Tra i personagggi più simpatici
sansalvesi che mi sono capitati a tiro quand’ero ragazzo,
merita un posto particolare, almeno per l’originalità, Pierino
Argentieri, detto
Pierine Rasannélle o
la
Rasannélle, che era il suo soprannome di famiglia.
Era un tipo esile di corporatura, magrissimo. Gran bevitore,
scapolo, pesava più o meno 50 chili. Da ragazzo aveva lavorato
con i muratori.
Lo ricordo un pomeriggio d’estate seduto su un gradino in C.so
Umberto I, con la sua cannottiera bianca, pulitissima, il
pantalone lungo nero e le scarpe lucide, come si usava a quei
tempi dopo la commercializzazione delle prime moderne mutante
e canotte intime di cotone.
Mi disse: “
Haja ringrazie’ stu vraccitélle" (Devo
ringraziare questo mio piccolo braccio). Aveva due braccia
esilissime. Era caduto da un’impalcatura
canda jave
appresse a ‘na squadre de frabbecatiure (quando lavorava
con i muratori) ed aveva su quel braccio delle cicatrici
evidenti, postumi di un intervento chirurgico. Mi disse,
mostrandomelo, che doveva ringraziare quel suo gracile
braccio, perché grazie a quell’incidente poteva godere di una
pensione, che seppur misera, gli consentiva di vivere con
tanti problemi, ma dignitosamente.
Era un buon pagatore Pierino.
Faceva debito un po’ dappertutto, al negozio di alimentari, ai
bar, ma quando riscuoteva la pensione, era preciso e puntuale:
pagava tutti.
Anche il tabaccaio. Andava a comprare le sigarette a
Marie
Tacchelle (Mario D’Achille), che si era ricomprato lo
spaccio di
Miccheline de Crapacotte (Michele
Fabrizio), la rivendita N.1 di sali e tabacchi del paese,
trasferendolo dal muraglione piccolo di Via Fontana all’inizio
di C.so Garibaldi, vicino l’Arco della Terra (dov’è oggi Foto
Gino).
Un giorno Pierino andò da Mario e gli disse:“
Damme nu
pacchette e naziunale (Dammi un pacchetto di nazionali).
Mario, seduto dietro il bancone, prese il pacchetto dallo
scaffale e glie lo posò sul pianale. Pierino, lasciò le
sigarette sul banco e gli disse: “
Mo acchiappe chèsse è
mettele vecene a chell’eddre” (Adesso prendi queste e
mettile vicino alle altre), volendogli far intendere di
aggiungere anche il costo di quest’ultimo pacchetto di
sigarette al debito che già aveva aperto con la tabaccheria.
E Mario, interpretando alla lettera ciò che gli diceva
Pierino, riprendeva il pacchetto di sigarette e lo rimetteva
nello scaffale. Pierino, serio, senza scomporsi, gli ripeteva:
“
Marie. T’aje dette damme nu pacchette e naziunale”.
Mario riprendeva le sigarette e glie le riposava sul bancone.
E Pierino di nuovo: “
Mo acchiappe chèsse è mettele vecene a
chell’eddre”. E Mario riprendeva il pacchetto di
sigarette e lo rimetteva al suo posto, nello scaffale.
Parea di stare in una specie di teatrino quando si incontrava
Pierino. Non aveva un innato senso dell’humor, nel senso che
gli piaceva fare battute. Erano i suoi modi di fare, le sue
uscite, spontanee e divertenti, a renderlo unico. Ogni tanto
qualcuno, come fece Mario quel giorno in tabaccheria, lo
sfotteva, scherzandoci un po’. Raramente si arrabbiava. Aveva
sempre la solita faccia, triste, che non lasciava mai
trasparire né emozioni e né nervosimo.
Gli piaceva farsi
nu bicchijre (bere il vino), ma
anche il liquore e si vedeva. Quando camminava, sin dal
mattino, aveva un andamento lento: un passetto avanti, un
altro ancora e poi mezzo passo indietro, alla ricerca
dell’equilibrio. Pareva ubriaco, ma quando parlava
affeléve,
cioè sapeva quel che diceva.
Abitava in 1° Vico Garibaldi, scendendo in fondo, quasi
all’imbocco su Via Savoia , in una casetta nghe
nu
biancatélle (piccola scalinata con pianerottolo
esterno). Ricordo che ero studentello delle superiori a Vasto,
ed un mattino, per prendere uno dei due pulmann scassatissimi
di Tessitore (
la pustale de Ujunéscie o de Tufèlle),
che fermavano in Piazza Papa Giovanni XIII, mentre percorrevo
a piedi C.so Garibaldi , lo sguardo mi cadde verso il vicolo
in cui abitava Pierino. C’era il camion dei pompieri. “Cos’è
successo?”, chiesi a qualcuno. “
Z’è bbruscéte Pierine”
(S’è bruciato Pierino), mi rispose.
Arrivò l’ambulanza e lo portò via. Mi dissero che Pierino,
nella stessa camera in cui dormiva , aveva una botte di vino a
cui aveva collegato un tubo di gomma sino al letto. Ogni sera,
prima di prendere sonno, già supino, si faceva
‘na
viviticcie (un sorso di vino) e fumava.
Quella notte, forse gli venne sonno mentre fumava: la
sigaretta gli cadde sul letto e si bruciarono Pierino e
materasso. Per fortuna dopo qualche giorno si rivide
nuovamente in giro per il paese. Dissero che si salvò perchè
nel sonno, con il caldo che faceva in camera, si lasciò
scivolare dal letto, cadde e si arrotolò sotto la botte, non
respirando molto il fumo che si propagò verso l'alto, nella
stanza.
Era per noi ragazzi, ma anche per molti adulti, un divertente
personaggio Pierino. Non era lo scemo del paese, come qualcuno
potrebbe pensare. Non era fesso.
Anzi, a modo suo, era molto intelligente. Solo che i suoi modi
di fare lo rendevano vulnerabile
a le rifricamìnde
(alle prese in giro) dei ragazzi, specialmente
de le
mannébbele de le frabbicatìure (degli apprendisti
muratori), che spesso e volentieri, quando capitava,
approfittando del fatto che era esile di corporatura e quindi
non faceva paura dal punto di vista fisico, conoscendolo, si
divertivano un po’ con lui, ma senza cattiveria.
Pierino se ne accorgeva ed agiva di conseguenza, con risposte
secche, mai banali.
Lo ricordo un pomeriggio mentre giocava a scopa al Bar Corso,
locale che Umberto Pollutri aveva aperto in C.so Garibaldi,
quasi all’incrocio con Via de Vito, frequentatissimo dai
giovani. Disse una frase che mi è rimasta appiccata adosso
sino a diventare un mio modo di dire.
Lo trovai lì che stava giocando
pétte a pétte (uno di
fronte all’altro) seduto ad un tavolino insieme ad un suo
coetaneo forestiero, scapolo come lui,
nu sbracciáte
(che aveva una mano di legno), che era venuto a lavorare alla
SIV.
Dietro di lui c’era un gruppo di ragazzi, circa una decina,
quasi tutti
mannébbele (apprendisti muratori), che
assistevano alla partita. Ma quella partita era l’ultimo dei
loro pensieri.
In realtà cosa combinavano:
cimendávane a Pierino (lo
importunavano).
Ogni tanto, a turno, come nel gioco dello schiaffo del
soldato, sbucava dal gruppo un piede tra i piedi, che spostava
lateralmente la sedia sulla quale era seduto Pierino, che
leggerissimo di peso, scivolava via, per mezzo metro sul
pavimento levigato.
Pierino con santa pazienza, faceva finta di niente. Senza
voltarsi dietro,
zétte ti e zétte jé (in silenzio),
come se niente fosse successo, faceva riscivolare la sua sedia
riaccostandola al tavolino e continuava a giocare.
Con quel suo atteggiamento era come se volesse far capire a
quei ragazzi che era inutile che continuassero a dargli
fastidio, tanto lui aveva capito che lo volevano far
incazzare, ma che lui non si sarebbe mai incazzato e quindi
era meglio smetterla.
Ma niente da fare. Era una sfida a chi avrebbe reagito per
prima.
Le vìsse (Le spinte) diventavano sempre più frequenti
con Pierino, che senza degnare mai di uno sguardo quei ragazzi
alle sue spalle, si riaggiustava in silenzio la sedia
raccostandola al tavolino.
Ad un momento, dopo l’ennesima spinta, si alzò e continuando
ad ignorare totalmente chi aveva alle spalle, si mise a
giocare in piedi.
Stette in piedi circa cinque minuti. Lui
a la rétte
(in piedi) e
lu sbracciate seduto. Poi si risedette.
Ma haimé non fece in tempo neppure a poggiare il sedere sulla
sedia che arrivò una nuova spinta, fortissima, che lo sospinse
violentemente a circa un metro dal tavolino. E fu allora che
Pierino, si alzò dalla sedia e guardando per la prima volta in
viso quei ragazzi, con tono di voce un po’ alterata, disse
loro: “
E che cazze è! Mo avaste nà. E na vo’, e diue e trà…
e quattre e cenghe (E che cavolo! Ed una volta, e due e
tre… e quattro e cinque)", concluse.
Colse nel segno. I ragazzi risero ma la smisero di fare i
cretini. Quel
quattre e cenghe fece capire loro che
stavano esagerando.
Non l’ho mai dimenticato quel
quattre e cenghe udito
quel giorno al bar del Corso ed ogni qualvolta mi capita di
sentire o vedere qualcuno che esagera, mi tornano in mente
Pierino e quella sua frase.
Come dicevo, difficilmente Pierino perdeva le staffe.
Stuccave
adderette (non le mandava a dire), però, quando qualcuno
gli diceva
Rasannélle, il suo soprannome.
Era quello il periodo, negli anni '60, in cui la gente si
arrabbiava per davvero se qualcuno gli diceva il soprannome ed
anche Pierino non poteva essere da meno. Era un' offesa
infamante, un disonore. Pierino non si arrabbiava di
certo ai livelli di
Zi' Biasce Sagnitelle, che quando
i soliti
mannébbele (apprendisti muratori) gli
dicevano il soprannome, li inseguiva e
se l'acchiappave
(se li avesse presi), li avrebbe ammazzati, tutti, veramente.
Pierino faceva volare al massimo qualche parola grossa.
Zi'
Biascie, invece, in quei frangenti, metteva paura,
diventava pericoloso. Era come se perdesse il ben
dell'intelletto. Non molto alto di statura, con un paio di
gambe arcuate alla cowboy, con la coppola in testa, appena
udiva
Sagnite', partiva a razzo, ad una velocità
supersonica, inseguendo, con il coltello, per serate intere,
quei ragazzi, che per precauzione, gli dicevano il soprannome
a distanza di sicurezza, essendo
Zi' Biascie, nonostante
l'età
, velocissimo, quanto e forse più di molti di
loro.
C'era insomma una differenza abissale di incazzatura tra i
due.
Chi fece arrabbiare Pierino fu un giorno
Vetale lu
barbire (Vitale, il barbiere). Vitale, che era un gran
giocherellone e che aveva il suo salone dirimpetto al piccolo
muraglione di Via Fontana, per un periodo gestì nello stesso
locale in cui aveva la barberia, anche un posto di telefonia
pubblica della SIP, con relativa cabina telefonica.
Pierino, che era suo cliente, in quel periodo, aveva in corso
la sua pratica di pensione di invalidità, di cui ho scritto
all'inizio di questo racconto, ed ogni tanto andava a
telefonare da Vitale all'ufficio INPS di Chieti per conoscerne
l'esito.
Dava un biglietto a Vitale, dove c'era scritto il numero di
telefono dell'Ufficio di Chieti e dopo avergli chiesto di
chiamare quel numero, parlava con l'impiegato addetto.
Vitale venne a sapere che l'impiegato gli aveva detto a
Pierino di richiamarlo tra una settimana.
A Vitale gli venne in mente di fargli uno scherzo. Parlò con
Mucci Bruno, di Torino di Sangro, che si era trasferito a San
Salvo ed aveva aperto una macelleria in C.so Umberto I, e
concertò insieme a lui, lo scherzo da fare a Pierino.
Lo scherzo consisteva nel fatto che quando Pierino sarebbe
tornato nel suo salone per telefonare all'INPS, egli, invece
di chiamare l'INPS, avrebbe chiamato Bruno, il macellaio,
facendo il numero della macelleria.
E così fece.
Pierino si recò al posto di telefonia e Vitale il barbiere
fece il numero di Bruno il macellaio.
"Pronto, pronto", disse Pierino al telefono.
"Pronto", gli rispose all'altro capo Bruno il macellaio.
"Io sono Pierino... Pierino Argentieri", spiegò Pierino.
"Chi?", gli chiese Bruno, facendo finta di non aver capito.
"Sono Pierino... Pierino Argentieri di San Salvo"
, ripetette
Pierino
.
"
Chi? Pierine Rasannelle?", gli chiese Bruno.
"
Ma chi cazze si' chiamate?" (Ma chi cavolo hai
chiamato?), si rivolse tutto incavolato Pierino a Vitale con
la cornetta in mano, rosso per la rabbia.
"
A lu nimmire che me se date ti!!!"
(Al numero
che mi hai dato tu), gli rispose Vitale.
"Gna cazze faciave, quelle dell'Inps, a Chijte, a sapà' lu
soprannome me?" (Come faceva l'impiegato dell'Inps, a
Chieti, a conoscere il mio soprannome), rincarò la dose
Pierino
"
E forze so' sbajate nìmmure" (E forse avrò sbagliato
numero), gli disse ridendo sotto i baffi Vitale, che poi gli
rifece il numero esatto.
Un altro a cui piaceva prendersi qualche pizzicata con
Pierino, ma senza cattiveria, era
Gine lu municarille.
Seduto davanti al bar Roma, in C.so Garibaldi, ogni qualvolta
che passava lì dinanzi Pierino, che abitava nel vicolo a
fianco, ordinava al barista ad alta voce: "
Seeee! Purteme
nu bicchìjre de Vecchia Romagne Etichetta Nera! Rase, rase,
però." (Silvio. Portami un bicchiere del brandy Vecchia
Romagna Etichetta Nera! Colmo colmo sino all'orlo, però).
Pierino, che non era fesso, quando Gino diceva al barista "
rase
rase", capiva che gli stava dicendo indirettamente
Rasannélle,
si fermava un istante e gli diceva, dinanzi a tutti:
"La
fr... de mammete". E se ne andava.
Pierino mi incuriosiva, mi intrigava. Era simpaticicissimo.
Volli conoscerlo meglio. Tanto feci che quando divenni adulto
iniziai a soffermarmi con lui. Nacque tra di noi una buona
amicizia. Quando lo incontravo, gli offrivo volentieri da bere
al bar e questo fatto lo rendeva felice ed orgoglioso della
nostra amicizia. Mi diceva sempre: “
Tu si’ de uneste”
(Tu sei onesto, sei una persona per bene).
Un mattino lo incontrai al Bar Bruno, in C.so Umberto I.
Appena lo vidi lo salutai e gli chiesi se prendeva qualcosa.
Mi rispose “
Nu vermút” (Un vermouth).
“
E ti che te péje?” (E tu che ti prendi), mi chiese.
“
Jé mo me péje nu bicchijre de latte” (Io prendo un
bicchiere di latte), gli risposi.
“
Che cazze!”, esclamò’, “
’Nt’ha vastiute lu látte
che se vàvete a la sàse de mammete canda ere quatrále?”
(Che cacchio! non ti è bastato il latte che hai bevuto al seno
di tua madre quando eri un infante?).
Era fatto così Pierino. Un personaggio unico, con il quale era
piacevolissimo trascorrere qualche ora insieme. Aveva sempre
la stessa faccia, seria. Non abbozzava neppure un sorriso, e
per questo motivo, quando se ne usciva con quelle sue tipiche
frasi ad effetto, era ancor più divertente.
Ho già intramezzato in alcuni miei racconti delle sue uscite
che non ho mai dimenticato. Se volete leggerne un altra,
cliccate
qui. A dire il vero, sicuramente la sua battuta più
bella è in un altro racconto in cui ho preferito conservargli
l’anonimato.
Non so se l’avete già letto. Magari leggendolo, capirete che
mi riferivo a lui. Ma essendo Pierino un amico, non potevo
fargli un torto, parlando chiaramente di una sua questione
personale, molto personale.
“
Tu si de unéste”, mi diceva.
7 Agosto 2022