Izzarìlle
(Domenico
Iezzi)
(Fatterelli)
di Fernando Sparvieri
Proseguendo a navigare nel mare dei ricordi della mia piccola
San Salvo, altro personaggio, rimasto impresso nella mia
memoria di bambino, è sicuramente
zi' Dumèneche Izzarille
(Domenico Iezzi).
Era personaggio unico, caratteristico, di animo buono. L’unico
difetto che aveva, oltre a qualche altro vizietto che lo rese
popolarissimo, era quello che avevano in tanti in quel
periodo:
sgabbejéve, che significava nella parlata
muratoresca bere il vino, sino ad ubriacarsi.
Quando ciò succedeva mutava il suo carattere e ne sapeva
qualcosa la povera
za’ Miccalìccie, sua moglie,
una
donnona altissima, paziente, che aveva il suo bel da fare per
calmarlo.
Zi' Dumèneche glie ne diceva di tutti i
colori, con urla che si sentivano inevitabilmente
féne a
la piazze (fino in piazza). Pare, a detta di un vicino
di casa, che non gli piacesse molto
gna cucinéve (come
cucinasse)
za' Miccalìccie, alquanto vegetariana per
necessità, costretta ad arrangiarsi con quel che passava il
convento e per questo motivo, la sera, quando tornava a casa,
stanco dal lavoro, dove non toccava un solo goccio di vino,
trovandosi nel piatto spesso verdure e verdurine, lui che
preferiva altro, specialmente la carne (e nel prosieguo del
racconto capirete sino a che punto), si arrabbiava di brutto e
se ne andava a pancia vuota in cantina, ubriacandosi, con
inevitabili altre discussioni al suo ritorno in casa.
Abitavano sul piccolo
muraglione di Via Fontana, quello de lu spaccie de
Crapacotte, e dirimpetto alla loro casa, sulla strada
in discesa, prima di svoltare pe la ve’ de la fànte,
c’era la farmacia, l’unica del paese, che era di proprietà
del dott. Giovanni Ialacci, giovane farmacista sansalvese,
che qualche anno dopo si trasferì dapprima a Chieti e poi a
Roma.
Giuvuanne Ialacci, così lo chiamavano i sansalvesi,
udendo, spesso e malvolentieri, questi piccoli
scialétte
(liti-show) che dava
ze’ Dumèneche, quasi ogni sera,
si scocciò e confidò a qualcuno del vicinato: “
A quesse, a
Izzarille, se ne lle smàtte, j faccie fa' le carte” (A
Iezzi, se non la smetterà di sgridare a sua moglie, gli farò
fare le carte e lo farò ricoverare al manicomio).
Non si sa come
questa minaccia tornò alle orecchie di
zi' Dumenche, che un giorno, al bar Balduzzi, in
presenza di alcuni giovani, tra cui c'era anche mio zio
Antonino Sparvieri, fratello maggiore di mio padre, che mi
raccontò il fatto, così se ne uscì:
“
Quelle!" (Colui)
, disse riferendosi a
Giovanni Ialacci.
"Ha dette ca me vo' fa fa' le
carte! (Ha detto che vuole farmi fare le carte per
mandarmi in manicomio).
Ocche me le fa fa' le carte! (Me
le facesse pure fare le carte)"
, continuò:
"Je’
ci vaje a lu manecomie e canda stinghe a elle..."
(Io ci andrò al manicomio e quando sarò lì...)
"Lu preme jurne" (Il primo giorno) cominciò a
spiegarsi:
"Azzá’? Azzà’! A fatijé’? A
fatijé! A magná’? A magná'! A rfatejé’? A
rfatejé’! A rmagná'? A rmagná’! A durmé’? A
durmé’!"
Tradotto in italiano voleva dire questo: "Il primo giorno
che sarò al manicomio, al mattino, mi diranno che è ora
svegliarmi ed io mi sveglierò; dopo la sveglia, mi diranno che
c'è da svolgere qualche lavoro ed io lavorerò. Poi mi diranno
che è ora di pranzo ed io andrò a mangiare. Nel pomeriggio mi
diranno che c'è da fare qualche altro lavoretto ed io lo farò;
a sera, mi diranno che è ora di cenare e cenerò; poi mi
diranno che è ora di andare a dormire ed io andrò a dormire".
"Lu sucande jurne" (Il secondo giorno), continuò a
spiegarsi: "
Azzá’? Azzà’! A fatijé’? A fatijé! A
magná’? A magná'! A rfatejé’? A rfatejé’!
A rmagná'? A rmagná’! A durmé’? A durmé’!"
E così anche il terzo giorno:
"Azzá’? Azzà’! A
fatijé’? A fatijé! A magná’? A magná'! A
rfatejé’? A rfatejé’! A rmagná'? A rmagná’! A
durmé’? A durmé’!""
"Doppe tre quattre jurne che stinghe a lóche",
si avviò a concludere il suo ragionamento,
"lu direttore me
mánne a chiamà' e me déce a mà:
«Scusa Iezzi,
ma chi ti ci ha mannato aécco?». E jé j'arspànne:
aécco mi ci ha mannato Giuvuanne Ialaccie, il
farmacisto. E lu direttore me dece a mà:
«Sai
che vuoi faro, Iezzi? Arváttene tu
a la caso e dije a Giuvuanne Ialacci, al
farmacisto, che ci venisso lui qua»".
Trad. "Dopo tre quattro giorni che sarò in manicomio, il
direttore mi manderà a chiamare e mi dirà: «Scusa Iezzi, ma
chi ti ci ha mandato qui?
». Ed io gli risponderò:
"Qui,
mi ci ha mandato il dottor Giovanni Ialacci, il farmacista".
Ed il direttore mi dirà: «Sai cosa devi fare, Iezzi? Tu
ritornatene subito a casa tua e vai dal farmacista e digli che
ci venisse lui qua, al manicomomio»".
Non era mica fesso
zi' Dumèneche Izzarille. Era un
personaggio. Per certi versi un eroe locale per molti
sansalvesi. Durante la guerra civile in Spagna (1936-39), che
poi portò alla dittatura del generale Franco, si era arruolato
volontario, è li era diventato un ottimo artificiere. Dopo la
seconda guerra mondiale, fu egli a sminare i campi minati
della campagna sansalvese. Era esperto di dinamite.
Si racconta, a tal proposito, che un giorno decise di disfarsi
del suo vecchio cane. Erano altri tempi e la gente non andava
tanto per il sottile con gli animali. Erano molti i cacciatori
che quando il loro cane diventava vecchio e malato, gli
sparavano, per non farlo più soffrire.
Zi Dumenechè, non avendo il fucile, pensò di farlo
saltare in aria con la dinamite, in campagna. Prese una bomba,
glie la legò al collo, accese la miccia e si mise a correre.
Ma il cane, vedendolo correre, si mise a correre dietro di
lui. Fu inutile dirgli
marciallà (vai via). Fece
appena in tempo a trovare un rifugio, prima che il povero cane
saltasse in aria.
Ciò che lo rese famoso, tuttavia, che vi farà sobbalzare in
aria più del suo cane, fu la sua nomea di mangiatore di gatti.
Pare che proprio in Spagna, con la fame che gli rivoltava
l'intestino, insieme ad altri commilitoni, si mangiò un gatto
spagnolo, di proprietà della moglie di un ufficiale, a cui
faceva da attendente, che misteriosamente sparì dal salotto.
Stessa sorte, al suo ritorno, toccò a qualche altro povero
gatto italiano, invitando al banchetto anche suoi amici, ai
quali aveva detto
ca ere 'na cunéje (che era un
coniglio). Quando se ne accorsero era ormai troppo tardi e fu
inutile tentare di vomitare. Pare che ne sappia qualcosa
la
hatte de Cucciàtte, suo vicino di casa,
sparita
improvvisamente dai radar del quartiere.
Ma lasciando perdere questa sua nomea, che oggi fa ribrezzo,
ma un tempo era oggetto addirittura di risate da parte di
molta gente, vi è un aneddoto simpaticissimo di
Zi'
Dumèneche, che mi raccontò mio padre.
Era morta da poco la moglie
de Rezzìre (Riziero),
l'anziano fratello di
zi' Duméneche, che abitava a
Vasto, e mio padre, appresa la notizia, incontrandolo, gli
fece le condoglianze.
“Condoglianze Dumue’!” gli disse. ”
Haje sapìute ca’
a Rezzìre j z’è morte la màje. Me
despiace" (Condoglianze Domenico. Ho saputo che è morta
la moglie a Riziero. Mi dispiace). Poi così, giusto per
aggiungere qualcosa ai convenevoli, gli disse ancora:
"Che
fa Rezzìre. Sta bbone? E' parecchie che ne lle
vàde” (Che fa Riziero. Sta bene? E' parecchio tempo che
non lo vedo).
“
Sta bbone. Sta bbone!” (Sta bene, sta bene!), gli
rispose
Zi Dumèneche, che
a conferma
dell'ottimo stato di salute dell'anziano fratello, rimasto
vedovo, gli confidò: “
Si' che m'ha dette? M’ha
dette ca ze vo' 'rhúnue’. «
Ncaniscie nisciune?»
(Sai cosa mi ha detto Riziero?
Mi ha detto che
vorrebbe riunirsi con qualche donna. «Ne conosci qualcuna?».