Lu Pascàune
(Il lunedì dell'Angelo)
di Fernando Sparvieri
Gruppo di diovani artigiani
scapoli. Da sinistra: Nicola Di Virgilio, ? , Michele Di
Iorio, Rocco Tascone, Vitale Tascone, Umberto dDe
Filippis, Giuseppe Bruno e mastro Luigi Di Iorio.
"Addò vi' fa' lu Pascàune
a uánne?" (Dove andrai a festeggiare il lunedì di
Pasqua quest'anno?)
Lu Pascuàune o lu Puàsquàune, così era
chiamata un tempo la ricorrenza pasquale del Lunedì
dell'Angelo, era per antonomasia la giornata in cui le
famiglie sansalvesi, dopo un inverno gelido trascorso
vicino al camino, facevano la prima gita primaverile
dell’anno. Non essendovi ancora le automobili, i loro
luoghi preferiti erano nelle vicinanze, come il bosco
Motticce, prima che con la guerra venisse distrutto, il
fiume Trigno, il mare e le campagne.
Tutti erano coinvolti: padri, madri, nonni, bambini,
amici, vicinato e tutte lu sciuppunáte (tutta la
parentela).
Le famiglie dei contadini si riunivano e partivano a
cavalle a le trajéne (a bordo di carretti),
várre a várre (ricolmi) di parenti ed
amici, trainati da li bistie (asini, muli e
cavalli) e tanto per non cambiare tornavano quasi sempre
nei loro terreni e masserie, dove in quella giornata di
festa non si lavorava, ma ze festejéve (si
festeggiava). Gli artigiani, invece, che non possedevano li
trajéne, quando non erano ospiti di amici contadini,
raggiungevano le loro mete prestabilite a piedi o in
bicicletta, per chi la possedeva.
Era per tutti una giornata di grande festa: ze magnáve
(si mangiava) e già questo bastava per renderlo un
avvenimento importante.
Giunti a destinazione, le donne, sopratutto le mogli dei
contadini, spànnavene le mandele 'nterre
(allargavano le tovaglie da cucina sull'erba), su cui
poggiavano tijelle e tijlliccie (tegami), ricolmi
di piatánze (pietanze), rigorosamente ammantìte
(coperte) da mandrécchie e mandricchìune
(strofinacci), per proteggerle da formiche ed altri
insetti, ospiti indesiderati, e davano vita ad una specie
di antico pic-nic, che all'epoca si chiamava gna
parlave Creste (come parlava Cristo), avrebbe
detto Mastro Luigi Di Iorio il sarto, e cioè molto
italianamente scampagnata.
I maschi, invece, si occupavano di non far mancare il vino
buono. Quasi tutti portavano bottiglie e fiaschi ricolmi
di vino, che venivano messi a “dimbràsche”, cioè
lasciati rinfrescare immersi nell’acqua corrente sulle
sponde del fiume o di un ruscello, per non fare riscaldare
la preziosa bevanda al sole.
E non mancavano, per la gioia di adulti e bambini, le
pizzàlle (i dolci), compresi nu bèlle caválle
de Pàsque" (un bel cavallo di Pasqua) per i
maschietti e 'na bella pìpue de Pàsque (una bella
pupa di Pasqua) per le femminucce, dolci della tradizione
pasquale, realizzati con pasta di mandorle e cioccolato,
ornati "nghe lu giúleppe" (con la glassa), che
venivano arricchiti poggiandovi sopra, in fase di cottura,
nu belle ove allésse" (un bel uovo lesso). Qualche
casalinga, per stupire, ve ne metteva due di uova lesse,
come a voler dimostrare che non badava a spese, ostentando
benessere e ricchezza.
I pranzi luculliani, iniziavano all’incirca a mezzogiorno
e, tra bicchieri di vino, si protraevano sino al tramonto.
Lu sgábbie (il vino), come si dice in gergo
dialettale muratoresco sansalvese, dopo qualche bicchiere
di troppo, dave a lu ciurvélle (dava al
cervello). Accadeva sempre che qualcuno,
nella convinzione che il proprio vino fosse il migliore,
ma solo perchè si era abitatuato a berlo, ne offriva un
bicchiere all'amico il quale, per non essere da meno e
dimostrargli che il suo vino fosse ancora più squisito,
perchè anch'egli si era abitatuato a bere il suo, gli
diceva assaggie qua' (assaggia il mio vino) e
succedeva che nghe lu 'mbrasche a 'mbrasche (a
furia di mischiare vini diversi) e sbicchirije'
(fare a bicchieri), c'erano sempre alcuni che tornavano a
casa tutte sbicchirijti, cioè ubriachi fradici. Il
risultato, già a pomeriggio inoltrato, erano cirte
péchere (certe memorabili sbornie), che suscitavano
l'ilarità dei presenti, che si divertivano a sentirli
sparlare, mentre le loro mogli lanciavano occhiatacce a
destra ed a manca ai rispettivi mariti, sbronzi, per
indurli ad un comportamento più consono, pensando dentro
di loro: "Ne è niende! Uje stu sciumunéte m'ha da fa'
fa' sta fihìure " (Ma guarda un po'! Non è niente?
Oggi questo deficiente mi deve far fare questa
figuraccia). Ma quelli, i mariti, il più delle volte,
brilli com'erano, n'affelevene chiu' niente (non
capivano più niente), e continuavano a fa' bicchire
a la caláte (a fare brindisi) e presi dall'euforia
dei fumi dell'alcool dicevano alle proprie mogli: "Vi
a e' ca t'aja da' nu vascie (vieni qui che ti
voglio dare un bacio), finendo a chiude l'opere (a
chiudere l'opera), a farle incavolare.
Naturalmente, quanto sopra descritto, anche con un po' di
fantasia, non accadeva in tutte le scampagnate, ma era
frequente, ricordando le condizioni in cui certe adulti,
quand'ero ancora bambino, li vedevo tornare la sera a
casa.
"C'ha fatte Nicóle?" (Cosa ha fatto Nicola?), era
la domanda di qualche curioso vedendolo ubriaco. "Ne
vede" (non lo vedi), era la risposta. "Z'ha
pejete nu tàrde" (un tordo), significando che era
ubriaco.
Comportamento diverso, invece, avevano i giovani, che da
che mondo è mondo, assumevano ed assumono atteggiamenti
spavaldi, sopratutto se vi è qualche ragazza che fa
battere i loro cuori.
I giovani, figli di contadini dell'epoca, nel pomeriggio,
mentre gli anziani continuavano a mangiare, montavano le
selle in groppa ai cavalli e per dimostrare le loro
qualità di fantini, faciavéne le sbrafénte
(volevano dimostrare di essere super uomini), sfidandosi
tra loro, con ragazzi di altre comitive nelle vicinanze,
in corse ippiche a chi arruvuéve préme (a chi
arrivava per primo) ad una meta prestabilita, per esempio
al fiume o al bosco, lanciando qualche sguardo furtivo a
qualche ragazza che faceva finta quasi sempre di non
capire, anche se aveva capito tutto.
E così tra 'na piatanza (una pietanza) ed
un'altra, ed un bicchiere di troppo, qualche corsa di
cavalli tra giovani fantini, la giornata di festa volgeva
al termine.
Al tramonto, una lenta processione de trajène
sfilava in fila indiana, uno dietro l'altro, verso la
strada del ritorno. Le corse e l'euforia però non erano
terminate. Sopratutto se alle redini c'era un giovanotto,
iniziavano i sorpassi, dando vita ad una tacita càrze
de trajéne (corsa con i carretti), carichi
di gente, specialmente se ad osservarli vi era la solita
bella ragazza che corteggiavano.
"Va' chiàne mortacce' (Vai piano delinquente),
gridava qualche nonnino e genitore seduti dietro, nel
cassone del carretto, mentre il cavallo trottava, con la
criniera al vento, non vedendo l'ora di rientrare nella
stalla per meritarsi, dopo tanti sforzi, finalmente una
notte di riposo.
Con il boom economico e con l'avvento dei primi mezzi di
locomozione nel corso degli '60, incominciarono a cambiare
le abitudini ed anche le mete dei sansalvesi. Soprattutto
i giovani, a bordo di piccole moto 48 di cilindrata,
diffusissime in quel periodo, con le frittate preparate la
sera prima prima dalle mamme, iniziarono a spingersi un
po' più lontano, nei paesi limitrofi. La meta ambita per
frotte di giovani, a bordo di fumanti Benelli, Cimatti,
Motom, Morini a miscela, divenne Madonna di Canneto,
antica chiesetta vicina al fiume Trigno, in territorio di
Roccavivara (CB), chiamata dai ragazzi solo “Cannete”,
che all’epoca era un luogo impervio da raggiungere in
quanto non ancora era stata realizzata la nuova S.P.
Trignina e bisognava percorrere la vecchia strada di
Palmoli, denominata ugualmente Trignina, giungere sino a
Celenza sul Trigno e poi ridiscendere a valle, passare
sulla sponda molisana del fiume Trigno, dove c'era Cannete.
Il giorno appresso, chi era andato in motoretta a Madonna
di Canneto, era come se fosse stato a Madonna di
Campiglio. Si sentiva quasi un eroe ad aver affrontato
quel lungo viaggio, raccontando agli amici come aveva
trascorso "lu Pasquàune", racconti conditi spesso
da simpatici stratagemmi escogitati per evitare i posti di
blocco dei carabinieri, che comminavano salate multe da
mille lire (che erano tanti soldi) a chi portava un amico
sul sellino posteriore del motorino.
Le poche famiglie sansalvesi che all'epoca possedevano
invece l’automobile e ne erano davvero pochine,
incominciarono a fare delle vere e proprie gite nelle
ambitissime località turistiche della montagna abruzzese,
che iniziarono ad essere note alla grande massa proprio in
quel periodo.
Meta di molti divenne la lontanissima Castiglione Messer
Marino, lu Castijàune, famosa per la carne
sopratutto d'agnello (la carne de lu Castijàune),
definita il non plus-ultra tra le carni, che in molti
acquistavano e riportavano orgogliosi a casa per mangiarla
nei giorni successivi. Dopo qualche anno iniziò la moda di
andare a Roccaraso, dove c'era la funivia, Rivisondoli,
Villetta Barrea, il Passo della Forchetta, ed al ritorno
era come se fossero andati alla fine del mondo.
Ristoranti niente. Ogni famiglia portava una specialità
culinaria preparata il giorno prima a casa, in una sorta
di tacita gara di gastronomia in cui ogni cuoca voleva
stupire, dando il meglio di se stessa. Fu in quel periodo
che i sansalvesi scoprirono “la sagne” (la
lasagne), una vera novità gastronomica, che per lungo
periodo ebbe la palma del pasto più raffinato che si
potesse gustare ed offrire, anche nei matrimoni.
Per tutti il Lunedì dell'Angelo era una giornata speciale.
E chi te le dave le vacanze in luoghi esotici.
Qualche apparecchie (l'aereo), lo si vedeva
volare, alto, nel cielo azzurro, mentre lasciava alle sue
spalle la sua lunga scia di fumo bianco, lontano, dalla
mentalità e dalla realtà quotidiana.
Il giorno seguente ognuno tornava alle proprie attività,
felice di aver trascorso in compagnia una giornata in
serenità ed allegria.
Erano quelli gli anni in cui la gente era felice con
niente e si accontentava di poco.
Erano gli anni in cui il lunedì dell’Angelo i sansalvesi
lo chiamavano ancora lu Pascàune.