Vi sono dei personaggi sansalvesi
che non ho avuto il piacere di conoscere di persona in quanto
vissuti in altra epoca, ma che in qualche modo, pur non
lasciando segni indelebili nella storia locale, sono
sopravvissuti per lungo tempo nella memoria collettiva
paesana, per poi finire, com'è naturale che sia, con il tempo
e con la mutata cultura delle nuove generazioni, nel mondo
dell'oblio.
Uno di questi è sicuramente il fabbro Mastr’Angelo De Felice,
classe 1884.
Una rara foto di Mastr'Angelo
De Felice, già anziano, dinanzi casa, mentre si aggiusta
gli occhiali. Alla sua destra la figlia Emma.
Mastrángele, scritto tutto una parola, così lo
chiamavano i sansalvesi, appartenente ad una famiglia di
antichi fabbri e maniscalchi locali, era un artigiano molto
bravo. Una sua opera, sopravissuta al tempo sino agli anni '80
del secolo scorso, era l’inferriata appuntita, fatta a mano,
al giardinetto del Monumento ai Caduti. Ciò che lo rese
tuttavia celebre in vita, e per lungo periodo anche dopo la
sua morte, fu il suo carattere gioviale, sagace, ironico e
sopratutto la sua nomea di buongustaio e di gran bevitore, con
predilezione assoluta per la carne, ed in particolar modo per
la ventricina.
Il recinto in ferro al
Monumento ai Caduti, realizzato da Mastr'Angelo De Felice.
L'ingresso della sua bottega di fabbro era nell'ultima
porta sulla sinistra che si vede nella foto.
Tanto per rendere l'idea di quanto
Mastrángele fosse
ingordo del buon vino e sopratutto della ventricina, si
racconta che nella sua bottega di Via Roma, dirimpetto al
Monumento ai Caduti, frequentata da amici e clienti,
sopratutto contadini, che d'inverno
ze javene a ntrattena'
(andavano ad intrattenersi) per fare due chiacchiere e
riscaldarsi con le cappe vicino ai carboni ardenti della
forgia, uno di essi iniziò a lamentarsi dei suoi problemi di
salute, dicendo che era stato a farsi visitare da un
bravissimo medico di Vasto, lodandone la professionalità.
“
Ma t’ha dette se pu’ magna’ la ventrecéne? (Ma ti ha
detto se puoi mangiare la ventricina?)”, gli chiese
Mastrángele,
sornione.
“
Scié! Le puzze magna’” (Sì posso mangiarla), gli
rispose il contadino.
“
Chesse è midiche!!!” (Questo sì che è un bravo
medico), esclamò
Mastrángele tra il serio e molto
faceto.
Questa sua battuta, apparentemente banale, cela invece tutta
la personalità e l'arguzia del personaggio, capace di uscite
originali, frutto di un suo spiccato umorismo e della sua
visione alquanto filosofica della vita.
Altro fatterello che aiuta a capire meglio il suo modo di
essere, sempre in vena di uscite apparentemente fuori luogo,
ma sempre ponderate, è il seguente. Un giorno, nella sua
bottega, due saputi, che
ne sapavéne manghe esse addo'
tenavene le pite (che non sapevano neppure loro dove
avessero i piedi)
, na'cacchie de stipúte (una
coppia di stupidi)
si direbbe alla sansalvese,
iniziarono
a discutere tra di loro, come spesso succede tutt'oggi sui
social, di un argomento non proprio alla loro portata.
Mastrángele,
solito sornione, se ne rese subito conto e mentre lavorava
cucciujéve, cioè accennava sì con la testa, facendo
intendere di dar ragione ad uno e non all'altro. Quest'ultimo,
vedendo che
Mastrángele pareva dargli torto, era
diventato
nu’ pizzicàlle (piccolo piccolo) e
j ze
n'ave' jute la parole (non parlava più), e se ne stava
lì mogio mogio, mentre l'altro si era gonfiato di saputismo
come un pallone. A quel punto
Mastrángele intervenne e
rivolgendosi al contadino a cui pareva aver dato torto gli
disse: “
Tu si' n'asene! Però cusséddre è... chiù
asene de tà” (Tu sei un asino. Però il tuo interlocutore
è più asino di te), sgonfiando il pallone e ristabilendo pari
dignita di ignoranza tra i due.
Nella foto non figura Mastr'
Angelo, ma suo fratello Mastro Raffaele De Felice, il
primo a destra con i baffi, ritratto nella sua bottega di
Via Roma. Da sinistra suo figlio Mastro Filippo e suo
nipote Raffaele, figlio di Filippo, emigrato in Argentina.
Il ragazzo al centro è Nicola De Felice , altro figlio di
Mastro Raffaele, che da adulto proseguirà l'attività
paterna. Sfuggono le generalità dell' apprendista fabbro
alla sinistra di Mastro Raffaele.
Mastrángele era fatto così. Aveva un humour
particolare. Si divertiva, scherzando al limite e superando
talvolta, come nel caso precedente, anche la misura. La gente
lo sapeva e non se la prendeva più di tanto, anzi lo
considerava, per certe sue uscite estemporanee, un
personaggio, un gran simpaticone.
"
Caccie ch'è cútte" (Scola la pasta che è cotta),
disse un giorno al proprietario di una trattoria a Vasto,
quando gli venne servito a tavola un piatto di pasta. Questa
sua battuta fece epoca ed è ancora attuale tra le vecchie
generazioni, quando, scherzando, qualcuno vuole far intendere,
ad esempio ad un cameriere, facendo una battuta, che il piatto
di pasta appena servitogli non è abbondante, ma paragonabile
ad un assaggio, per verificare la cottura. Altro simpatico
modo di dire rimasto alla storia, da molti attribuitogli, ma
non ne ho la certezza, è il seguente botta e risposa: "
A
chi le purte su piattàune?" (A chi lo porti quel piatto
ricolmo di cibo)". Risposta dell'interlocutore: "
A tà"
(A te)". Battuta finale: "
A mà 'ssu piatticcie?" (A me
quel piattino?).
Il suo nemico numero uno era la verdura. La odiava. In una
società contadina povera, in cui un po' tutti erano
vegetariani per necessità e la carne scarseggiava, aveva la
grande sfortuna di essere un carnivoro nato, con una grande
passione, come già detto, per la ventricina, che era in cima
alla lista dei suoi desideri. E se la ventricina non c'era, si
accontentava anche di altro: l'importante era che non si
trattasse di verdura. Mi disse di lui Ennio Di Pierro che gli
raccontò suo padre,
Mastre Virginie, muratore, che
Mastrángele
un giorno fu capace di ingurgitare, uno dopo l'altro, una
cinquantina di uova fresche, svuotando il cesto ad un
contadino, che non aveva di meglio da offrirgli.
"Ne l'haje ma' véste a magna' nu féle de jérve" (Non
l'ho mai visto mangiare un solo filo di erba), mi disse di lui
Pietruccio Marzocchetti, per sottolineare la sua avversione
totale per la verdura.
Suo grande ed inseparabile amico era mio nonno
Mastr’Antonie
Sparvire (Mastro Antonio Sparvieri), classe 1887. Si
completavano a vicenda.
Mastrángele, di carnagione
chiara, normale di statura, con un paio di baffoni
argrecchìte
(appuntini all'nsù), ingialliti dal tabacco e dal vino, era,
come già detto, un tipo estroverso, sempre pronto a far
battute; mio nonno, invece, dalla corporatura alta e snella,
era un tipo più riservato, che apprezzava molto le uscite ad
effetto del suo amico, trovandosi molte volte, suo malgrado,
in talune circostanze buffe, a fargli da spalla.
Mastro Antonio Sparvieri
La loro amicizia era nata per motivi di lavoro. In pratica,
mio nonno, falegname e mastro carraio, costruiva
le
trajéne (i carri), e
Mastrángele realizzava i
cerchi ed altri accessori in ferro per completare il lavoro.
Provvedevano insieme, ognuno per il suo mestiere, anche a
lavori di riparazione e manutenzione dei carretti, che con le
strade di campagna dissestate dell'epoca, spesso si rompevano.
Per questo motivo i proprietari
de le trajéne ze
le tenàvene a chìure (li tenevano da conto) ed avevano
nei loro confronti sempre un occhio di riguardo.
“Sta la vendrecene?”
(Hai la ventricina?), era la prima domanda che Mastrángele
rivolgeva ai suoi clienti, quando gli chiedevano di recarsi
a casa loro o nelle masserie per eseguire qualche lavoretto.
E poi aggiungeva: “Aesse ci serve piure Mastr’Andonie”
(per fare questo lavoro ci serve anche Mastr’Antonio), sia
quando ci serviva che quando non ci serviva.
Quasi sempre la ventricina era la ricompensa per il lavoro
svolto. I contadini, conoscendolo, già sapevano di questa sua
richiesta ed erano loro stessi a dirgli, per invogliarlo ad
andare subito: “
Vi’ ca tinghe ‘na bella vendrecene”
(Vieni che ho una bella ventricina). Spesso erano i casolani,
che avevano i carri per i buoi, a chiamarli nelle loro
masserie nelle periferie del paese. Dopo la riparazione,
facevano
atravuddà' nu tuneccie (capovolgere un grosso
tino), che fungeva da
banghe (tavolo) e lì, sotto
a
'na cerche (all'ombra di una quercia), d'estate, si
abbuffavano di ventricina e bevevano litri di vino.
"
Mastr'Ando'! Chiacchiera chia'!", diceva a mio nonno
quando si perdeva in convenevoli con i padroni di casa,
invitandolo a non perdersi in chiacchiere.
A
Mastrángele la ventricina piaceva mangiarla a
catucchie, cioè senza tagliarla con il coltello. Ne
sfilava
pezzáte (pezzi interi)
da la vescéche
(dall'involucro esterno, fatto con la vescica del maiale) e
così come venivano fuori, intrisi di pepe rosso piccante, li
masticava e li ingoiava
séne séne (con un sol
boccone).
Ne era talmente ghiotto, che un giorno
Zi' Carméne Zappetti,
che aveva la masseria vicino al fiume Treste
, a la
cucciàtte de Lendelle, gli disse che purtroppo la sua
ventricina era andata a male e che puzzava.
Mastrángele
volle esaminarla. La odorò e rivolgendosi direttamente alla
ventricina, esclamò:
"E ca ti pìzze! Je' me te frèche lu
stuàsse" (E che tu puzzi! Io mi ti mangio lo stesso). Si
turò il naso e la divorò tutta.
Tanto grande era il suo amore per la ventricina ed altrettanto
immenso era il suo odio, feroce, per le verdure, in modo
particolare
pe' la chicàccie (per le zucchine). Non
riusciva proprio a digerirla.
Ed un giorno ne diede ampia dimostrazione
a lu pópele e a
lu Cummìune (al popolo ed al Comune), cioè dinanzi a
tutti.
Un anno, egli e mio nonno, cosa insolita per i loro caratteri,
fecero
le debbutéte de la feste de Sande Vétale
(i deputati della festa di San Vitale).
La mattina della festa, il 28 Aprile, uscirono per il paese.
Arrivati all'altezza della Porta della Terra,
Mastrángele
vide che nello spiazzetto dirimpetto al palazzo de Vito, dove
i pescivendoli vastesi si mettevano per vendere il pesce,
c'era un ortolano, anch'egli vastese, che era venuto a vendere
le zucchine.
Pensò dentro di sé:
"Ma tu vede ch'aja veda' je'! Lu jurne
de la féste de Sande Vetale, la ggènte ha da magna' la carne
e que' ve' vànne le chicaccie! Mo ci penze je'" (Ma
guarda un po' cosa mi tocca vedere! Il giorno della festa di
San Vitale, la gente deve mangiare la carne e questo ortolano
viene qui a vendere le zucche! Adesso ci penserò io).
Non disse nulla a mio nonno delle sue intenzioni. Gli chiese
solo di seguirlo.
Vi’ nghe ma’”, (Vieni con me), gli disse. Lo portò nella
sua bottega di fabbro, prese due
robusti
torcimisse
(in italiano torci naso), un attrezzo usato dai fabbri
per immobilizzare durante la ferratura
le bistie
(asini, cavalli e muli), composto da una bella mazza robusta
con una corda a mo di cappio ad una estremità, ne diede uno in
mano a mio nonno, che non riusciva a capire cosa dovesse
farci, ed insieme si riavviarono verso la piazza (per sapere
cos'è
lu turcimìsse o
torciamisse vedere il
video a fondo pagina).
Nella foto Vittorio Di
Paolo, allievo del fabbro Nicola De Felice, nipote
di Mastr'Angelo, con nu torcimìsse in mano. (Per
comprendere a cosa serviva e come funzionava vedere il
video a fondo pagina).
“
Canda vu’ tutte ssi chicaccie?” (Quanti soldi vuoi per
vendermi tutte le tue zucchine?), chiese
Mastrángele
all'ortolano vastese appena arrivò al suo cospetto.
“
Tutte quénte le vu’ segnura’? ” (Volete comprarle
tutte?) gli rispose meravigliato l'ortolano, non aspettandosi
una tale e totale richiesta.
“
Scie’!” (Sì!), gli rispose
Mastrángele.
L'ortolano gli fece il conto e
Mastrángele pagò senza
batter ciglio.
"A
llàre addo' te l'aja purtà tutte sti chicàccie?"
(Allora in quale casa devo portare tutte queste chicocce), gli
chiese l'ortolano, pensando che servissero per far mangiare i
bandisti, che all'epoca, non essendovi ristoranti in paese,
erano ospiti a pranzo di famiglie sansalvesi.
"C'ha da purtà!!!" (Cosa devi portare!!!), gli rispose
Mastrángele,
quasi adirato
. "
Mo artravudde 'tutte se
chjicàccie 'nterre!!!" (Adesso capovolgi questi
canestri pieni di chicocce per terra).
E ca da fe'? (E cosa devi fare)
, gli domandò
esterefatto l'ortolano in dialetto vastese.
"J'aja fa fa 'na magnìte de chicàccie a stu
bastàune’!" (Devo far fare una mangiata di
chicocce a questo bastone), gli rispose mostrandogli la mazza
de lu torcimisse.
"
Mast' Ando'! Damme 'na méne (Mastr'Antonio!
Dammi una mano), disse a mio nonno che seppure incredulo, non
potè fare a meno di aiutarlo.
E alè... iniziarono a prendere
a turturánne (a
bastonate) il mucchio di chicocce.
“
Giusucràste me!!!” (Gesù Cristo mio), iniziò a gridare
l'ortolano, mettendosi le mani nei capelli, nel vedere le sue
chicocce tutte
squaquarejte (tutte scuonquassate)
sotto i colpi
de le turcimìsse.
I pezzi di chicoccia volavano di qua e di là.
Richiamato dal clamore della gente, che si era fermata a
guardare l'inimmaginabile scena, si affacciò sull’uscio della
sua cantina-trattoria, che era a qualche metro di distanza,
Zi'
Angele Balduzze, che vedendo cosa stava succedendo,
rientrò dentro, prese una pala e si rese utile:
arcuzzéve
(rimetteva nel mucchio) i pezzi di chicoccia
spatrejte
(sparsi)
pe loche a fore (lì intorno).
Quando le chicocce vennero ridotte completamente a poltiglia,
Mastrángele finalmente si fermò, e rivolgendosi
all’ortolano vastese, gli disse:
“Auanne ‘ssa sàrte l’ha vìute le chicàccie (Questanno,
questa sorte l’ hanno avuta le chicocce).
Se auannechebbe’,
lu jurne de la feste de Sande Vetale, vi arvànne le
chicàccie a écche, ‘ssa sàrte la j ti’” (Se l’anno
prossimo, il giorno della festa di San Vitale, tornerai qui a
vendere le chicocce, quella sorte l’avrai tu).
21 Gennaio 2022
VIDEO
Mastrángele
VIDEO
L'arteggiéne (Gli artigiani)
VIDEO
Lu torcimisse