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Ogni mondo è paese, ma il mio paese è il mio mondo.
Fernando Sparvieri







Ma chi sarebbero li salvanése

I racconti di Fernando Sparvieri



Un po' di storia locale raccontando personaggi








Dio è morto

di Fernando Sparvieri


“Dio è morto”.

Una scritta sacrilega, di color verde, recante la frase "Dio è morto", realizzata con un grosso pennello sul muro interno della Porta della Terra, a due passi dalla Chiesa di San Giuseppe, apparve a le femmenàlle (alle donne anziane del popolino) che la mattina presto, alle 6:00, si recavano a la messetélle (alla piccola messa mattutina).

Venne subito informato Don Cirillo, il prete, che si recò sul posto e chiamò i carabinieri.

All’epoca i carabinieri erano “la légge”, così li chiamavano i sansalvesi, ed intervenivano su tutto. Poi li aveva chiamati il prete, la più alta autorità religiosa del paese, ed era impossibile dirgli di no.

Scattarono le indagini per appurare chi ne fosse stato l'autore.

Fatto analogo, ma ben più grave, era accaduto nei primi anni ’50, quando sulla porta della chiesa, prima della demolizione della vecchia torre campanaria, avvenuta i primi giorni del 1960, sempre Don Cirillo, aveva trovato appiccicati dei messaggi denigratori anonimi contro la Chiesa, con un timbro apposto sopra, un triangolo nero, che mettevano in cattiva luce l’operato del prete, reo di non essersi accorto o di essere addirittura accondiscendente, a storie d’amore tra giovani, che a detta dell'accusatore, avevano scelto i banchi della chiesa, non come luogo di preghiera, ma di segreti incontri d’amore con le ragazze.

Apriti cielo! Don Cirillo che faceva della morale l’insegnamento più importante, che proibiva in chiesa persino che le ragazze vi entrassero con abiti succinti ed a maniche corte, andò su tutte le furie e chiamò addirittura la polizia scientifica.

L'autore del sacrilegio,“Triangolo nero”, così venne immediatamente chiamato dai sansalvesi, per via di quel timbro a forma di triangolo, intinto di inchiostro nero, che apponeva sui quei messaggi, dopo brevi indagini della scientifica, venne subito smascherato. Come l’assassino che torna sempre sul luogo del delitto, si presentò curioso durante le indagini proprio in chiesa, suscitando immediatamente i sospetti della polizia. Gli trovarono il timbro, il tampone e l'inchiostro in soffitta e non gli restò altro che confessare, senza fare però il nome degli altri componenti del “nucleo eversivo”, di cui egli ne era il capo, così come avevano stabilito tutti insieme in caso di arresto di uno di loro.

Per questioni di privacy, non faccio oggi il nome, per una promessa fatta a chi mi raccontò la storia. Mi limito solo a scrivere che "Triangolo nero", divenne il suo soprannome, che era un bravo ragazzo, molto vicino al mondo ecclesiale, e che dopo il fattaccio, che fece scalpore in paese, emigrò a Milano, tornando saltuariamente in paese, forse per la vergogna.

Il vecchio portone d'ingresso della Chiesa, prima della demolizione nel'61. Dinanzi, tappezzata di manifesti elettorali, la casa di Tommasino Russo, demolita alla fine degli anni '50.


Ora, quella nuova scritta “Dio è morto”, trovata sulla parete dell'Arco della Terra, a distanza di circa un decennio da quei messaggi del fantomatico “Triangolo nero”, seppure rivolta direttamente al Padreterno e non al prete, aveva fatto rivivere in Don Cirillo antichi sgomenti mai sopiti, fantasmi mai del tutto scomparsi, e quindi voleva scoprire, anche questa volta, a tutti i costi, chi ne fosse stato l’autore.

Prima di svelarvi il nome dell'autore, devo però prima raccontarvi una storia.

Eravamo nel '66 e l'amministrazione comunale continuava a "buttare" per terra, tra gli applausi della gente, qualche altra casa del Centro Storico, per allargare la piazza.

La prima casa demolita era stata, sul finire degli anni '50, quella di Tomassino Russo, ubicata proprio dinanzi alla chiesa, a cui erano seguite altre demolizioni nelle immediate vicinanze. Ora era arrivato il turno de lu bar de Vitarìlle (il bar Sport di Vito Ialacci) con annessa abitazione sovrastante, che sporgeva come un dente in piazza tra la casa della famiglia Cilli, la prima a sinistra, entrando dall'Arco della Terra, ed il palazzo di Don Gustavo Cirese, il medico ed ex segretario D.C., che era deceduto nel ’59 a seguito di un tragico incidente stradale, avvenuto nella piana di San Pio delle Camere (AQ).

Nella foto si intravede sulla sinistra il vecchio Bar di Vitarille, con l'abitazione sopra, durante la benedizione del grano per i taralli di San Vitale. L'edificio centrale è invece il palazzo riedificato dal dott. Gustavo Cirese, prima della sua morte avvenuta in un incidente stradale nel'59.


Pe' Vitarìlle (per Vito Ialacci), la perdita del suo bar in quel punto strategico della piazza, era una cosa grave. Dove avrebbe ritrovato un'altra casa, in piazza, per riaprire il suo bar?

Gli venne incontro il fato ed il fatto. Il fato volle che una notte crollasse il tetto del vecchio ufficio postale, che si trovava proprio in piazza, ed il fatto fu che riuscì a convincere l'amministrazione comunale, in cui era consigliere di maggioranza, di aiutarlo a permutare la sua vecchia casa con il diroccato edificio postale.

Vitarille (Vito Ialacci) il secondo a sinistra, Consigliere Comunale, nell'aula consiliare, il giorno in cui Vitale Artese venne nominato commendatore, prima della nomina successiva a Cavaliere (Anni '60)


La sua speranza si avverò.

I lavori partirono subito dopo. Ad eseguirli fu 'na bella squadre de frabbecatìure (un bel gruppo di muratori), quasi tutti parenti di Vitarìlle. Era composta: da Mario Ialacci, suo nipote, che era il secondogenito di suo fratello Dichidóre (Teodoro); dall'altro suo nipote Vitale Ialacci, che era il terzogenito di Dichidóre; da Peppino Del Casale, che era il genero di Dichidóre avendo sposato Lina la secondogenita di Dichidóre; da Lido Ialacci, che non era figlio di Dichidóre, ma lo conosceva bene  e da Nicola D'Addiego, che conosceva invece benissimo Dichidóre, anzi lo chiamava Zi' Dichidóre, perchè sua madre Annina Di Bello, era la sóra cuggéne (cugina) omonima di Annina Di Bello, moglie di Dichidóre.

Vitarìlle
, per rendere i lavori più celeri, comprò ai nipoti una bella betoniera nuova con motore a scoppio, che mettàve a rebbélle la piazza (metteva a dura prova la quiete della piazza), in modo che potessero impastare il cemento non più a mano, come si usava tra i muratori locali a quei tempi, e realizzare in fretta, sul sito ricavato dalla demolizione del vecchio dell'Ufficio Postale, il suo nuovo Bar Sport, con annessa abitazione ai piani superiori.

Nella foto, alle spalle degli sposi, è visibile il vecchio Ufficio Postale, a destra. La casa sulla sinistra era invece quella di Tumassine Russo, la prima casa ad essere demolita alla fine degli anni '50. Gli sposi sono 'Ntonie Carruzzire (Antonio Fabrizio) e Olga Ilda Enelda Fabrizio, durante il ritorno a casa dopo il rito religioso in chiesa.


Fatta questa necessaria precisazione, giusto per far comprendere come fosse felice ed affratellata la famiglia di Dichidóre, tornando alla nostra storia, bisogna premettere che Vitale, il terzogenito di Dichidóre, all'epoca sedicenne, era da poco rientrato in paese da Milano, dove, come tanti suoi coetanei, si era recato un annetto prima, per lavoro. Lì, nella citta meneghina, aveva visto cose mai viste prima. Aveva visto il Duomo, il Castello Sforzesco, l'Idroscalo, lo stadio di San Siro, il Milan, l'Inter, ed aveva visto che i ragazzi milanesi andavano al club.

"Pecca' ne faciame nu cleb!" (Perchè non facciamo un club), disse un giorno Vitale a Nicola, mentre lavoravano a Vitarìlle. "Ci purtame a bballá' pure le cálandre!" (Ci porteremo a ballare anche le nostre ragazze). "Le so' veste gna funziàune a Milane" (Ho visto come funziona un club a Milano).

"Sciè! Ma addo' le mette?" (Si! Ma dove lo apri?), gli aveva risposto Nicola. "Aécche 'nci vede! 'Nci sta manghe l'ucchie pe chiagne!" (A San Salvo non vedi? Non abbiamo neppure gli occhi per piangere), aggiunse riferendosi al fatto che era necessario prima trovare un locale idoneo e poi i soldi per pagare l'affitto. "E dóppe", concluse in modo interrogativo: "Addo' sta sse cálandre?" (E poi! Dove le trovi queste ragazze?).

"Ca ci sta! Ci sta la mérce!" (C'è! C'è la merce!), gli aveva risposto Vitale, per dire che anche a San Salvo c'erano belle ragazze che potevano andare a ballare a lu cleb.

Vi è da dire che a San Salvo, all'epoca, non c’era un vero luogo di ritrovo per i giovani, se non i bar. Locali per ballare, manco a parlarne. A dire il vero, alcuni giovani studenti, che andavano a scuola a Vasto, avevano cominciato a ballare con le amiche studentesse nelle case private in occasione di qualche festa di compleanno, ma le frabbecatiure (i muratori), pur avendo alcuni di loro le ragazze, non ballavano proprio, a causa di antichi pregiudizi dei genitori, che non vedevano di buon occhio che le proprie figlie frequentassero i maschi.

"Qua ci vuole un club", aveva pensato più volte in mente sua Vitale, ricordando la sua esperienza milanese, sperando che lì le ragazze sarebbero andate a ballare la domenica, di nascosto dai genitori. Ma era più un'illusione che una certezza.

Ed ecco un bel giorno, o meglio un brutto giorno, dipende dai punti di vista ed interessi, arrivare la sorte in suo aiuto.

"Z'è morte l'asine!" (E' morto l'asino), gli disse Nicola D'Addiego mentre lavoravano a Vitarìlle.

"E ddo' z'è morte?", gli chiese Vitale.

"A la stálle! Addo' ze vulave muré'!", (Alla stalla! Dove pensavi che morisse), gli rispose Nicola.

"A la stálle!!!" (Alla stalla!!!), esclamo' Vitale.

Fu un attimo.

"A elle ci putáme fa lu cleb!" (Lì, nella stalla dell'asino, potremmo realizzare il club), esplose euforico, dimenticandosi di dare le condoglianze al cugino Nicola per la grave perdita subita.

Lì vicino, a due passi dal cantiere in cui stavano ricostruendo il bar di Vitarìlle, scendendo di qualche metro la piccola discesa in 2° vico piazza, vi era una stalla, che a seguito della morte del suo inquilino, cioè dell’asino di Zi’ Dumeneche D'Addiego, nonno di Nicola, ere spéccie (era libera).

La sua proprietà era di Don Gaetano de Vito, come la casa sopra ed adiacenti, e considerato che si trattava pur sempre di una stalla, anche l'affitto non poteva essere caro. "Gli daremo gli stessi soldi che gli dava tuo nonno a Don Caddane" (a Don Gaetano), disse Vitale a Nicola, pensando ad una colletta tra gli amici per la copertura finanziaria.

Ne parlò con gli amici e li trovo' entusiasti. Anche con Don Peppino, il figlio dell'anziano proprietario, trovarono un accordo molto, ma molto bonario: "Ma dáteme quélle che me vulete da vu", aveva risposto loro Don Peppino in un dialetto arzeccucculujéte (ripulito), che medico qual'era, aveva altri problemi per la testa.

Aveva avuto una storia importante quella stalla in paese, anche se nessuno di quei ragazzi lo sapeva. Sembrava una stalla accusciè (normale), ma non lo era. Durante il periodo del fascio, e forse anche prima, era stata adibita a prigione, l'unica a San Salvo. Quando qualcuno faceva qualche ssádatte (qualcosa che non doveva fare), era lì che veniva rinchiuso per qualche giorno. L’aveva assaggiáte (provata) quella prigione, anche Mastro Luigi Firpe (Di Iorio), il sarto, che da giovane, quando lo vestirono da Balilla, ad una precisa domanda del suo istruttore su cosa significasse “lo spirito di corpo”, gli aveva risposto sarcasticamente lu scardìlle, termine muratoresco che significava scorreggia, trascorrendovi un'intera notte.

La stalla che divenne sede della Caverna, a destra. Vi era un notevole dislivello dal suo pavimento interno al piano stradale.


Ora, ciò che era stato il simbolo della prigionia, della dittatura, del manganello, dell'olio di ricino, stava per diventare quello della libertà (Liberty for all).

E partirono i lavori. Ci pensò la betoniera di Vitarìlle ad impastare il cemento.

Vitale e Nicola, fatti i "funerali" all'asino, non attesero manco lu russìquie (le esequie), e da mannébbele (manovali) fecero i mastri muratori, mentre i loro amici, che muratori non erano, divennero i loro mannébbele.

L'entusiasmo salì alle stelle, o meglio alla stalla.

Tutti davano il loro contributo. E si scherzava.

Ue’! Aesse faciateje ‘na bella scalàlle, ca la uajauna ma’ è cioppe” (Ue! Ragazzi! Qui fateci dei bei gradini perchè la mia ragazza è zoppa), se ne uscì tra l'ilarità di tutti Ennio Ranni, che non aveva la ragazza, che notando che c'era un un unico gradone, alto un mezzo metro circa, tra il piano  seminterrato della stalla ed il livello del piano stradale, consigliò di aggiungerci un nuovo gradino.

Quella stalla era davvero molto bella. Aveva quattro volte a botte, con mattoni a vista, con un pilastro centrale.

Terminato il massetto, con qualche sacco di cemento che sgriscérene (rubarono) a Vitarìlle, subentrarono nei lavori altri "specialisti".

Alfonso Franciotti, il futuro Foto Clic, fece l'impianto elettrico applicando sui muri qualche decina di faretti colorati, per dare un tocco di illuminazione psichedelica sui muri e sul pavimento, una novità per l'epoca. Antonino Chioditti, il futuro idraulico, che in quel periodo jave a lu mastre a Trentine, lu maréte de la mamméne (era apprendista fabbro da Trentino, il marito della levatrice Nola Armida), allungò un tubo di piombo sino ad un angolo, dove era previsto il cosiddetto angolo bar.

Ora bisognava sbianghe' (imbiancare i muri).

"A sbianghè' ci penso io!", se ne uscì Umberto Di Biase.

Il risultato fu che invece de sbianghé' (di imbiancare) colorò le pareti della stalla di tutti i colori dell'arcobaleno, e non contento ideò simboli e slogan beat, da dipingere e scrivere con un pennellino sui muri.

Ne ricordo uno in particolare, sul pilastro centrale della stalla, visibile appena entrati. Dopo che Umberto vi dipinse dipinto un segnale stradale di divieto d'accesso, disse ad Ennio Saba, di scriverci sotto, con un pennellino, "ai matusa", in modo che osservando il disegno e le parole, come un rebus, assumesse il significato di "Divieto di accesso ai matusa".

Ennio scrisse "ai matusi”, pensando giustamente che il suo plurale fosse matusi, e quindi era giusto scriverlo con la i invece che con la a. Fui proprio io, che nonostante avessi 13 anni ero sempre con loro, a correggerlo, dopo qualche iniziale titubanza, non solo di Ennio, ma generale, essendo il termine beat "matusa" da poco in uso, solo tra i giovani.

I lavori erano terminati, quando qualcuno fece notare: "Sciè! "Ma mo addo' z'assettame?" (Sì! Ma dove ci sediamo?). L'idea fu geniale. Vennero fatti realizzare dei tavolini circolari utilizzando i tronchi di una vecchia cérche (quercia) e con i suoi robusti rami, che avevano sempre forme circolari, vennero realizzate decine de predélalle (dei piccoli sedili) a tre piedi.

Altra domanda: "Scie'! Ni abballame, ma chi sone?" (Si! Noi balliamo, ma chi suona?). Venne realizzata una pedana per eventuali musicanti, che avrebbero allietato i pomeriggi danzanti.

Nella foto alcuni fondatori del club. Da sin.  Vitale Ialacci, Ennio Saba, Tonino Torricella (barbiere), Umberto Di Biase, Angiuline Izzarille (Angelo Iezzi) ed un ragazzo vastese Franco Desiderio. La foto è della serie "Quando ci si fotografava con le chitarre, anche se non si era chitarristi".  La piccola chitarra elettrica, rosso sfumata, era di Tonino Torricella e ce l'aveva nel suo salone in C.so Garibaldi. L'aveva mandata a prendere a "Giovani", una rivista beat dell'epoca, seguitissima dai giovani ed il suo costo era di 20.000 lire.


Il club oramai era bello e pronto: un gioiello.

Lo chiamarono “LA CAVERNA”, dandogli un nome che gli si addiceva molto. Era praticamente un seminterrato, con la porta di ingresso in 2° Vico Piazza ed una finestrella che ridava dietro, nella piazzetta del palazzo scolastico. D’altronde un locale che era stato un piccolo carcere, non poteva avere molte vie di fuga.

Com’era nei piani e nelle speranze dei ragazzi, dopo un mese circa di lavori, si iniziò a ballare, tra mille colori e luci psichedeliche.

Era una domenica pomeriggio, quando iniziarono ad arrivare alla spicciolata le ragazze, di nascosto dai genitori.

Erano fresche e profumavano di gioventù quelle ragazze, anche se ballando il lento, strette ai loro ragazzi, sudavano e j fuchejévene (si arrossavano) le orecchie, a maschi e femmine,

All’epoca l’amore tra i giovani era serio. I ragazzi frequentavano (la uajàune) le proprie ragazze, sognando che un giorno le avrebbero condotte all’altare.

E molti di questi sogni si avverarono.

E' il caso di Umberto Di Biase e Vienna Fantasia, di Vitale Ialacci ed Enrichetta Franciotti, di Osvaldo Menna ed Angela Del Pavignano, di Alfonso Franciotti e Consiglia Menna, la sorella maggiore di Osvaldo.

Ed a proposito di Osvaldo, sul quel palchetto, lì in fondo, sotto la finestrella, vi suonava il complessino I FACILI, di cui egli era il cantante ed io il chitarrista solista.

Lui cantava ed ogni tanto andava a ballare con la sua Angela, mentre io, con la mia chitarra elettrica suonavo Maria Elena ed altri brani di Santo & Jonny, mantenendo la candela a Osvaldo ed ai muratori & C.

Non ero però l'unico a mantenerle. Mi tenevano compagnia Michele De Filippis alla chitarra ritmica, Rino di Cola al basso, e sovente Antonino Chioditti, l’idraulico, all'epoca bassista del complesso Prepotenti, che in quel periodo soffriva l'assenza del loro leader, di Tonino Masciale, che proprio quell'anno era stato scritturato come chitarrista dall’Orchestra Cesare De Cesaris. Si aggiunse, ai reggitori di candele quando si chiusero le scuole, anche Ivo Balduzzi, che suo padre Leone, aveva mandato a studiare a Lanciano durante l'anno scolastico, dopo che aveva frequentato le medie a Chieti, nel famoso Collegio G.B. Vico.

I FACILI, nome dato al gruppo da Osvaldo Menna, ai tempi della Caverna. Da sinistra: Michele De Filippis, Osvaldo Menna, Ivo Balduzzi, Fernando Sparvieri e Rino Di Cola, alla piccola fontana del Monumento ai Caduti.


A ripensarci oggi, quante emozioni ho vissuto anch'io dentro quella "Caverna", mentre mantenevo le candele. Raccontarle tutte è impossibile. Mi piace solo ricordare che nonostante fossi più piccolo di loro, forse perchè ero un discreto chitarrista che li faceva ballare, mi volevano un gran bene: mi portavano con loro in motocicletta, me le prestavano, mi offrivano qualche bicchiere di birra e tante sigarette.

Ed a proposito di sigarette, sopratutto la domenica, cambiava il clima lì dentro. Ogni tanto arrivava la nebbia, che era il fumo di centinaia di sigarette accese una dopo l'altra, che galleggiava pesante nell'aria, creando piccoli fasci luminosi colorati, illuminati dai faretti delle luci psichedeliche.

"Apréte ssa porte!!! Ne vedàte ca ve state attubbuanà' de fìmue a hésse dandre?" (Lasciate aperta la porta!!! Non vedete che vi state a riempire di fumo qui dentro), diceva sempre qualcuno che entrando all'improvviso, faciàve itteca' (facevano spaventare) le ragazze, che temevano l'arrivo del padre. Ma lo diceva così, tanto per dire chi entrava: dopo un po' si accendeva anche lui una sigaretta e elle spuppujéve (e lì tirava boccate), contribuendo con la sua parte di fumo a rendere ancora più affumicato l'ambiente.

Un fotomontaggio della Caverna, realizzata dal compianto Umberto Di Biase, in primo piano, insieme alla sua Vienna, pubblicata dopo 50 anni dalla chiusura su Sei di San Salvo se... Sulle loro teste si vede il simbolo di "divieto d'accesso ai matusa", scritta da Ennio Saba. E' una foto che rende l'idea, ma non reale. Tra i suonatori, alla sinistra si vede il batterista Michele De Filippis, gia adulto, che all'epoca non ancora iniziava a suonare la batteria. Alla sua sinistra, mi intravedo io con la mia chitarra, già con la barba ed i capelli lunghi. Poi alcuni componenti dei Prepotenti, che fatta eccezione di Antonino Chioditti, in realtà non si esibirono mai alla Caverna.


Era passato ormai più di un anno, da quando z'avè' morte l'asene de zi' Dumeneche (da  quando era morto l'asino di zio Domenico D'Addiego), e la sua morte non era stata vana.

"La morte sguaste e 'ggiste (la morte guasta ed aggiusta), si dice in dialetto salvalvese e proprio così era stato: la morte dell'asino aveva guastato i piani di Zi' Dumeneche, il nonno di Nicola, ma aveva aggiustato quelli di Vitale e dei suoi amici, regalando loro momenti di grande felicità, che solo la gioventù sa regalare.

I latini dicevano "mors tua vita mea" ed i francesi aggiunsero c'est la vie.

Ma ecco spuntare un mattino quella scritta verde sotto l’Arco della Terra: "Dio è morto".

Don Cirillo andò su tutte furie.

Ma chi poteva essere stato?

Sicuramenti i ragazzi della Caverna, pensarono.

I carabinieri intuirono che l’autore era tra quei giovani, tra cui alcuni capelloni, e vi arrivarono ad un pelo dallo scoprirlo, ma l’omertà ebbe la meglio.

In fondo perchè dirlo! Non era stato lui ad ucciderlo. Erano stati altri, da sempre, a farlo, ogni santo giorno. Gli avevano ucciso anche il figlio 1967 anni prima.

Fu la fine della Caverna e di molti sogni.

Non trascorse tempo che quella scritta venne definitivamente cancellata dalla pala di un escavatore, insieme alla Porta della Terra. Pare che Iddio, che era risorto dopo tre giorni, ma a nessuno glie ne fregava, se li portò con sé in Paradiso.

Ah! volete sapere chi scrisse quella frase?

Fu Umberto Di Biase.

Ma non era farina del suo sacco. Il vero autore era Francesco Guccini.

19 Settembre 2021

La Porta della Terra, durante i lavori di demolizione.


Foto e frasi beat
di Umberto Di Biase


Queste foto sono state scattate dal compianto Umberto Di Biase, 50 anni dopo la chiusura della Caverna, in cui tornò per pubblicarle sul gruppo Facebook di Sei di San Salvo se... I colori il tempo li ha sbiaditi, ma restano vivi nella memoria di quei ragazzi che la frequentarono.


La finestrella dov'era il palchetto dell'Orchestrina.
Notare il simbolo beat con il disegno di una chitarra.
LIBERTY FOR ALL

Scalzo ma libero e Love not war

Scritta dedicata da Umberto Di Biase all'amico Ennio Ranni, che da poco era emigrato per lavoro in Germania.

Chi parla dietro è debole

NOTA

Per la cronaca, a fianco del vecchio ufficio postale, vi era stata per lunghi anni, la Taverne de Zi' Pitre de Ufrazie (la Taverna di zio Pietro Fabrizio, figlio di Eufrasia), l'unica in paese, meta di i viandanti, de viatichére (di commercianti ambulanti forestieri), compresi zingari di passaggio, che lì trovavano in quella sola camera, che era una stalla, un giaciglio sulla paglia per trascorrere la notte, mangiando tutti insieme lo stesso misero pasto.







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