Dio è morto
di Fernando Sparvieri
“Dio è morto”.
Una scritta sacrilega, di color verde, recante la frase "Dio
è morto", realizzata con un grosso pennello sul muro interno
della Porta della Terra, a due passi dalla Chiesa di San
Giuseppe, apparve
a le femmenàlle (alle donne
anziane del popolino) che la mattina presto, alle 6:00, si
recavano
a la messetélle (alla piccola messa
mattutina).
Venne subito informato Don Cirillo, il prete, che si recò
sul posto e chiamò i carabinieri.
All’epoca i carabinieri erano “
la légge”, così li
chiamavano i sansalvesi, ed intervenivano su tutto. Poi li
aveva chiamati il prete, la più alta autorità religiosa del
paese, ed era impossibile dirgli di no.
Scattarono le indagini per appurare chi ne fosse stato
l'autore.
Fatto analogo, ma ben più grave, era accaduto nei primi anni
’50, quando sulla porta della chiesa, prima della
demolizione della vecchia torre campanaria, avvenuta i primi
giorni del 1960, sempre Don Cirillo, aveva trovato
appiccicati dei messaggi denigratori anonimi contro la
Chiesa, con un timbro apposto sopra, un triangolo nero, che
mettevano in cattiva luce l’operato del prete, reo di non
essersi accorto o di essere addirittura accondiscendente, a
storie d’amore tra giovani, che a detta dell'accusatore,
avevano scelto i banchi della chiesa, non come luogo di
preghiera, ma di segreti incontri d’amore con le ragazze.
Apriti cielo! Don Cirillo che faceva della morale
l’insegnamento più importante, che proibiva in chiesa
persino che le ragazze vi entrassero con abiti succinti ed a
maniche corte, andò su tutte le furie e chiamò addirittura
la polizia scientifica.
L'autore del sacrilegio,“Triangolo nero”, così venne
immediatamente chiamato dai sansalvesi, per via di quel
timbro a forma di triangolo, intinto di inchiostro nero, che
apponeva sui quei messaggi, dopo brevi indagini della
scientifica, venne subito smascherato. Come l’assassino che
torna sempre sul luogo del delitto, si presentò curioso
durante le indagini proprio in chiesa, suscitando
immediatamente i sospetti della polizia. Gli trovarono il
timbro, il tampone e l'inchiostro in soffitta e non gli
restò altro che confessare, senza fare però il nome degli
altri componenti del “nucleo eversivo”, di cui egli ne era
il capo, così come avevano stabilito tutti insieme in caso
di arresto di uno di loro.
Per questioni di privacy, non faccio oggi il nome, per una
promessa fatta a chi mi raccontò la storia. Mi limito solo a
scrivere che "Triangolo nero", divenne il suo soprannome,
che era un bravo ragazzo, molto vicino al mondo ecclesiale,
e che dopo il fattaccio, che fece scalpore in paese, emigrò
a Milano, tornando saltuariamente in paese, forse per la
vergogna.
Il vecchio portone d'ingresso
della Chiesa, prima della demolizione nel'61. Dinanzi,
tappezzata di manifesti elettorali, la casa di Tommasino
Russo, demolita alla fine degli anni '50.
Ora, quella nuova scritta “Dio è morto”, trovata sulla
parete dell'Arco della Terra, a distanza di circa un
decennio da quei messaggi del fantomatico “Triangolo nero”,
seppure rivolta direttamente al Padreterno e non al prete,
aveva fatto rivivere in Don Cirillo antichi sgomenti mai
sopiti, fantasmi mai del tutto scomparsi, e quindi voleva
scoprire, anche questa volta, a tutti i costi, chi ne fosse
stato l’autore.
Prima di svelarvi il nome dell'autore, devo però prima
raccontarvi una storia.
Eravamo nel '66 e l'amministrazione comunale continuava a
"buttare" per terra, tra gli applausi della gente, qualche
altra casa del Centro Storico, per allargare la piazza.
La prima casa demolita era stata, sul finire degli anni '50,
quella di Tomassino Russo, ubicata proprio dinanzi alla
chiesa, a cui erano seguite altre demolizioni nelle
immediate vicinanze. Ora era arrivato il turno
de lu bar
de Vitarìlle (il bar Sport di Vito Ialacci) con
annessa abitazione sovrastante, che sporgeva come un dente
in piazza tra la casa della famiglia Cilli, la prima a
sinistra, entrando dall'Arco della Terra, ed il palazzo di
Don Gustavo Cirese, il medico ed ex segretario D.C., che era
deceduto nel ’59 a seguito di un tragico incidente stradale,
avvenuto nella piana di San Pio delle Camere (AQ).
Nella foto si intravede sulla
sinistra il vecchio Bar di Vitarille, con l'abitazione
sopra, durante la benedizione del grano per i taralli di
San Vitale. L'edificio centrale è invece il palazzo
riedificato dal dott. Gustavo Cirese, prima della sua
morte avvenuta in un incidente stradale nel'59.
Pe' Vitarìlle (per Vito Ialacci), la perdita del suo
bar in quel punto strategico della piazza, era una cosa
grave. Dove avrebbe ritrovato un'altra casa, in piazza, per
riaprire il suo bar?
Gli venne incontro il fato ed il fatto. Il fato volle che
una notte crollasse il tetto del vecchio ufficio postale,
che si trovava proprio in piazza, ed il fatto fu che riuscì
a convincere l'amministrazione comunale, in cui era
consigliere di maggioranza, di aiutarlo a permutare la sua
vecchia casa con il diroccato edificio postale.
Vitarille (Vito Ialacci) il
secondo a sinistra, Consigliere Comunale, nell'aula
consiliare, il giorno in cui Vitale Artese venne
nominato commendatore, prima della nomina successiva a
Cavaliere (Anni '60)
La sua speranza si avverò.
I lavori partirono subito dopo. Ad eseguirli fu
'na
bella squadre de frabbecatìure (un bel gruppo di
muratori), quasi tutti parenti
di Vitarìlle. Era
composta: da Mario Ialacci, suo nipote, che era il
secondogenito di suo fratello
Dichidóre (Teodoro);
dall'altro suo nipote Vitale Ialacci, che era il terzogenito
di
Dichidóre; da Peppino Del Casale, che era il
genero di
Dichidóre avendo sposato Lina la
secondogenita di
Dichidóre;
da
Lido
Ialacci, che non era figlio di
Dichidóre, ma lo
conosceva bene e da Nicola D'Addiego, che conosceva
invece benissimo
Dichidóre, anzi lo chiamava
Zi'
Dichidóre, perchè sua madre Annina Di Bello, era la
sóra
cuggéne (cugina) omonima di Annina Di Bello, moglie di
Dichidóre.
Vitarìlle, per rendere i lavori più celeri, comprò ai
nipoti una bella betoniera nuova con motore a scoppio, che
mettàve a rebbélle la piazza (metteva a dura prova la
quiete della piazza), in modo che potessero impastare il
cemento non più a mano, come si usava tra i muratori locali
a quei tempi, e realizzare in fretta, sul sito ricavato
dalla demolizione del vecchio dell'Ufficio Postale, il suo
nuovo Bar Sport, con annessa abitazione ai piani superiori.
Nella foto, alle spalle degli
sposi, è visibile il vecchio Ufficio Postale, a destra.
La casa sulla sinistra era invece quella di Tumassine
Russo, la prima casa ad essere demolita alla fine degli
anni '50. Gli sposi sono 'Ntonie Carruzzire (Antonio
Fabrizio) e Olga Ilda Enelda Fabrizio, durante il
ritorno a casa dopo il rito religioso in chiesa.
Fatta questa necessaria precisazione, giusto per far
comprendere come fosse felice ed affratellata la famiglia di
Dichidóre, tornando alla nostra storia, bisogna
premettere che Vitale, il terzogenito di
Dichidóre,
all'epoca sedicenne, era da poco rientrato in paese da
Milano, dove, come tanti suoi coetanei, si era recato un
annetto prima, per lavoro. Lì, nella citta meneghina, aveva
visto cose mai viste prima. Aveva visto il Duomo, il
Castello Sforzesco, l'Idroscalo, lo stadio di San Siro, il
Milan, l'Inter, ed aveva visto che i ragazzi milanesi
andavano al club.
"
Pecca' ne faciame nu cleb!" (Perchè non facciamo un
club), disse un giorno Vitale a Nicola, mentre lavoravano
a
Vitarìlle. "
Ci purtame a bballá' pure le cálandre!"
(Ci porteremo a ballare anche le nostre ragazze).
"Le
so' veste gna funziàune a Milane" (Ho visto come
funziona un club a Milano).
"
Sciè! Ma addo' le mette?" (Si! Ma dove lo apri?),
gli aveva risposto Nicola. "
Aécche 'nci vede! 'Nci sta
manghe l'ucchie pe chiagne!" (A San Salvo non vedi?
Non abbiamo neppure gli occhi per piangere), aggiunse
riferendosi al fatto che era necessario prima trovare un
locale idoneo e poi i soldi per pagare l'affitto. "
E
dóppe", concluse in modo interrogativo: "
Addo' sta
sse cálandre?" (E poi! Dove le trovi queste
ragazze?).
"
Ca ci sta! Ci sta la mérce!" (C'è! C'è la merce!),
gli aveva risposto Vitale, per dire che anche a San Salvo
c'erano belle ragazze che potevano andare a ballare
a lu
cleb.
Vi è da dire che a San Salvo, all'epoca, non c’era un vero
luogo di ritrovo per i giovani, se non i bar. Locali per
ballare, manco a parlarne. A dire il vero, alcuni giovani
studenti, che andavano a scuola a Vasto, avevano cominciato
a ballare con le amiche studentesse nelle case private in
occasione di qualche festa di compleanno, ma
le
frabbecatiure (i muratori), pur avendo alcuni di loro
le ragazze, non ballavano proprio, a causa di antichi
pregiudizi dei genitori, che non vedevano di buon occhio che
le proprie figlie frequentassero i maschi.
"Qua ci vuole un club", aveva pensato più volte in mente sua
Vitale, ricordando la sua esperienza milanese, sperando che
lì le ragazze sarebbero andate a ballare la domenica, di
nascosto dai genitori. Ma era più un'illusione che una
certezza.
Ed ecco un bel giorno, o meglio un brutto giorno, dipende
dai punti di vista ed interessi, arrivare la sorte in suo
aiuto.
"Z'è morte l'asine!" (E' morto l'asino), gli disse
Nicola D'Addiego mentre lavoravano a
Vitarìlle.
"E ddo' z'è morte?", gli chiese Vitale.
"
A la stálle! Addo' ze vulave muré'!", (Alla stalla!
Dove pensavi che morisse), gli rispose Nicola.
"
A la stálle!!!" (Alla stalla!!!), esclamo' Vitale.
Fu un attimo.
"A elle ci putáme fa lu cleb!" (Lì, nella stalla
dell'asino, potremmo realizzare il club), esplose euforico,
dimenticandosi di dare le condoglianze al cugino Nicola per la
grave perdita subita.
Lì vicino, a due passi dal cantiere in cui stavano
ricostruendo il bar di
Vitarìlle, scendendo di qualche
metro la piccola discesa in 2° vico piazza, vi era una stalla,
che a seguito della morte del suo inquilino, cioè dell’asino
di
Zi’ Dumeneche D'Addiego
, nonno di Nicola,
ere spéccie (era libera).
La sua proprietà era di Don Gaetano de Vito, come la casa
sopra ed adiacenti, e considerato che si trattava pur sempre
di una stalla, anche l'affitto non poteva essere caro. "Gli
daremo gli stessi soldi che gli dava tuo nonno
a Don
Caddane" (a Don Gaetano), disse Vitale a Nicola,
pensando ad una colletta tra gli amici per la copertura
finanziaria.
Ne parlò con gli amici e li trovo' entusiasti. Anche con Don
Peppino, il figlio dell'anziano proprietario, trovarono un
accordo molto, ma molto bonario: "
Ma dáteme quélle che me
vulete da vu", aveva risposto loro Don Peppino in un
dialetto
arzeccucculujéte (ripulito), che medico
qual'era, aveva altri problemi per la testa.
Aveva avuto una storia importante quella stalla in paese,
anche se nessuno di quei ragazzi lo sapeva. Sembrava una
stalla
accusciè (normale), ma non lo era. Durante il
periodo del fascio, e forse anche prima, era stata adibita a
prigione, l'unica a San Salvo. Quando qualcuno faceva qualche
ssádatte (qualcosa che non doveva fare), era lì che
veniva rinchiuso per qualche giorno. L’aveva
assaggiáte
(provata) quella prigione, anche Mastro Luigi
Firpe (Di
Iorio), il sarto, che da giovane, quando lo vestirono da
Balilla, ad una precisa domanda del suo istruttore su cosa
significasse “lo spirito di corpo”, gli aveva risposto
sarcasticamente
lu scardìlle, termine muratoresco
che significava scorreggia, trascorrendovi un'intera notte.
La stalla che divenne sede
della Caverna, a destra. Vi era un notevole dislivello dal
suo pavimento interno al piano stradale.
Ora, ciò che era stato il simbolo della prigionia, della
dittatura, del manganello, dell'olio di ricino, stava per
diventare quello della libertà (Liberty for all).
E partirono i lavori. Ci pensò la betoniera di
Vitarìlle ad
impastare il cemento.
Vitale e Nicola, fatti i "funerali" all'asino, non attesero
manco
lu russìquie (le esequie), e da
mannébbele
(manovali) fecero i mastri muratori, mentre i loro amici, che
muratori non erano, divennero i loro
mannébbele.
L'entusiasmo salì alle stelle, o meglio alla stalla.
Tutti davano il loro contributo. E si scherzava.
“
Ue’! Aesse faciateje ‘na bella scalàlle, ca la uajauna ma’
è cioppe” (Ue! Ragazzi! Qui fateci dei bei gradini
perchè la mia ragazza è zoppa), se ne uscì tra l'ilarità di
tutti Ennio Ranni, che non aveva la ragazza, che notando che
c'era un un unico gradone, alto un mezzo metro circa, tra il
piano seminterrato della stalla ed il livello del piano
stradale, consigliò di aggiungerci un nuovo gradino.
Quella stalla era davvero molto bella. Aveva quattro volte a
botte, con mattoni a vista, con un pilastro centrale.
Terminato il massetto, con qualche sacco di cemento che
sgriscérene
(rubarono) a
Vitarìlle, subentrarono nei lavori altri
"specialisti".
Alfonso Franciotti, il futuro Foto Clic, fece l'impianto
elettrico applicando sui muri qualche decina di faretti
colorati, per dare un tocco di illuminazione psichedelica sui
muri e sul pavimento, una novità per l'epoca. Antonino
Chioditti, il futuro idraulico, che in quel periodo
jave a
lu mastre a Trentine, lu maréte de la mamméne (era
apprendista fabbro da Trentino, il marito della levatrice Nola
Armida), allungò un tubo di piombo sino ad un angolo, dove era
previsto il cosiddetto angolo bar.
Ora bisognava
sbianghe' (imbiancare i muri).
"
A sbianghè' ci penso io!", se ne uscì Umberto Di
Biase.
Il risultato fu che invece
de sbianghé' (di
imbiancare) colorò le pareti della stalla di tutti i colori
dell'arcobaleno, e non contento ideò simboli e slogan beat, da
dipingere e scrivere con un pennellino sui muri.
Ne ricordo uno in particolare, sul pilastro centrale della
stalla, visibile appena entrati. Dopo che Umberto vi dipinse
dipinto un segnale stradale di divieto d'accesso, disse ad
Ennio Saba, di scriverci sotto, con un pennellino, "ai
matusa", in modo che osservando il disegno e le parole, come
un rebus, assumesse il significato di "Divieto di accesso ai
matusa".
Ennio scrisse "ai matusi”, pensando giustamente che il suo
plurale fosse matusi, e quindi era giusto scriverlo con la i
invece che con la a. Fui proprio io, che nonostante avessi 13
anni ero sempre con loro, a correggerlo, dopo qualche iniziale
titubanza, non solo di Ennio, ma generale, essendo il termine
beat "matusa" da poco in uso, solo tra i giovani.
I lavori erano terminati, quando qualcuno fece notare: "
Sciè!
"Ma mo addo' z'assettame?" (Sì! Ma dove ci sediamo?).
L'idea fu geniale. Vennero fatti realizzare dei tavolini
circolari utilizzando i tronchi di una vecchia
cérche
(quercia) e con i suoi robusti rami, che avevano sempre forme
circolari, vennero realizzate decine
de predélalle (dei
piccoli sedili) a tre piedi.
Altra domanda: "
Scie'! Ni abballame, ma chi sone?" (Si!
Noi balliamo, ma chi suona?). Venne realizzata una pedana per
eventuali musicanti, che avrebbero allietato i pomeriggi
danzanti.
Nella foto alcuni fondatori del
club. Da sin. Vitale Ialacci, Ennio Saba, Tonino
Torricella (barbiere), Umberto Di Biase, Angiuline
Izzarille (Angelo Iezzi) ed un ragazzo vastese Franco
Desiderio. La foto è della serie "Quando ci si fotografava
con le chitarre, anche se non si era chitarristi".
La piccola chitarra elettrica, rosso sfumata, era di
Tonino Torricella e ce l'aveva nel suo salone in C.so
Garibaldi. L'aveva mandata a prendere a "Giovani", una
rivista beat dell'epoca, seguitissima dai giovani ed il
suo costo era di 20.000 lire.
Il club oramai era bello e pronto: un gioiello.
Lo chiamarono “LA CAVERNA”, dandogli un nome che gli si
addiceva molto. Era praticamente un seminterrato, con la porta
di ingresso in 2° Vico Piazza ed una finestrella che ridava
dietro, nella piazzetta del palazzo scolastico. D’altronde un
locale che era stato un piccolo carcere, non poteva avere
molte vie di fuga.
Com’era nei piani e nelle speranze dei ragazzi, dopo un mese
circa di lavori, si iniziò a ballare, tra mille colori e luci
psichedeliche.
Era una domenica pomeriggio, quando iniziarono ad arrivare
alla spicciolata le ragazze, di nascosto dai genitori.
Erano fresche e profumavano di gioventù quelle ragazze, anche
se ballando il lento, strette ai loro ragazzi, sudavano e
j
fuchejévene (si arrossavano) le orecchie, a maschi e
femmine,
All’epoca l’amore tra i giovani era serio. I ragazzi
frequentavano (
la uajàune) le proprie ragazze, sognando
che un giorno le avrebbero condotte all’altare.
E molti di questi sogni si avverarono.
E' il caso di Umberto Di Biase e Vienna Fantasia, di Vitale
Ialacci ed Enrichetta Franciotti, di Osvaldo Menna ed Angela
Del Pavignano, di Alfonso Franciotti e Consiglia Menna, la
sorella maggiore di Osvaldo.
Ed a proposito di Osvaldo, sul quel palchetto, lì in fondo,
sotto la finestrella, vi suonava il complessino I FACILI, di
cui egli era il cantante ed io il chitarrista solista.
Lui cantava ed ogni tanto andava a ballare con la sua Angela,
mentre io, con la mia chitarra elettrica suonavo Maria Elena
ed altri brani di Santo & Jonny, mantenendo la candela a
Osvaldo ed ai muratori & C.
Non ero però l'unico a mantenerle. Mi tenevano compagnia
Michele De Filippis alla chitarra ritmica, Rino di Cola al
basso, e sovente Antonino Chioditti, l’idraulico, all'epoca
bassista del complesso Prepotenti, che in quel periodo
soffriva l'assenza del loro leader, di Tonino Masciale, che
proprio quell'anno era stato scritturato come chitarrista
dall’Orchestra Cesare De Cesaris. Si aggiunse, ai reggitori di
candele quando si chiusero le scuole, anche Ivo Balduzzi, che
suo padre Leone, aveva mandato a studiare a Lanciano durante
l'anno scolastico, dopo che aveva frequentato le medie a
Chieti, nel famoso Collegio G.B. Vico.
I FACILI, nome dato al gruppo
da Osvaldo Menna, ai tempi della Caverna. Da sinistra:
Michele De Filippis, Osvaldo Menna, Ivo Balduzzi, Fernando
Sparvieri e Rino Di Cola, alla piccola fontana del
Monumento ai Caduti.
A ripensarci oggi, quante emozioni ho vissuto anch'io dentro
quella "Caverna", mentre mantenevo le candele. Raccontarle
tutte è impossibile. Mi piace solo ricordare che nonostante
fossi più piccolo di loro, forse perchè ero un discreto
chitarrista che li faceva ballare, mi volevano un gran bene:
mi portavano con loro in motocicletta, me le prestavano, mi
offrivano qualche bicchiere di birra e tante sigarette.
Ed a proposito di sigarette, sopratutto la domenica, cambiava
il clima lì dentro. Ogni tanto arrivava la nebbia, che era il
fumo di centinaia di sigarette accese una dopo l'altra, che
galleggiava pesante nell'aria, creando piccoli fasci luminosi
colorati, illuminati dai faretti delle luci psichedeliche.
"
Apréte ssa porte!!! Ne vedàte ca ve state
attubbuanà' de fìmue a hésse dandre?" (Lasciate aperta
la porta!!! Non vedete che vi state a riempire di fumo qui
dentro), diceva sempre qualcuno che entrando all'improvviso,
faciàve
itteca' (facevano spaventare) le ragazze, che temevano
l'arrivo del padre. Ma lo diceva così, tanto per dire chi
entrava: dopo un po' si accendeva anche lui una sigaretta
e
elle spuppujéve (e lì tirava boccate),
contribuendo con la sua parte di fumo a rendere ancora più
affumicato l'ambiente.
Un fotomontaggio della Caverna,
realizzata dal compianto Umberto Di Biase, in primo piano,
insieme alla sua Vienna, pubblicata dopo 50 anni dalla
chiusura su Sei di San Salvo se... Sulle loro teste si
vede il simbolo di "divieto d'accesso ai matusa", scritta
da Ennio Saba. E' una foto che rende l'idea, ma non reale.
Tra i suonatori, alla sinistra si vede il batterista
Michele De Filippis, gia adulto, che all'epoca non ancora
iniziava a suonare la batteria. Alla sua sinistra, mi
intravedo io con la mia chitarra, già con la barba ed i
capelli lunghi. Poi alcuni componenti dei Prepotenti, che
fatta eccezione di Antonino Chioditti, in realtà non si
esibirono mai alla Caverna.
Era passato ormai più di un anno, da quando
z'avè' morte
l'asene de zi' Dumeneche (da quando era morto
l'asino di zio Domenico D'Addiego)
, e la sua morte non
era stata vana.
"
La morte sguaste e 'ggiste (la morte guasta ed
aggiusta), si dice in dialetto salvalvese e proprio così era
stato: la morte dell'asino aveva guastato i piani di
Zi'
Dumeneche, il nonno di Nicola, ma aveva aggiustato
quelli di Vitale e dei suoi amici, regalando loro momenti di
grande felicità, che solo la gioventù sa regalare.
I latini dicevano "mors tua vita mea" ed i francesi aggiunsero
c'est la vie.
Ma ecco spuntare un mattino quella scritta verde sotto l’Arco
della Terra: "Dio è morto".
Don Cirillo andò su tutte furie.
Ma chi poteva essere stato?
Sicuramenti i ragazzi della Caverna, pensarono.
I carabinieri intuirono che l’autore era tra quei giovani, tra
cui alcuni capelloni, e vi arrivarono ad un pelo dallo
scoprirlo, ma l’omertà ebbe la meglio.
In fondo perchè dirlo! Non era stato lui ad ucciderlo. Erano
stati altri, da sempre, a farlo, ogni santo giorno. Gli
avevano ucciso anche il figlio 1967 anni prima.
Fu la fine della Caverna e di molti sogni.
Non trascorse tempo che quella scritta venne definitivamente
cancellata dalla pala di un escavatore, insieme alla Porta
della Terra. Pare che Iddio, che era risorto dopo tre giorni,
ma a nessuno glie ne fregava, se li portò con sé in Paradiso.
Ah! volete sapere chi scrisse quella frase?
Fu Umberto Di Biase.
Ma non era farina del suo sacco. Il vero autore era Francesco
Guccini.
19
Settembre 2021
La Porta della Terra,
durante i lavori di demolizione.
Foto e frasi beat
di Umberto Di Biase
Queste foto sono state
scattate dal compianto Umberto Di Biase, 50 anni dopo la
chiusura della Caverna, in cui tornò per pubblicarle sul
gruppo Facebook di Sei di San Salvo se... I colori il
tempo li ha sbiaditi, ma restano vivi nella memoria di
quei ragazzi che la frequentarono.
La finestrella dov'era il palchetto dell'Orchestrina.
Notare il simbolo beat con il disegno di una chitarra.
LIBERTY FOR
ALL
Scalzo ma
libero e Love not war
Scritta dedicata da Umberto Di Biase all'amico Ennio
Ranni, che da poco era emigrato per lavoro in Germania.
Chi parla dietro è debole
NOTA
Per la cronaca, a fianco del vecchio ufficio postale,
vi era stata per lunghi anni, la Taverne de Zi'
Pitre de Ufrazie (la Taverna di zio Pietro
Fabrizio, figlio di Eufrasia), l'unica in paese, meta di i
viandanti, de viatichére (di commercianti ambulanti
forestieri), compresi zingari di passaggio, che lì
trovavano in quella sola camera, che era una stalla, un
giaciglio sulla paglia per trascorrere la notte, mangiando
tutti insieme lo stesso misero pasto.