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Ogni mondo è paese, ma il mio paese è il mio mondo.
Fernando Sparvieri







Ma chi sarebbero li salvanése

I racconti di Fernando Sparvieri



Un po' di storia locale raccontando personaggi










Lu morte
(I funerali a San Salvo)

di Fernando Sparvieri




Vedendo proprio in questi giorni, un'antica foto della vecchia Chiesa di San Giuseppe, è balzato immediatamente ai miei occhi, un addobbo funebre di colore nero, con finimenti dorati, che negli anni '50, nella giornata in cui vi era lu mórte (un funerale), Uggénie lu sagrastane (Eugenio De Francesco, il sagrestano), collocava dinanzi al portone d'ingresso della chiesa. Stesso addobbo, facente parte della serie, veniva collocato, sempre da Uggénie, appena veniva a sapere ca z'ave' morte cacchedìiune (che qualcuno aveva reso l'anima a Dio) sul portone della casa del defunto, in segno di lutto.

Erano addobbi, quelli, che rendevano l'aria cupa, anche se c'era il sole. E poi, sentire per ore e ore, che la cambane che sunave a morte (quei rintocchi della campana che suonava a morto), finivano a chiude l'opere (a chiudere l'opera), nel senso che rendevano ancor più triste l'atmosfera di lutto che si impossessava dell'allor piccolo paese.

A quei tempi non era come oggi, che per tramite facebook, arrivano le ferali notizie delle persone decedute.

C'era la campana.

"Chi z'ha vulute muré'
?" (Chi sarà morto), era la prima domanda che si ponevano tra i vicoli,  sopratutto le donne anziane, ai primi rintocchi.

"Ni saccie", rispondeva quasi sempre l'interpellata di turno, sopratutto se il morto era fresco (recente).

"Dece ca ze vuléve muré'..." e lì iniziavano le supposizioni, di chi potesse essere il morto, facendo nome e cognome di una persona che avevano sentito dire che stava a muretàure (malissimo) e quindi "ze vuléve muré'", inteso non come desiderio di morire, ma con il significato che stava per rendere l'anima a Dio.

E qui, per meglio rendere l'idea, lascio la parola a Sebastiano Valentini.

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Vi era una differenza sostanziale all'epoca tra i funerali dei ricchi e quelli dei poveri, che il tempo ha parzialmente cancellato.

Il morto ricco riceveva un funerale in pompa magna, con tanto di corone di fiori e carrozza funebre, che l'aveva Valérie (Valerio Torricella), anche se non era di sua proprietà, ma di un'impresa di pompe funebri di Vasto.

Il poveraccio, invece, lo portavano a spalla e non vedevano l'ora di scaricarlo, ma non solo quelli che trasportavano la bara, ma anche gli altri che li seguivano: tutti avevano fretta di tornare prima degli altri a casa del defunto per dare le condoglianze ai familiari. Così si usava.

I familiari del defunto facoltoso, chiamavano "il Capitolo", che era una lunga fila di frati e fraticelli del convento dell'Incoronata di Vasto, che precedeva il feretro durante i funerali. Davanti andavano, in fila per due ed in ordine di altezza, le municiarílle (i fraticelli), bambini vestiti da frati, che frequentavano il collegio dell'Incoronata, mentre dietro le munície (i frati anziani). Durante il corteo funebre, recitavano le preghiere.

E qui lascio la parola a Pasqualino Cilli.

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il 19 Ottobre 1959 un grave lutto colpisce San Salvo. Il dott. Gustavo Cirese, medico, segretario DC, perisce in un tragico incidente stradale. Notare in primo piano alcuni frati del"Capitolo" ed in fondo, sul portone di casa, l'addobbo funebre.


Anche all' epoca, ai ricchi o a persone importanti del paese, si faceva l'elogio funebre al cimitero, ricordando la sua persona e le sue azioni in vita. Il poveraccio invece, se ne andava da morto di fame, e spesso questa era la vera causa del decesso, solo tra la disperazione dei suoi cari, che z'avevena fa' curaggie (dovevano farsi coraggio) tra di loro, a chiécchiere murte (a chiacchiere morte), trattandosi di un funerale.

Come già detto,  le condoglianze ai familiari non si davano al cimitero. Era usanza tornare a casa del defunto.  Lì si creava una processione di persone che saliva e scendeva le scale di casa, spesso ripide. Una parente più stretta o qualche famiglia amica, dopo la cerimona funebre, portava "lu cunsole", un pranzo consolatorio offerto ai familiari del morto, che a quel punto era bello e sistemato, sotto tutti i punti di vista, da solo al cimitero.

Diceva Mastr'Angelo De Felice, il fabbro, a proposito della morte: "Io non temo di morire. Quando una persona muore è una festa. Vengono i parenti, gli amici, ti fanno visita, ti portano i fiori". Poi concludeva: "Il bruttì è quando rimano soli!!!", riferendosi alla prima notte della salma in cimitero.

Come dice un detto paesano, 'Nci sta 'na spose senza chiande e 'nci sta nu morte senza rése (Non c'è una festa nuziale senza un momento di pianto e non c'è un funerale senza che scappi da ridere), ma a questo punto mi è d'obbligo lasciare la parola nuovamente a Sebastiano Valentini.

Meglio di lui non vi potrà far ridere mai nessuno.

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Di questi tempi, con la pandemia non debellata, che ha stravolto le abitudini e le consuetudini della gente, anche je' a lu morte (andare ai funerali) è mutato. Il protocollo sanitario impone nuove regole, come quello di non creare assembramenti, vietando i cortei funebri ed in modo particolare stravolgendo il modo di esprimere le proprie condoglianze alla famiglia del defunto. Dopo la cerimonia religiosa in chiesa, vi è come uno sciogliere le righe e come si direbbe in italiano arrivederci e grazie.

25 Settembre 2021





I racconti di Fernando Sparvieri

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Gente, usi e costumi del mio paese



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di Fernando Sparvieri

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