Piazza San Virtuale
di Fernando Sparvieri
Piazza San Vitale, in un
fotomontaggio, vista da una finestra virtuale
Ho sempre pensato che il
dialetto sansalvese sia la nostra prima lingua. L’italiano
viene dopo. E’ inutile nascondercelo: quando parliamo in
italiano abbiamo spesso difficoltà ad esprimerci, ma non
perché siamo asini, ma perché mentalmente parliamo a “la
salvanàse” e poi traduciamo quello che dobbiamo dire
nella lingua nazionale.
Quando andiamo all’estero poi, e dobbiamo parlare nella
lingua del paese che ci ospita, facciamo la traduzione
della traduzione, nel senso che pensiamo a “la salvanase”,
traduciamo con la mente in italiano, e poi parliamo in
inglese o in francese.
Da qualche giorno impazza su Facebook la nostra pagina
locale del gruppo “Se sei di San Salvo”.
E’ a mio avviso una straordinaria piazza “San Virtuale”,
un misto fra piazza San Vitale e virtuale, in cui con
grande piacere ho potuto constatare, con lieta sorpresa,
soprattutto tra i giovani, quanto sia vivo ed amato “lu
salvanase”, il nostro dialetto.
E’ addirittura entusiasmante, per non dire emozionante,
vedere sopratutto come i ragazzi sansalvesi abbiano
inscenato tra di loro una solidale gara dialettale, in cui
tra detti popolari e modi di dire d’altri tempi, si sono
uniti in una sorta di comunione spirituale, che valica la
stessa amicizia, sino a sfiorare il sentimento della
fratellanza, sentendosi amorevolmente tutti figli del
grembo di quell’unica mamma, che è la nostra San Salvo.
Questo, per me sansalvese verace, ormai di una certa età,
mi riempie di orgoglio, perché ciò significa che i nostri
padri hanno ben seminato e che al di là delle diverse
idee, condizioni sociali e divisioni politiche, si può ben
sperare per la solidarietà e che siamo tutti uniti quando
dobbiamo riaffermare le nostre radici e la nostra antica e
vera identità.
“Canda è belle lu salvanàse!”, scrive in un
commento ad un post il mio caro amico Nicola Fanghella
dalla Barcellona spagnola. Questo suo commento, passato
apparentemente in silenzio, ha fatto un po' di chiasso nel
mio cuore. Mi è parso un messaggio profondo, un silenzioso
grido d’amore di un figlio lontano che, pur scegliendo di
vivere in un’altra nazione, non dimentica le proprie
origini, dimostrando di quanto sia forte ed indissolubile
il legame che lo unisce alla sua terra natia, un cordone
ombelicale impossibile da recidere ("Oh Sante Salve
belle, stinghe luntane da te, j notte e jurne chiagne,
lu tempe ne passe pi me", scrive Leone Balduzzi
nella sua canzone "Sante Salve belle").
Bravi ragazzi! Se il dialetto è lingua madre, siete tutti
dei bravi figli.
Ho notato, tuttavia, che ogni tanto, però, vi è un po' di
sana polemica campanilistica con i cugini vastesi e
viceversa.
Sbirciando su Facebook e su come “Se sei di Vasto” (giusto
per vedere, come diceva Jannacci, di nascosto l’effetto
che fa), ha trovato sostegno una tesi che da tempo
sostengo e precisamente: che il dialetto sansalvese è
vivo, mentre quello vastese è un po’ moribondo.
Non me ne vogliano i cugini istoniensi, ai quali auguro
tutto il bene del mondo, ma visitando la pagina “se sei di
Vasto se...”, ho notato che molti degli iscritti al gruppo
parlano (scrivono) un dialetto che proprio vastese non è,
mentre solo qualche purosangue racconta aneddoti e modi di
dire nell’esatto idioma dei loro padri, dialetto che fu
del grandissimo Luigi Anelli, che era nato a Vasto il 20
febbraio del 1860, personaggio ecclettico, poliedrico,
poeta, scrittore, musicista, storico, che scrisse, tra le
sue tante opere “Fujj'ammèsche", un vero capolavoro
in vernacolo, celebre raccolta di sonetti in dialetto
vastese.
Premesso che sono da sempre appassionato del dialetto
vastese, spesso mi son chiesto: perché i giovani di San
Salvo, pur se provenienti da famiglie con origini non
indigene, parlano tutti perfettamente il dialetto
salsalvese, con i medesimi accenti e le antiche fonie dei
progenitori del luogo, mentre i giovani vastesi o almeno
la gran parte di essi, non parlano più ”lu vuastaréle”
degli antichi padri ed invece di dire, ad esempio, “l’haj
dàtte ja” dicono “l’hai ditte j”, oppure
invece di dire “la curajàne” dicono “la curajne”, la “ciammajàche”
la chiamano “la ciammajche”,
“l’ardàche”-“l’ardiche”, “la làre”- la lire”, “cussuì” –
“cussù” e “la sciàmmie” - “la scimmie”,
scimmiottando in una specie di cupellese, risultando un
vastese un po' “arzicucculujéte” (tra i suoi vari
significati: vestirsi con abito nuovo per apparire più di
lusso).
Era uno spasso per me, sino a qualche anno addietro, fare
finta di leggere le locandine dei giornali dinanzi alla
rivendita/edicola di Di Lanciano in Corso de Parma a
Vasto, davanti la quale mi fermavo solo per ascoltare dei
simpatici anziani vastesi che parlavano “lu Uastaréle”.
A tal proposito guardatevi un po', se qualcuno non
l'avesse visto, il famosissimo video di RAI ITALIA in cui
Francesco Paolo Zaccaria spiega come si prepara “Lu
brudàtte a la uastaréle” e forse mi direte che un
po’ ci ho azzeccato.
Per me che sono innamorato di Vasto ed in più di una
circostanza ho avuto modo di decantare le bellezze
naturali, e non solo, di questa nostra incantevole
località abruzzese, tra le più belle città d’Italia, un
po' mi spiace.
Vasto è ricca di storia in ogni campo, anche e soprattutto
in quello culturale. Da sansalvese di una certa età, vi
mando virtualmente un post, anche se so già che mi
attirerò dietro come minimo un sacco di critiche: “Se sei
di San Salvo hai fatto sicuramente le scuole superiori a
Vasto”.
E’ un vero peccato che stia accadendo questa mutazione
fonetica del dialetto vastese. E’ vero che la lingua è in
continua evoluzione, ma io, se posso permettermi,
consiglierei di far leggere nelle scuole, con la dizione
autentica, le opere dialettali di Anelli, prima che sia
troppo tardi e si perda il tradizionale idioma che è la
vera identità di un popolo.
Tornando a Bomba, o meglio a San Salvo, o meglio ancora a
“Se sei di San Salvo...”, nel senso che proprio una bomba
è (questo lo dico non per farmi perdonare), concludo con i
versi in dialetto abruzzese e non sansalvese (vi dirò
un’altra volta qual’è differenza), di una canzone di mio
padre Evaristo Sparvieri del 1961 dal titolo “Sopra ‘na
cullìne”, dicendovi che non so se è l’aria, non so
se il posto, non so se sono “li saggiccie e lu vine
bone, chi vo campa’ da home, a qua s’ha da firmà”.
Fernando Sparvieri