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Ogni mondo è paese, ma il mio paese è il mio mondo.
Fernando Sparvieri







Ma chi sarebbero li salvanése

I racconti di Fernando Sparvieri



Un po' di storia locale raccontando personaggi








Mastrángele
(La Strage delle chicoccie)
(Fatterelli)

di Fernando Sparvieri

Vi sono dei personaggi sansalvesi che non ho avuto il piacere di conoscere di persona in quanto vissuti in altra epoca, ma che in qualche modo, pur non lasciando tracce indelebili nella storia locale, sono sopravvissuti per lungo tempo nella memoria collettiva paesana, per poi finire, com'è naturale che sia, con il tempo e con la mutata cultura delle nuove generazioni, nel mondo dell'oblio.

Uno di questi è sicuramente il fabbro Mastr’Angelo De Felice, classe 1884.

Mastrángele, scritto tutto una parola, così lo chiamavano i sansalvesi, appartenente ad una famiglia di antichi fabbri e maniscalchi locali, era un artigiano molto bravo. Una sua opera, sopravissuta al tempo sino agli anni '80 del secolo scorso, era l’inferriata appuntita, fatta a mano, al giardinetto del Monumento ai Caduti. Ciò che lo rese tuttavia celebre in vita, e per lungo periodo anche dopo la sua morte, fu il suo carattere gioviale, sagace, ironico e sopratutto la sua nomea di buongustaio e di gran bevitore, con predilezione assoluta per la carne, ed in particolar modo per la ventricina.

Il recinto in ferro al Monumento ai Caduti, realizzato da Mastr'Angelo De Felice. L'ingresso della sua bottega di fabbro era nell'ultima porta sulla sinistra che si vede nella foto.


Tanto per rendere l'idea di quanto fosse ingordo, si racconta che nella sua bottega di Via Roma, dirimpetto al Monumento ai Caduti, frequentata sopratutto da contadini che d'inverno ze javene a 'ntráttena' (andavano ad intrattenersi) per riscaldarsi con le cappe vicino ai carboni ardenti della forgia, uno di essi raccontò di essere andato a Vasto a farsi visitare da un medico, lodandone la bravura.

Ma t’ha dette se pu’ magna’ la ventrecéne? (Ma ti ha detto se puoi mangiare la ventricina?)”, gli chiese Mastrángele, sornione.

Scié! Le puzze magna’” (Sì posso mangiarla), gli rispose il contadino.

Chesse è midiche!!!” (Questo sì che è un bravo medico), esclamò Mastrángele tra il serio e molto faceto.

Questa sua battuta, apparentemente banale, cela invece tutta la personalità e l'arguzia del personaggio, capace di uscite originali, frutto di un suo spiccato umorismo e della sua visione alquanto filosofica della vita.

Altro fatterello che aiuta a capire meglio il suo modo di essere, sempre in vena di uscite apparentemente fuori luogo, ma sempre ponderate, è il seguente.

Un giorno, nella sua bottega, due saputi, che ne sapavéne manghe esse addo' tenavene le pite (che non sapevano neppure loro dove avessero i piedi), insomma na'cacchie de stipúte (una coppia di stupidi) si direbbe alla sansalvese, iniziarono a discutere tra di loro, come spesso succede tutt'oggi sui social, di un argomento non proprio alla loro portata.

Mastrángele, che era un intelligentone, se ne rese subito conto e mentre lavorava, ascoltandoli in silenzio, ogni tanto cucciujéve, cioè accennava sì con la testa, facendo intendere di dar ragione ad uno di loro e non all'altro. Quest'ultimo, vedendo che Mastrángele pareva dargli torto, era diventato nu’ pizzicàlle (piccolo piccolo) e j ze n'avé' jute la parole (non parlava più), mentre l'altro, si era gonfiato di saputismo come un pallone. A nu belle mumènde (Ad un bel momento) Mastrángele, sornione, tirò la stoccata e rivolgendosi a colui a cui pareva aver dato torto gli disse: “Tu si' n'asene! Però cusséddre te fréche” (Tu sei un asino. Però il tuo interlocutore è più asino di te), sgonfiando il pallone e ristabilendo pari dignita de gnurantetà (di ignoranza) tra i due.

Nella foto non figura Mastr' Angelo, ma suo fratello Mastro Raffaele De Felice, il primo a destra con i baffi, ritratto nella sua bottega di Via Roma. Da sinistra suo figlio Mastro Filippo e suo nipote Raffaele, figlio di Filippo, emigrato in Argentina. Il ragazzo al centro è Nicola De Felice , altro figlio di Mastro Raffaele, che da adulto proseguirà l'attività paterna. Sfuggono le generalità dell' apprendista fabbro alla sinistra di Mastro Raffaele.


Mastrángele era fatto così. Aveva un humour particolare. Si divertiva, scherzando al limite e superando talvolta, come nel caso precedente, anche la misura. La gente lo sapeva e non se la prendeva più di tanto, anzi lo considerava, per certe sue uscite sagaci, un personaggio da tenere in considerazione, in grado di dire,  con  molta  ironia, condita da punte di sarcasmo, assolute verità sui comportamenti umani.

"Caccie ch'è cútte" (Scola la pasta che è cotta), disse un giorno al proprietario di una trattoria a Vasto, quando gli venne servito a tavola un piatto di maccheroni.

Questa sua battuta fece epoca ed è ancora attuale tra le vecchie generazioni. Lo si usa quando, scherzando, qualcuno vuole far intendere, ad esempio ad un cameriere, che il piatto di pasta appena servitogli non è abbondante, ma paragonabile ad un assaggio, per verificare la cottura.

Altro simpatico modo di dire rimasto alla storia, da molti attribuitogli, è il seguente botta e risposta, sempre in materia culinaria: "A chi le purte su piattàune?" (A chi lo porti quel piatto ricolmo di cibo)". Risposta dell'interlocutore: "A tà" (A te)". Battuta finale: "A mà 'ssu piatticcie?" (A me quel piattino?).

Il suo nemico numero uno era la verdura. La odiava. In una società contadina povera, in cui un po' tutti erano vegetariani per necessità e la carne scarseggiava, aveva la grande sfortuna di essere un carnivoro nato, con una grande passione, come già detto, per la ventricina, che era in cima alla lista dei suoi desideri. E se la ventricina non c'era, si accontentava anche di altro: l'importante era che non si trattasse di verdura.

Mi disse Ennio Di Pierro, figlio di Mastre Virginie, muratore, che suo padre gli raccontò che un giorno Mastrángele si mangiò una cinquantina di uova, uno dopo l'altro, svuotando il cesto ad un contadino, che a casa non aveva di meglio da offrirgli.

Un'altra storiella sul suo conto, raccontatami da mio padre, è quella in cui, mentre stava lavorando in bottega, venne a sapere da un suo cliente casolano, disperato, che gli era era morta una vacca e che il veterinario gli aveva ordinato di seppellirla perchè la sua carne non era commestibile. A quei tempi quando una vacca si ammalava il più delle volte la sua carne, con autorizzazione del veterinario, si vendeva a basso macello nelle macellerie. In questo caso però la malattia contratta dall'animale era grave e quindi ne era stata ordinata la sepoltura diretta.

Mastràngele appurò il posto in cui la vacca avè state arbeláte (era stata seppellita), organizzò una spedizione notturna con alcuni suoi affamati amici e andarono a sbelárle (a dissepperllirla) facendo carnèvale (Carnevale), modo di dire dialettale per indicare una lauta mangiata, anche se Carnevale non è.

"Ne l'haje ma' véste a magna' nu féle de jérve" (Non l'ho mai visto mangiare un solo filo di erba), mi disse di lui Pietruccio Marzocchetti, per sottolineare la sua avversione totale per la verdura.

Suo grande ed inseparabile amico era mio nonno Mastr’Antonie Sparvire (Mastro Antonio Sparvieri), classe 1887. Si completavano a vicenda. Mastrángele, normale di statura, con un paio di baffoni argrecchìte (appuntini all'nsù), ingialliti dal tabacco e dal vino, era, come già detto, un tipo estroverso, sempre pronto a far battute; mio nonno, invece, dalla corporatura alta e snella, era un tipo più riservato, che apprezzava molto le uscite ad effetto del suo amico, trovandosi molte volte, suo malgrado, in talune circostanze buffe, a fargli da spalla.


Mastro Antonio Sparvieri
La loro amicizia era nata per motivi di lavoro. Mio nonno, falegname e mastro carraio, costruiva le trajéne (i carri), e Mastrángele realizzava i cerchi ed altri accessori in ferro per completare il lavoro. Provvedevano insieme, ognuno per il suo mestiere, anche a lavori di riparazione e manutenzione dei carretti, che con le strade di campagna dissestate dell'epoca, spesso si rompevano. Per questo motivo i proprietari de le trajéne ze le tenàvene a chìure (li tenevano da conto) ed avevano nei loro confronti sempre un occhio di riguardo.

Sta la vendrecene?” (Hai la ventricina?), era la prima domanda che Mastrángele rivolgeva ai suoi clienti, quando gli chedevano di recarsi nelle loro case o nelle masserie per riparare un carretto. E poi aggiungeva: “Aesse ci serve piure Mastr’Andonie” (per fare questo lavoro ci serve anche Mastr’Antonio), sia quando ci serviva che quando non ci serviva.

Quasi sempre la ventricina era la ricompensa per il lavoro svolto. I contadini, conoscendolo, già sapevano di questa sua richiesta ed erano loro stessi a dirgli, per invogliarlo ad andare subito: “Vi’ ca tinghe ‘na bella vendrecene” (Vieni che ho una bella ventricina).

Spesso erano i casolani, che avevano i carri per i buoi, a chiamarli nelle loro masserie nelle periferie del paese. Dopo la riparazione, facevano artrávuddà' nu tunéccie (capovolgere un grosso tino), che fungeva da banghe (tavolo) e sotto a 'na cerche (all'ombra di una quercia), d'estate, si abbuffavano di ventricina e bevevano litri di vino.

"Mastr'Ando'! Chiacchiera chia'!", diceva Mastrángele a mio nonno quando si perdeva in convenevoli con i padroni di casa, invitandolo a non perdersi in chiacchiere.

A Mastrángele la ventricina piaceva mangiarla a catucchie, cioè senza tagliarla a fette con il coltello. Ne sfilava a pezzáte (a pezzi) con le mani direttamente da la vescéche (dalla pelle esterna realizzata con la vescica del maiale) e così come venivano fuori, intrisi di pepe rosso piccante, li masticava e li ingoiava séne séne (a pezzi interi).

Ne era talmente ghiotto, che un giorno Zi' Carméne Zappetti, che aveva la sua masseria a la cucciàtte de Lendelle, vicino alla confluenza del fiume Treste nel Trigno, gli disse che la sua ventricina purtroppo gli era andata a male e puzzava. Mastrángele volle esaminarla. La annusò e poi rivolgendosi direttamente alla ventricina, esclamò: "E ca ti pìzze! Je' me te frèche lu stuàsse" (E che tu puzzi! Io mi ti mangio lo stesso). Si turò il naso e la divorò tutta.

Come già detto, tanto grande era il suo amore per la ventricina ed altrettanto immenso era il suo odio, feroce, per le verdure, in modo particolare pe' la chicàccie (per le zucchine). Non riusciva proprio a digerirla.

Ed un giorno ne diede ampia dimostrazione a lu pópele e a lu Cummìune (al popolo ed al Comune), cioè dinanzi a tutti.

Un anno, egli e mio nonno, cosa insolita per i loro caratteri, fecero le debbutéte de la feste de Sande Vétale (i deputati della festa di San Vitale).

La mattina della festa, il 28 Aprile, uscirono per il paese. Arrivati all'altezza della Porta della Terra, Mastrángele vide che nello spiazzetto dirimpetto al palazzo de Vito, dove i pescivendoli vastesi si mettevano per vendere il pesce, c'era un ortolano, anch'egli di Vasto, che era venuto a vendere le zucchine.

Pensò dentro di sé: "Ma tu vede ch'aja veda' je'! Lu jurne de la féste de Sande Vetale, la ggènte ha da magna' la carne e que' ve' vànne le chicaccie! Mo ci penze je'" (Ma guarda un po' cosa mi tocca vedere! Il giorno della festa di San Vitale, la gente deve mangiare la carne e questo ortolano viene qui a vendere le zucche! Adesso ci penserò io).

Non disse nulla a mio nonno. Gli chiese solo di seguirlo.

"Vi’ nghe ma
” (Vieni con me), gli disse. Lo portò nella sua bottega di fabbro, prese du' torcimisse (due torci naso), un attrezzo usato dai fabbri per immobilizzare durante la ferratura le bistie (asini, cavalli e muli), composto da nu turtàure (una bella mazza robusta) nghe 'na zàcque (con una corda) legata a mo di cappio non scorrevole ad una estremità, ne diede uno in mano a mio nonno, che non riusciva a capire cosa dovesse farci il giorno di San Vitale, e gli disse di nuovo di seguirlo.

Nella foto Vittorio Di Paolo, allievo del fabbro Nicola De Felice, nipote di Mastr'Angelo, con nu torcimìsse in mano. (Per comprendere a cosa serviva e come funzionava vedere il video a fondo pagina).


Giunti in prossimità dello spiazzetto in cui c'era l'ortolano, Mastrángele si diresse direttamente verso di lui e gli chiese: “Canda vu’ tutte ssi chicaccie?” (Quanti soldi vuoi per vendermi tutte le tue zucchine?).

Tutte quénte le vu’ segnurà’? ” (Volete comprarle tutte?) gli rispose meravigliato l'ortolano, non aspettandosi una tale e totale richiesta.

Scie’!” (Sì!), gli rispose Mastrángele.

L'ortolano, forse pensando che servissero per far mangiare i bandisti, che all'epoca, non essendovi ristoranti in paese, erano ospiti a pranzo dei deputati della festa o di famiglie sansalvesi, gli fece il conto e Mastrángele pagò senza batter ciglio.

"Allàre addo' te l'aja purtà tutte sti chicàccie?" (Allora in quale casa devo portare tutte queste chicocce), gli chiese l'ortolano.

"C'ha da purtà!!!
" (Non c'è da portare nulla), gli rispose Mastrángele con voce perentoria, dicendogli poi con tono imperativo: "Mo artravúdde 'tutte se chjicàccie 'ntérre!!!" (Adesso capovolgi questi canestri e butta tutte le chicocce per terra).

E ca' da fe'?
(E cosa devi fare), gli domandò l'esterefatto l'ortolano in dialetto vastese, non riuscendo a capire il motivo.

"
J'aja fa fa 'na magnìte a stu bastàune’!" (Devo far fare una mangiata di chicocce a questo bastone), gli rispose mostrandogli la mazza de lu torcimisse.

E alè... iniziò a prendere a turturánne (a bastonate) il mucchio di chicocce.

"Mast'Andó'! Damme 'na méne (Mastr'Antonio! Dammi una mano), disse a mio nonno che seppure incredulo, non potè fare a meno di aiutarlo.

Giusucràste me!!!” (Gesù Cristo mio), iniziò a gridare l'ortolano, mettendosi le mani nei capelli, nel vedere le sue chicocce tutte squaquarejte (tutte scuonquassate), sotto i colpi de le turcimìsse.

I pezzi di chicoccia volavano per la strada di qua e di là.

Richiamato dal frastuono e dal clamore della gente, che si era fermata a guardare, Zi' Angele Balduzze, si affacciò sull’uscio della sua cantina-trattoria, che era a qualche metro di distanza dal luogo del misfatto, e divertito dalla scena, rientrò dentro, prese una pala e diede il suo contributo: arcuzzéve (rimetteva nel mucchio) i pezzi di chicoccia spatrejte (sparsi) pe lóche a fóre (lì intorno).

Quando le chicocce vennero ridotte completamente a poltiglia, Mastrángele finalmente si fermò, e rivolgendosi all’ortolano vastese, ormai impietrito, gli disse:

“Auanne ‘ssa sàrte l’ha vìute le chicàccie. Se auannechebbe’, lu jurne de la feste de Sande Vetale, vi arvànne le chicàccie n'andra vo' a écche, ‘ssa sàrte la j ti’” (Questanno, questa sorte l’hanno avuta le tue chicocce. Se l’anno prossimo, il giorno della festa di San Vitale, tornerai qui a venderne altre, quella sorte l’avrai tu).

21 Gennaio 2022



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Mastrángele

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