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Ogni mondo è paese, ma il mio paese è il mio mondo.
Fernando Sparvieri







Ma chi sarebbero li salvanése

I racconti di Fernando Sparvieri



Un po' di storia locale raccontando personaggi







Evaristo Sparvieri

Il pantalone di Taranta Peligna
(Fatterelli)

di Fernando Sparvieri





Racconto scritto nel centenario della nascita di mio padre,
il maestro elementare Evaristo Sparvieri


A Palmoli

Avevo 3 anni quando mio padre, dopo anni di insegnamento a lu Pandane, a Casalemonaci, a la Uardióle, varie contrade tra Lentella e Fresagrandinaria, dove si recava anche con la neve in bicicletta, guadando con gli stivaloni il fiume Treste, venne trasferito al bivio di Palmoli, in contrada “Fonte La casa”, dove c’era Zi' Valdéine (Zio Valentino).

Suo figlio, proprio al bivio tra Palmoli e Tufillo, aveva una stazione di carburanti dinanzi la sua casa,  oltre ad un negozio di alimentari, che gestiva la moglie. Gli piaceva bere a Zi’ Valdéine. Non era un ubriacone, ma con il freddo che faceva, era un buon metodo, molto usato nei comuni di montagna, per tenere calde le membra.

“Maestro”, gli diceva Zi’ Valdéine a mio padre, quando andava a comprare qualcosa al negozio: “Te vu fa’ nu bicchijre?”.

“No grazie”, lo ringraziava mio padre, attobbanandolo (riempendolo), come me, di chiacchiere.

Ma a Zi' Valdejne importavano poco quelle chiacchiere. Aspettava solo il momento buono, un attimo di pausa di mio padre nel suo discorso, giusto per riprendere fiato, per dirgli:” Maestre. J mo me le faccie”. E beveva.

La scuola era lì a due passi dal benzinaio. Quasi di fronte c’era la vecchia casa dei Molino, l’impresa di costruzioni che già si era trasferita a Vasto. Nelle vicinanze c’era anche la casa di capo Maiale, il capo cantoniere che negli anni ’60 si trasferirà a San Salvo. Ricordo Giuseppina, la sua giovanissima figlia, il cui nome vero era Carmela, mentre andava a prendere l’acqua e poi tornare, con una conca in testa ad una fonte che stava un paio di centinaia di metri dalla casa del benzinaio, percorrendo un viottolo di campagna.

Al maestro era riservata una casa speciale: la scuola.

La sua ubicazione era proprio al bivio tra la vecchia strada Trignina, quella chiamata la ve’ de Palmule, che aveva realizzata ai suoi albori l'impresa di Filippo Molino, e quella che collegava Palmoli a Tufillo. Era un alloggio dentro la scuola. C’era una cucina, una camera da letto ed il bagno. Aprendo una porta, dall’alloggio, il maestro entrava direttamente in aula, l’unica, molto grande, frequentata da una classe mista.

Erano tutti più grandi di me quei bambini e mi volevano un gran bene: ero il figlio del maestro. Gli alunni avevano tutti il grembiule con il colletto bianco, ma da ciò che si vedeva sotto, pantaloni, calze e scarpe, sempre infangate, vestivano alla meglio, con quel che passava il convento, e non solo quello famoso di Palmoli.




Davide Caruso Ogni tanto veniva a trovare mio padre, Davide Caruso, il direttore. Se ricordo bene era di Carunchio e vi era una buona amicizia tra loro. Lo ricordo chiaro di carnagione, un po’ pelatello, ma non troppo. Era un educatore eccelso, intelligentissimo. Gli piaceva ascoltare le storielle paesane, di cui mio padre era gran conoscitore. Gli disse un giorno a mio padre, parlando di pedagogia e didattica: “Evari’ a 'sse uajune ambarateje a legge e scrive. Ne j facéte fa la ginnastiche ca già le fanne appresse a li péchere” (Evaristo a questi bambini insegnate sopratutto a leggere e scrivere. Non fate fare loro molta ginnastica perchè già ne fanno tanta pascolando le pecore).

Da Fonte la Casa, la mia casa era davvero lontana. Tornavamo a San Salvo solo nei fine settimana, quando era possibile, con la corriera, ed era già una fortuna. Le macchine, le moto, ed anche i telefoni e chi te le dave (scarseggiavano).

Ricordo una sera arrivò mio Zio Mimì, il fratello di mia mamma, con il suo camion. Era morta a San Salvo d’improvviso, con un infarto, nonna Giuseppina, la mamma di mio padre.  Era venuto a dare la ferale notizia ed a prenderci per riportarci a San Salvo. L’ambiente al ritorno era cupo dentro la cabina di quel camion, come il buio che aleggiava nella notte. A me però piacque farmi quel viaggetto, con le luci gialle dei fanali, che prima delle curve, illuminavano dentro al bosco, e poi tornavano ad illuminare la strada, bagnata.

Ricordo come un sogno il giorno appresso il funerale. I miei nonni abitavano vicino al Municipio e la cassa venne calata con delle funi da una finestra al primo piano. Forse era difficoltoso trasportarla per le scale. Sono ricordi che restano impressi come fotografie indelebili nella mente dei bambini.

Ed a proposito di funerali, per poco non ci rimisi la pelle anch'io, a Palmoli, a Fonte la Casa.

Lì dirimpetto, vi era una bella casa di un signore un po’ taciturno. In compenso, però, aveva un cagnolino, dal pelo lungo marrone, che si chiamava Lupetto, che abbaiava sempre. Non aveva stretto molta amicizia con mio padre quel signore, forse più per timidezza. Ogni tanto, si affacciava dinanzi casa, per richiamare quel cagnolino che faceva baccano, e forse per far vedere al maestro che anch'egli sapeva parlare bene in italiano, gridava: “Lopitto! Lopitto!”. Non ricordo il suo cognome, ma per me restò per sempre il signor Lopitto.

E’ fu proprio lì, nello spiazzo antistante la sua casa, che per poco non ci rimisi le penne.

Ricordo che c’era la neve e quel giorno mio padre, forse per il freddo, non mi portò con lui dal benzinaio, dove andava a trattenersi spesso di pomeriggio.

Era appena tornato a piedi, con gli stivali, da Palmoli. Era andato a riprendere un pantalone che si era fatto cucire da un sarto palmolese. Era da un po’ che aspettava che glie lo cucisse. Qualche tempo prima aveva mandato a prendere la stoffa a Taranta Peligna, famosa anche quei tempi, per la produzione di una stoffa pesante, di lana doppia, che avrebbe fatto comodo anche al Polo nord, agli esquimesi. Poi era tornato a casa e lo aveva dato a mia madre per appenderlo da qualche parte. Poi se ne era andato, forse da Zi' Valdéine.



Fatto sta che non so come, uscii fuori anch’io. Mia madre intenta a fare qualche faccenda domestica non se ne accorse.

Non fu un’automobile (ne passava una ogni morte di papa) quasi a farmi la pelle, ma nu panderàune (una grossa pozzanghera), che si era formata nel pomeriggio, forse con la neve disciolta sotto un  pallido raggio di sole.

Come fanno tutti i bambini, che sguazzejàjene (camminano giocando con l'acqua) nelle pozzanghere, anch’io ne venni immediatamente attratto.

Iniziai piano pianino a camminarci dentro con le scarpine, bagnandomi subito anche le calze, quando all’improvviso… piombai dentro un tombino, senza coperchio, come in una trappola nell'acqua.

Fortuna volle che l’acqua mi arrivò  sino alla gola. Non ho mai dimenticato quei momenti. Non so cosa sarebbe successo se quel pozzetto fosse stato di qualche palmo più profondo. Inorridisco al solo pensiero.

Spaventato, bagnato e piangente, riuscii a tirarmi fuori da quella trappola improvvisa, e zuppo fradicio tornai di corsa a casa.

Non ricordo bene cosa mi disse mia madre vedendomi. Si spaventò moltissimo e sicuramente ringraziò Sant'Antonio, di cui era devota.

Ricordo che mi spogliò tutto, mi asciugò e mi ficcò al letto, andandosene dopo un po' in cucina a scaldare forse dell'acqua per lavarmi e far asciugare le scarpe bagnate. 

Ma io non volevo starci in quel letto. Avvertivo le lenzuola fredde sulla pelle. Ero nervosissimo.

All’improvviso balzai fuori dalle coperte ed in piedi sul letto, come un pazzo scatenato, iniziai a far volare di tutto per la stanza, tutto ciò che mi capitava a tiro.

Volò prima un cuscino, poi l'altro e poi... il pantalone di Taranta Peligna di mio padre, che vidi ricadere sulla cenere di un braciere, che mi parve spento.

Dopo un po’ un fumo scuro frammisto ad un odore acre invase la stanza.

Mamma ma’”, disse mia madre, quando allarmata dalla quella puzza di bruciato, che proveniva dalla camera da letto, vide quei pantaloni bruciare nel braciere.

La brace, che covava sotto la cenere, lo aveva bucherellato in più punti. Gli diedi uno sguardo mentre mia madre lo portava via: agli orli di ogni buco, vi erano piccoli filamenti di fiammelle, che si accendevano e si spegnevano, riempiendo l'aria di fumo.

Quando tornò mio padre, non disse nulla. 

Poverino aveva aspettato un mese che gli arrivasse la stoffa da Taranta Peligna. Poi li aveva fatti cucire dal sarto a Palmoli. Poi era andato a piedi, con la neve a riprenderseli, ed erano bastati trenta secondi per bruciare quel pantalone pesantissimo, realizzato con quella stoffa alta due dita, invernale, di Taranta Peligna, forse un sogno della sua vita.

Si diedero le vacanze e tornammo a San Salvo.

Faceva caldo ad Agosto.

Sentivo un caldo terribile, in piazza, con quei pantaloni corti, di Taranta Peligna.


13 Ottobre 2021

P.S.

Non ho mai dimenticato la famiglia di Zì' Valdéine. Il suo cognome era Bolognese, anche se era Palmolese. Suo figlio, il benzinaio, si chiamava Peppino ed aveva, all'epoca, un unico figlio, di nome Pino, mio compagno di giochi in quell'unico anno scolastico di mio padre a Palmoli. Avevo da adulto sempre desiderato rivederlo e qualche anno addietro, avendo saputo che si era trasferito a San Salvo, ho avuto il piacere di incontrarlo.

Alcuni anziani concittadini palmolesi, ora residenti a San Salvo, sentendomi parlare di Zi' Valdéine, mi hanno raccontato alcuni suoi aneddoti, che lo hanno reso famoso a Palmoli. Ciò spiega anche perchè mio padre, spesso andava a trovarlo. Doveva essere un tipo alquanto ironico.

Si racconta, a tal proposito, che suo figlio Peppino, il benzinaio, si recò un giorno a Pescara dalla ditta fornitrice dei carburanti. Dovendo chiamare per telefono qualcuno della sua famiglia a Palmoli, per qualche documento che non si era portato appresso, chiese gentilmente ad un' impiegata della ditta pescarese, se poteva usufruire del telefono.  L'impiegata, mentr'egli era impegnato a parlare con il principale, gli disse: "Dammi il numero. Appena qualcuno sarà in linea, ti passerò la cornetta". E così fece. Dopo qualche squillo, rispose da Palmoli Zi' Valdéine, che dopo aver detto "pronto, pronto", in preda ad un improvviso mal di pancia, fece uno scorreggione. L'impiegata restò tassate , cioè muta come un tasso. Dopo che Peppino terminò la telefonata, l'impiegata gli raccontò della inaspettata rumorosa interferenza. Peppino, colto di sorpresa, visibilmente rosso in viso, cercò di giustificarsi dicendole che aveva risposto al telefono l'anziano suo padre, che era vecchio e quindi di scusarlo. Tornato a Palmoli, Peppino, disse a Zi' Valdéine: "Ma insomma! Mi hai fai fatto fare una figuraccia!", raccontandogli quanto era successo. E Zi' Valdeìne, senza scomporsi, gli rispose: "Eja Sande Valdéine! Da ecche se n'tese a Pescare?" (Per San Valentino! Da Palmoli si è sentito a Pescara?)

Un altro aneddotto, che lo riguarda, ha per protagonista il suo gatto. Si racconta che il gatto di Zi' Valdéine, mentre egli era seduto su una sedia, j nturnujéve atturne (gli gironzolava intorno) ed ogni tanto, con la coda alzata, gira di qua e gira di là, gli strusciava all'altezza del cavallo dei pantoni. Dopo un po' Zi Valdéine, si rivolse al gatto e  gli disse: "Ue'! Quésse lassele sta! Ca mi serve". (Ehi? Questa cosa che mi tocchi, lasciala stare, che mi serve).





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