Aberte lu campesandáre
(Alberto il camposantaro)
di Fernando Sparvieri
Altro personaggio della mia
adoloscenza che ricordo sempre con affetto e tanta
simpatia è Alberte lu campesandare, così lo
chiamavano i sansalvesi.
Alberto, che di cognome faceva Torino pur essendo nato a
San Salvo, come avrete già intuito dal nomignolo
affibbiatogli, di mestiere faceva il necroforo. Scuro di
carnagione, con i capelli brizzolati, era persona seria,
un bonaccione, dedito alla famiglia ed al lavoro. Aveva
però anch’egli quel vizietto, che avevano in tanti in
quella società ancora contadina: gli piaceva molto il
vino. Ciò lo rendeva un personaggio simpatico quando era
brillo, anche se, a dire il vero, io non l’ho mai visto
ubriaco fradicio.
Sono tanti gli aneddoti che si raccontano su di lui. Uno
dei più famosi è quello che un pomeriggio, mentre scavava
una fossa per riesumare un defunto, trovò una bottiglia di
vino accanto al morto, che i parenti, il giorno della
tumulazione, gli avevano messo nella bara per farglielo
bere all'altro mondo. Era vino stagionato e Alberto non
gli fece dire manghe Gisì (manco Gesù), nel senso
che se lo scolò all’istante, dormendo poi come un ghiro,
al cimitero, sino al mattino seguente.
Naturalmente il suo mestiere di becchino lo portava ad
essere considerato dalla gente come un personaggio un po’
fuori dal comune, avendo a che fare sempre con i morti,
che, è inutile nasconderlo, incutono nei vivi un senso di
rispetto e tristezza, ma anche di timore per l'ignoto. La
gente, si sa, rispetta i defunti, ma nessuno, io compreso,
si avventurerebbe di notte al cimitero, per una paura che
a pensarci bene non avrebbe motivo di esistere. “Devi aver
paura dei vivi e non dei morti”, dice un vecchio detto,
però credo siano in pochi coloro che abbiano il coraggio
di avventurasi da soli, di notte, al chiaror di luna, in
un cimitero buio, tra croci e lapidi e vedere fotografie
dei defunti, che sembrano fissarti e inseguirti con lo
sguardo.
A tal proposito si racconta che una sera, al bar de
Vitarìlle (di Vito Ialacci), in piazza San Vitale,
un gruppo di mannébbele (giovani apprendisti
muratori) si misero a scherzare con Alberto, mettendo in
discussione il suo coraggio.
Uno di loro gli disse: “Secondo me ti ti’ pahìure a
jè' de notte da sàule a lu cambesánde” (Secondo me
tu, Alberto, hai paura ad andare di notte da solo dal
cimitero).
“Je’ tinghe pahìure?” (Io ho paura?), gli rispose
Alberto, sorridendo.
“Vulàme scummuàtte ‘na butte’ de berre ca ti ti'
pahìure?” (Scommettiamo una bottiglia di birra che
tu di notte hai paura ad entrare da solo al cimitero?),
gli propose il giovanotto.
E scommisero.
Partirono tutti insieme verso il cimitero.
Giunti alla porta d'ingresso Alberto entrò. Gli altri
rimasero fuori ad aspettarlo.
Alberto si fece un giretto tra le tombe quando alle sue
spalle udì: “Uhhhhhh!!!”. Era un fantasma avvolto
ad un lenzuolo bianco.
“Uhhhhhh???”, gli rispose Alberto, senza voltarsi.
“Paghe la bérre” (Paga la birra), concluse.
Quei ragazzi gli avevano architettato uno scherzo. Per
farlo spaventare, alcuni di loro si erano introdotti nel
cimitero prima che arrivasse Alberto, ed uno di essi si
era travestito da fantasma. Ma Alberto, com'era
prevedibile, non ci cascò, vincendo la scommessa.
Come si sa il becchino, così si chiama in italiano lu
campesandáre, è un dipendente comunale. Alberto
quindi si recava spesso al Comune per parlare con il
Sindaco, con il segretario comunale e qualche impiegato.
Eravamo nei primi anni ’70 e naturalmente a comandare in
quegli anni, sindaco o non sindaco, era sempre Do’
Lelle (Vitale Artese), che divenuto segretario
provinciale della D.C., ogni settimana tornava da Chieti e
si recava in Comune per una specie di supervisione.
I tempi stavano mutando e nei negozi di alimentari erano
arrivati i primi prodotti dentro i barattoli di latta e
già si vedeva in giro qualche piccolo supermarket.
Alberto, un giorno invitò a casa sua a pranzo Do'
Lelle, il Sindaco, il segretario comunale ed un
impiegato comunale.
“E che j fi magnà'?” (E cosa ci farai mangiare),
gli chiese Do’ Lelle.
“Ti ‘nde ne ‘ncareca” (Tu non preoccuparti), gli
rispose. “Ve faccie magnà' nu piatte de maccariune. Le
cóce jè. Faccie nu sìgue che fa leccà le baffe” (Vi
farò mangiare un piatto di pasta. Cucinerò io. Farò un
sugo che ti farà leccare i baffi).
“E’ gna è ssu sìgue”(E come è questo sugo), gli
chiese Do’ Lelle.
“E’ ‘na specialetà" (E' una specialità).
“E gna le fi?” (E come lo prepari), gli chiese Do’
Lelle, incuriosito.
“L’accátte a lu supermercate. Sta dàndre a 'na
scatelàlle”, (Lo compro al supermercato. E' dentro
una scatoletta di latta), gli rispose Alberto.
“E de che marca è?” (E di che marca è?), gli chiese
di nuovo Do’ Lelle.
“Ne saccie” (Non lo so), gli rispose Alberto. “A
la scatelàlle ci sta artrattáte ‘na hattìccie”
(All'esterno vi è ritratto un gattino).
Ed una sera, io ero ancora un ragazzo, incontrai mio
padre, che era Sindaco, il dottor Goffredo Tilli, medico
condotto, ed il Segretario Comunale Pietro Di Clemente, in
Piazza San Vitale. Erano lì a parlare del più e del meno a
due passi dal luogo in cui sorgeva, prima della
demolizione, la Porte de la Terre.
All’improvviso ecco uscire dal Bar de Vitarìlle Alberto.
Vedendo il sindaco, il segretario comunale ed il dottor
Tilli, si avvicinò e venne a salutarli.
Dopo un po’ fece loro una domanda: “Vi' che séte jute a
la scole, me sapate addécce chi ci sta aécche, sàtte a
de ni’?” (Voi che avete studiato, mi sapete dire
cosa c'è qui, sotto di noi) ed incominciò ad indicare con
l’indice una mattonella in catrame, ai suoi piedi, del
vecchio pavimento della piazza.
Restarono tutti divertiti e sorpresi da questa domanda di
Alberto. Cosa volesse dire però, con quella sua domanda,
nessuno riusciva ad azzeccare. Chi gli diceva che c’era il
sottosuolo, chi una cosa, chi un’ altra. Mi avventurai
anch’io in una risposta. Siccome da bambino avevo visto
gli scavi per l’ampliamento della chiesa di San Giuseppe e
ad avevo visto con i miei occhi centinaia di ossa di
scheletri che uscivano come radici recise dai solchi delle
fondamenta, gli dissi: “Sta le murte” (Ci sono
scheletri umani).
“Ma che murte e murte!” (Ma che morti e morti!), mi
rispose Alberto.
E dopo un po’ svelò il mistero.
“Aécche, sàtta a de ni'” (Qui, sotto i nostri
piedi), disse indicando con il dito sempre la stessa
mattonella, “ci sta l’Australie” (c'è l'Australia).
E poi si spiegò meglio.
"Se ti fi' nu caviute aécche, addo' sta 'sta matunélle,
e cavìuta cavìuta, a rijscie a chell'áddre quárte, ci
truve l'Australie" (Se tu fai un buco qui e perfori
e perfori il terreno, uscirai nell'altro emisfero e ci
troverai l'Australia).
Ma l'aneddoto forse più bello di Alberto è quello con il
maresciallo dei carabinieri. Si racconta che un giorno il
maresciallo, vedendolo brillo, forse per indurlo a bere
meno, gli disse:" Alberto, io ti schiaffo dentro".
Alberto lo guardò e gli rispose:"Marescià! Se me
schìffe dàndre ti, jè ariéscie! Ma se te scáffe dàndre
jé, ti n'arijscie chìje" (Maresciallo se mi metti
dentro tu, io prima o poi riuscirò. Ma se ti metto dentro
io, non riuscirai mai più).
10 Settembre 2022
Nella foto Alberto Torino è
il primo in alto a sinistra.