaffio:
Quì, Fernando Sparvieri, sprezzante del pericolo, con
spirito eroico di corpo, scavalcò temerario ogni barriera,
per realizzare il sogno della sua vita. I posteri a
ricordo posero.
Ma anche questo resta solo un sogno di un povero stupido di
sapere.
NOTA
Mastro Luigi Di Iorio, sarto, definiva quelle persone che
credevano di sapere tutto loro, non sapienti, ma stupidi di
sapere.