Mastrángele
(Lu túrciutáure de Don Ercoline)
(Fatterelli)
di Fernando Sparvieri
Succedeva ieri e succede ancora oggi.
La segnuruáme, così erano chiamati i benestanti del
paese, in un'epoca in cui i pagamenti avvenivano
nghe lu
staje (con lo staglio), erano gli unici che avessero
disponibilità economiche immediate, ma al contrario di molta
povera gente, come spesso succede tutt'oggi, erano anche un
po'
carastìuse (avari).
Mastrángele, il fabbro, buongustaio, lo sapeva. Al
contrario dei contadini, infatti, che quando andavano a
chiamarlo in bottega, per fargli eseguire un lavoro nelle loro
case o nelle masserie, erano prodighi di
ciuvulàzze
(di gentilezze), invitandolo a restare a pranzo per fargli
assaggiare la ventricina, si era accorto che quando a
chiamarlo erano invece i benestanti del paese, il rapporto
umano con loro era freddo, senza allegria e sopratutto
ne
j cacciavéne (non gli offrivano)
mánghe nu
bicchijréne, (un bicchierino)
grósse gne nu ditale
(grande come un ditale)
de resólie (di rosolio).
Forse era questo il vero motivo per cui, quando a chiamarlo
erano i signorotti del paese, egli, che aveva fatto
dell'ironia la sua compagna di vita, non perdeva occasioni
pe'
fareìle scundua', che in dialetto sansalvese non
significava fare loro lo sconto, ma fargliela pagare veramente
("j le facciè scunduà": glie la farò pagare
),
come quella volta che venne chiamato, insieme a mio nonno
Mastr'Andonie
Sparvìre, falegname
, suo intimo amico,
a
casa di
don Ercoline, possidente terriero.
"
Bongiorne!" li accolse don Ercolino, vedendoli
arrivare. "
Ténghe 'stu turcitore vecchie e prime da
jttárele vulesse capì' se ze po'
arcungià' " (Ho questo vecchio torchio per pigiare
l'uva e prima di buttarlo vorrei sapere se vale la pena
riaggiustarlo)
, disse loro esprimendosi nella solita
parlata
arzicucculujéte (dialetto signorile), tipica
dei signorotti del paese.
Mastrángele, sornione, diede un'occhiata al torchio e
dopo un cenno d'intesa con mio nonno, gli rispose che
avrebbero fatto un tentativo, anche se, spiegò, viste le
pessime condizioni in cui versava, sarebbe stato quasi
impossibilile riaggiustarlo.
Senza pattuire alcun prezzo, presero il torchio e lo portarono
via.
In realtà
lu turciutàure non era poi così malandato.
Aveva bisogno solo di un po' di manutenzione. Mio nonno, con
un po' di carta vetrata, gli diede una ripulita alle doghe in
legno, mentre
Mastrángele, fece altrettanto alle
parti meccaniche, lubrificandole a dovere.
A lavoro ultimato, dopo avergli rimesso
la cére (la
cera), nel senso che il torchio riprese un bel aspetto),
decisero di riportarlo a casa di don Ercolino.
"
Mast'Ando'!" (Mastr'Antonio!)
, chiese
Mastrángele
a mio nonno per strada.
"Ma mo cànda j'ama cercá' a don
Ercolìne pe' qua'?" (Quanto gli vogliamo chiedere a don
Ercolino per questo lavoro?)
"E cánda j vu cercà'! Ne j séme fitte quáscie niende"
(E quanto gli vuoi chiedere! E' stato un lavoretto da niente),
gli ripose mio nonno.
"Je' mo j cérche cénghe lére" (Io gli chiederò cinque
lire), gli disse Mastrángele.
"Cénghe lére! Ma no è troppe! Je' me n'abbrevúgne"
(Cinque lire! Ma no è troppo! Io me ne vergogno), gli rispose
mio nonno, cercando di dissuadere Mastrángele da
quella esosa pretesa.
Fecero altri venti passi ed ecco Mastrángele parlare
di nuovo: "Mast'Ando'! Je' si' che te déche a tà? Je' mo j
cérche déce lére" (Mastr'Antonio! Sai cosa ti dico io?
Io gli chiederò dieci lire).
"Dèce lére!", esclamò mio nonno ancor più esterefatto.
"E' già tróppe cénghe lére e ti mo j ne vu' circà' déce! (Sono
già troppe cinque lire e tu adesso gliene vuoi chiedere
dieci!).
E intanto continuavano a camminare. Altri venti passi e Mastrángele:
"Mast'Ando'! Je' mo' j cérche quénece lére, anze
vénte" (Mastr'Antonio. Io, gli chiederò quindici lire,
anzi venti).
"Ma ti si stuputéte!" (Ma sei impazzito!), gli rispose
mio nonno, augurandosi che Mastrangéle, come al suo
solito, stesse scherzando.
Arrivarono a destinazione.
"Ue' bongiorne" (Buongiorno), disse loro don Ercoline
appena li vide arrivare in casa. "Allore canda vaja da'?"
(Allora quanto vi devo per il lavoro svolto?), chiese a Mastrangele,
non nascondendo la sua meraviglia nel rivedere il suo torchio,
bello, ripulito, come nuovo.
Mastrángele, dopo apparente meditazione, con faccia
seria, gli rispose: "Haésse, Donn'Ercolì' c'ha vulúte 'na
fatijáccie. Sème stìte attúrne a 'ssu turciutáure cénghe
jurne, sène, sène" (C'è costata una faticaccia per
rimettere a posto questo torchio. Siamo stati impegnati per
questo lavoro cinque giorni, interi). E poi sparò il prezzo. "Pe
'ssa fatéje, Donn'Ercolì', jste ca si' segnuré, ciavo'...
ventecénghe lére" (Per questo lavoro e per rispetto a
voi ci vogliono 25 lire).
"Súbbete! Súbbete!!!" (Pagherò subito), gli rispose don
Ercolino, andandosene al piano di sopra a prendere i soldi che
aveva in un forzierino.
Dopo un po' ridiscese: "Eccheve vendecinque lire e grazie!
Grazie assaje" (Ecco per voi 25 lire e vi ringrazio
tantissimo).
Mio nonno rimase senza parole. Ma restò ancor di più di
stucco, quando don Ercolino, raggiante per la felicità,
aggiunse: "J veramente penzave ca me ze ne jave per lo
minime cinquande lire. So' sparagnate vendecinghe lire!
Brave! Sete fatte nu bbelle lavore. So' cuntende" (Bravi!
Io veramente pensavo che avrei speso minimo 50 lire. Ho
risparmiato 25 lire. Avete fatto
proprio un bel lavoro).
E sempre don Ercolino, dopo qualche giorno, mandò a chiamare
di nuovo Mastrángele, perché doveva parlargli
urgentemente.
"Vu vedà ca quélle m'ha mannate a rchiamà' ca z'è n'è
ddunáte ca le séme frechìte?" (Vuoi vedere che Don
Ercolino mi ha mandato a chiamare perchè si sarà accorto che
lo abbiamo fregato), pensò Mastrángele dentro di sè.
Lasciò arme e bagaje (tutto ciò che stava facendo) e
si recò a casa di Don Ercolino.
Mentre saliva la gradinata della palazzina in cui abitava don
Ercolino, vide una chiavetta, vecchia, poggiata su un gradino.
"Chissà da quanto tempo sara quì", pensò. Gli piacque. La
raccolse e se la mise in tasca.
"Buongiorne Mastr'A'!" (Buongiorno Mastr'Angelo), gli
disse disperato appena lo vide Don Ercolino. "Haje pérze la
chiave de 'sta casciétte! Ze po' rfa'?" (Ho perso la
chiave di questa forzierino. Si può rifarne una uguale?)
Mastr'Angelo subito pensò che quella chiavetta che aveva
trovato per le scale, doveva essere proprio quella che cercava
don Ercolino.
"E nu poche difficéle a 'rfárele", gli
rispose, ben sapendo che era impossibile rifarne una copia
uguale, non avendo l'originale. "Però", aggiunse, facendo
finta di pensarci un po',"ci puzze spruvuà" (E' un po'
difficile rifarla, però posso provarci).
Si fece portare dalla serva un po' di farina, la impastò con
un po' d'acqua, e la mise dinanzi alla buco della serratura
del piccolo forziere, prendendone l'inutile impronta esterna.
Poi dopo aver salutato se ne tornò in bottega. Tirò fuori
dalla tasca quella chiavetta, le diede una ripulitina e dopo
qualche giorno tornò a casa di don Ercolino.
"Buongiorne Donn'Ercolì! Ecche! So' rfatte la chiàvàtte" (Buongiorno
Don Ercolino. Ecco! Ho rifatto la chiavetta), gli disse
appena lo vide: "Speriame ca va bbune?" (Speriamo
apra).
Infilò la chiavetta nella serratura ed il piccolo forziere,
dopo due giri di chiave, si aprì.
Ti' le mane d'ore! Si' nu mastróne!" (Hai davvero le
mani d'oro! Sei un grande maestro), iniziò a complimentarsi
con lui don Ercolino, ancora una volta raggiante di felicità.
Non so se Mastrángele si fece pagare lautamente anche
questa volta da Don Ercolino. Una cosa è certa: quando
raccontò l'accaduto a Mast'Andonie, per poco mio nonno
non crepò di risate.
Succedeva ieri e succede ancora oggi.
21 Gennaio 2022